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Autore: Shichan    23/01/2009    3 recensioni
«Gli altri staranno tutti bene?» domanda Allen appena Komui gli dà modo di capire che è ancora in ascolto.
Dopotutto, è quella una delle maggiori paure di chi è nell’Ordine Oscuro.
È probabile e non sarebbe strano, se ci fosse molta più paura per la vita dei propri compagni, che per la propria. Perché un compagno è come un fratello.
Perché l’Ordine è come una casa.
E perché rimanere da soli in vita è molto più difficile che morire e lasciare che siano altri a dover sopportare il peso della solitudine e del senso di colpa per non aver protetto qualcuno di importante.

[Cronologicamente collocata alla fine del volume 9, al primo ingresso di Allen nell'Arca.]
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allen Walker, Komui Lee
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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We’ll surely come back

Disclaimer:  I personaggi non appartengono alla sottoscritta, ma ad Hoshino-sensei.

I dialoghi presenti nella oneshot sono fedelmente ripresi dal manga (volume 9).

Note: perché quando a me prende la febbre e mi ritrovo sul divano e sotto una coperta annoiandomi mortalmente, imprecando contro il mal di testa, mi sento tanto Kanda. E se mi sento Kanda, mi viene da scrivere in pov di Allen *si rende conto che tