Disclaimer:
I
personaggi non appartengono alla sottoscritta, ma ad Hoshino-sensei.
I
dialoghi presenti nella oneshot sono fedelmente ripresi dal manga (volume 9).
Note: perché quando a me prende la febbre e mi ritrovo sul divano e
sotto una coperta annoiandomi mortalmente, imprecando contro il mal di testa,
mi sento tanto Kanda. E se mi sento Kanda, mi viene da scrivere in pov di Allen
*si rende conto che tutto ciò è ben lontano dal normale* >.>
In
ogni caso, ho di nuovo “preso di mira” una delle parti degli attuali 15 numeri
che a me è piaciuta di più.
Ho
seriamente amato Komui.
Special
Thanks: a coloro che hanno commentato “E
poi, silenzio”. Kaho_chan; Sephta; Aki_; e gatsu92.
Grazie
davvero ^^
Dedica:
ad Ally, che è la mia ispirazione continua per
degli scleri da Oscar su Lavi e Yucchi XD
Ad
Aki_, che mi fa sempre tornare la voglia di scrivere su questo manga.
We’ll surely
come back
Il motivo per cui ci si avventura nell’Arca…
è molto diverso da quello per cui si tenta di uscirne.
Avanza nell’arca, Allen, i
suoi stessi passi non sono sicuri.
È come camminare nel buio
senza vedere su cosa poggi i piedi, come dover cadere da un momento all’altro,
precipitando nel nulla.
Gli occhi chiusi, con
addosso la sensazione di non volerli affatto aprire.
L’oscurità, a volte, è molto
più sicura della luce: potresti non essere costretto ad osservare quella realtà
che è spesso troppo dura, troppo pesante.
Troppo difficile.
«Mi senti, Allen? Sei
riuscito ad entrare… dentro l’Arca?» chiede la voce di Komui, così vicina al
suo orecchio grazie alla radio di Bak, che per un attimo, uno solo, Allen
potrebbe aggrapparsi all’illusione di non essere solo lì.
Di avere un compagno al
proprio fianco.
Non ha scelta se non aprire
gli occhi, per poter rispondere.
E, pian piano, la luce torna
a prendere il posto dell’oscurità.
Perplessità, incredulità:
una città.
«Oh? Che c’è?!» la voce di
Komui risuona di nuovo così vicina, nel suo orecchio, in un certo senso subito
all’erta. Allen sbatte un paio di volte le palpebre.
«Ah, niente. È che è molto
diversa da come l’immaginavo…» ammette, ancora sorpreso.
Chi, d’altra parte, entrando
in un luogo nemico non avrebbe immaginato un posto quanto meno ostile?
Chi, sapendo di addentrarsi
in un’ “arca”, si sarebbe aspettato una cosa simile?
«Cosa vedi?» indaga Komui,
quasi nell’immediato.
«Una città a perdita
d’occhio… sembra un paese del Sud.» ammette Allen, cercando di spiegarsi al
meglio. Se la situazione fosse un’altra, se l’occasione fosse un’altra,
descrivere con la voce quel che si vede ad una persona che non può osservare il
nostro stesso scenario potrebbe persino rivelarsi divertente.
Come un gioco per bambini.
Ma l’Arca di Noè, non è un
gioco.
«Fisicamente come ti senti?»
chiede Komui, scrupoloso come ben pochi si aspetterebbero.
«Tutto a posto. Proseguo.»
replica, deciso, come se ogni incertezza avuta precedentemente fosse già
scomparsa.
Lo sa Allen: è l’unico lì
nell’Arca, non può assolutamente fallire, non può fuggire, se anche volesse.
Deve restare, descrivere:
come con una persona impossibilitata a vedere.
«Con cautela, mi raccomando!
Soprattutto, non perderti!» sottolinea Komui.
Ad Allen, viene da
sorridere: è quando fa dei rimproveri o delle raccomandazioni simili, che Komui
gli appare come un fratello maggiore non solo per Linalee, ma anche per tutti
gli Esorcisti dell’Ordine.
Lui, che insieme alla
sezione scientifica non scende sul campo di battaglia, continua a sforzarsi per
essere di supporto. E si preoccupa, più di ognuno di loro.
«Signor Komui?» chiama
Allen, avanzando. Lo sguardo per un attimo si perde verso il cielo, una
farfalla che sta attraversando la volta – perché non è forse un soffitto,
quello? È davvero un’arca? – che funge da cielo.
O, chissà, magari è il cielo
per davvero.
Se fosse più attento,
arriverebbe a collegare che vedere una farfalla nell’arma del Conte del
Millennio non è affatto di buono auspicio: forse, Allen non ricorda già più
quel membro della famiglia Noah che è il motivo per il quale la sua Innocence
ha rischiato di scomparire.
Oppure, semplicemente, si
tratta di Allen.
Forse, è naturale che vada
così.
«Mh?»
«Gli altri staranno tutti
bene?» domanda Allen appena Komui gli dà modo di capire che è ancora in
ascolto.
Dopotutto, è quella una
delle maggiori paure di chi è nell’Ordine Oscuro.
È probabile e non sarebbe
strano, che ci sia molta più paura per la vita dei propri compagni, che per la
propria. Perché un compagno è come un fratello.
Perché l’Ordine è come una
casa.
E perché rimanere da soli in
vita è molto più difficile che morire e lasciare che siano altri a dover
sopportare il peso della solitudine e del senso di colpa per non aver protetto
qualcuno di importante.
Komui indugia e quasi Allen
rallenta il passo: «Quando ci sentiamo in ansia, dobbiamo pensare a cose
piacevoli.» replica il supervisore.
Allen si ferma,
l’espressione – se Komui potesse vederla – simile a quella sorpresa di un
bambino di fronte a qualcosa di sconosciuto, di inaspettato.
Come se non avesse mai
sentito parlare di quelle… “cose”.
«Cose piacevoli?» domanda,
la perplessità nella voce.
«Come? Non ti viene in mente
niente? Per esempio…» indugia sulla replica, soppesando la cosa. Evidentemente
sta cercando uno degli esempi migliori che può dare.
Allen resta in attesa,
ancora fermo.
Come se, senza le parole di
Komui nell’orecchio non potesse avanzare: se fosse l’epoca adatta, si potrebbe
anche parlare di un automa, un cyborg, ma non è questo il caso.
«…quando tutti tornerete a
casa.» concluse quella frase lasciata in sospeso.
Allen non è colto poi molto
di sorpresa, né per la voce, né per le parole: attendeva la risposta con la
stessa impazienza che si prova la notte di Natale mentre si aspetta di scartare
i regali.
E Komui è sempre stato così:
sembra quasi che l’ottimismo sia l’unica cosa di cui riesce a farsi portavoce.
A ben pensarci,il
supervisore è sempre stato così: sorride per primo ed è capace di dirlo.
Pronunciare quelle parole che lì, nella sede dell’Ordine, sono difficili
persino da sussurrare.
Andrà tutto bene.
Abbiate fede.
Ce la faremo.
«Innanzitutto, vi dirò
“bentornati” con una pacca sulla spalla.» riprende Komui, direttamente al suo
orecchio.
Socchiude gli occhi,
cercando di immaginare la scena.
L’atrio dell’Ordine Oscuro,
con il solito movimento di Finder, Esorcisti e addetti alla Scientifica che
vanno avanti e indietro, impegnati nelle loro mansioni, o anche semplicemente
per andare fino alla mensa.
Tutti, nelle loro divise,
alcuni dei quali si sarebbero fermati a salutarli.
Quelli più vicini, più
conosciuti; altri si sarebbero limitati a sorridere nel vedere dei compagni
tornare, sani e salvi, ancora una volta. E chissà – gli venne da sorridere –
uno di loro sarebbe corso alla mensa da tutti gli altri o per i corridoi e
avrebbe avvisati che sì, erano tornati e stavano bene.
Poteva sembrare un
atteggiamento infantile, ma quando qualcuno usciva in missione, per quanto le
speranze fossero alte, non avevi mai la certezza che sarebbero tornati.
Mai davvero.
«E abbraccerò Linalee forte
forte!» lo sente aggiungere.
Non può non ridacchiare, per
quanto flebilmente, quasi non volesse essere sentito, temendo di interrompere
quelle che alle sue orecchie giungono come rassicurazioni. Come un calore
strano ma piacevole, proprio lì, al centro del petto.
Se lo ricorda, il primo
incontro con Linalee e tutto quello che la ragazza ha sempre significato ai
suoi occhi: una persona forte eppure così fragile. Come una sorella, come una
migliore amica, come una compagna.
Era facile, stare con
Linalee: forse, perché non era mai sembrata spaventata da quel suo occhio.
Perché per lui, per Allen, tutto
ruotava attorno a quello.
Quella sua maledizione.
Linalee rappresentava, per
lui, la certezza di essere sempre accolto con calore, malgrado non potesse più
definirsi… un essere umano.
Non in tutto e per tutto.
E malgrado lo volesse, con
tutto se stesso; non importava quanto potesse somigliarvi. Allen aveva smesso
di considerarsi un essere umano molto tempo prima.
«Per te, dovremmo tener
pronta un mucchio di roba da mangiare, eh.» sente Komui aggiungere.
Oh, quello sarebbe stato da
ridere: immaginava Jerry che cucinava per un esercito e alla fine sfamava solo
lui.
Il tutto con il
chiacchiericcio della mensa: qualcuno avrebbe riso perché abituato alla scena
di una montagna di piatti su un tavolo e di fronte ad una sola persona.
Altri – probabilmente i nuovi
arrivati, o quelli per cui lo spettacolino sarebbe stato inusuale a causa
dell’assenza dall’Ordine – sarebbero rimasti a bocca aperta, chiedendosi se non
fosse uno scherzo.
E qualcuno, sarebbe stato in
disparte, senza curarsene, abituato – benché
senza ammetterlo mai – a quella scena ormai… familiare.
Già. Komui gli dava sempre
quella sensazione di “famiglia”.
«Lavi probabilmente si
addormenterà da qualche parte, quindi bisognerà avere una coperta a portata di
mano…» prosegue Komui.
E ad Allen viene inevitabilmente
da sorridere all’immagine mentale della zazzera rossa dell’allievo di Bookman.
È un sentimento strano,
quello che sente quando pensa a Lavi.
Il primo incontro era stato
di certo abbastanza particolare da rimanere impresso nella memoria: era stata
l’unica volta in cui non era stato in grado di utilizzare il proprio occhio
destro.
La prima ed unica volta in
cui aveva avuto paura.
Quell’occhio, quella
maledizione e quella sua capacità di vedere gli Akuma, c’erano sempre stati:
senza, era come scoperto.
E ricordava – gli capitava
spesso, quando era con Lavi – che era un occhio comodo, il suo.
Uno specchio sulla casa
degli orrori del Conte del Millennio: anime senza redenzione alcuna, se non la
speranza di essere distrutte sottoforma di Akuma.
Una seconda morte.
Lui uccideva, eppure voleva
essere un salvatore.
E ricordava – dopotutto era
con Lavi, che era accaduto – al castello di Crowley, i fiori, Eliade, la
sofferenza di quello che sarebbe stato il loro nuovo compagno, la paura che si
fosse ucciso nel castello dopo averli fatti uscire.
Ed infine, quelle parole
dette da Lavi, quelle che lui non aveva sentito, perché già sul treno.
Ma quelle che aveva letto
nel suo tono – poteva definirlo “spaventato”? – quando aveva visto l’anima di
un Akuma attraverso il suo occhio.
Non era un bello spettacolo.
Una finestra sull’Inferno,
certo.
Ma lui, nell’Inferno, ci
viveva già da un po’.
«I grandi brinderanno con un
bicchiere di vino.» osserva Komui, mentre Allen ha ripreso a camminare,
osservando davanti a sé senza davvero vedere, forse.
La mente è focalizzata su
altro: all’Ordine, non c’erano molti giovani, non quanto lui in effetti.
Eppure, chissà perché, a
focalizzare la mente sulla frase del supervisore, c’era un volto che spiccava
fra tutti quelli adulti che aveva scorto nella sede dell’Ordine.
Strano – si era detto –
perché in sede, lui non ce lo aveva mai visto.
Eppure, se si parlava di
bere, se si parlava di adulti che brindano con un bicchiere di vino alla
vittoria, seppur di una sola battaglia, sul Conte e sugli Akuma… non poteva che
pensare al suo maestro.
Il Generale Cross Marian.
L’uomo che ora non sapeva nemmeno dove si trovasse, quello che lo aveva mandato
allo sbaraglio alla sede con come guida Timcanpi.
L’uomo le cui parole, fin
dalla prima volta che le aveva sentite, erano rimaste ferme, nella sua mente,
come se non facessero altro che ripetersi.
Non diventeresti un Esorcista?
«È davvero il massimo…
addormentarsi dopo aver fatto baldoria.» prosegue Komui.
Sorride.
Perché non può fare altro,
se immagina il caposezione Reever ubriaco, mentre Jhonny – magari a sua volta
alticcio, perché no – blatera a proposito di una partita a scacchi lasciata in
sospeso.
E Jerry – non lo sa, ma ha
sempre avuto l’impressione che regga benissimo l’alcool – che ride osservandoli
mezzi ubriacati, a far casino, alzando le voci ilari per un successo che non è
certo il simbolo della vittoria di una guerra.
Ma quello di una vittoria
personale sì: significherà che sono tutti lì, insieme. Che sono tornati
malgrado il Conte, i Noah, gli Akuma.
Significherà che non
importa, se quella vita che vivono come Esorcisti è l’Inferno o il tanto
decantato Paradiso. È comunque vita. E loro sono tutti a casa, di nuovo.
«Poi, un po’ in ritardo…» lo
sente riprendere, proprio quando non pensava più alla voce di Komui, quasi
dimentico della radio di Bak e del fatto di essere nell’Arca: «…si presenterà
Kanda, con il solito sguardo truce.» conclude.
C’è ilarità nella voce,
mentre ad Allen torna in mente un ricordo che, al massimo, gli fa uscire una
risatina leggera e un po’ nervosa.
Oh se lo ricorda, lo sguardo
truce di Kanda: come si fa a dimenticare quella persona che la prima volta che
l’aveva vista gli era parsa né più né meno di una macchina da guerra?
Chiaramente, l’obiettivo da
eliminare quella volta era stato lui.
Anche Kanda, se ci ragionava
un po’ su, era un pensiero strano: continuava a chiamarlo “mammoletta” – ah,
quanto gli dà sui nervi! – e la loro prima missione era stata un fallimento
quasi su tutta la linea.
Diceva di mal sopportarlo,
Kanda, o così dava a vedere.
Quanto il giapponese,
almeno.
Eppure, a volte si ritrovava
a pensare che l’altro non avesse esattamente torto: la sua ingenuità era
davvero mostruosa.
Solo che, malgrado se ne
rendesse conto, non riusciva a smettere di essere così: pensare che non potesse
esistere alcun modo di riscattare le colpe degli Esorcisti, era troppo
difficile.
E non importava, quanto
Kanda si lamentasse o fosse asociale. O quanti sguardi truci gli avrebbe
rifilato quando, tornando a casa, avrebbe scoperto che di nuovo, in missione
lui era stato così diverso da come invece era lui.
Freddo, calcolatore.
Spietato. Non era errato, pensarlo di Kanda, almeno un po’.
Non gli importava – anche se
quel “mammoletta”… – se rispondendo ad una delle sfrecciatine del giapponese,
si sarebbe ritrovato la sua katana puntata alla gola.
Anzi, si poteva dire che se
lo aspettava, che quasi lo sperava.
No, nessun atto di
masochismo: ma se non gli puntava contro Mugen, quello non era Kanda.
E non sarebbe stata la
normalità, se Lavi per calmarlo non l’avesse chiamato “Yucchan”, guadagnandosi
un’occhiata omicida e un Kanda che lo seguiva con Mugen sguainata, già
dimentico di Allen.
Lavi avrebbe corso per tutta
la mensa – magari con la coperta preparata da Komui come mantello – con un
continuo ripetersi di: “Waaaah” e “Dai, non arrabbiarti Yucchan!”.
Linalee avrebbe riso
divertita alla scena e con lei anche tutti gli altri, compreso lui.
Non era una scena seria, per
l’Ordine Oscuro, quello al servizio del Papa, i cui Esorcisti erano uomini
pronti a morire pur di distruggere il Conte.
Ma se, al loro ritorno, la
scena sarà davvero quella che aveva immaginato sulla descrizione di Komui,
allora non importa – pensò – qual’era la fama dell’Ordine.
Significherà che è tutto a
posto, tutto alla normalità a cui sono abituati.
Significherà che, non
importa come, né perché e nemmeno se era considerato impossibile.
Loro saranno ancora tutti vivi.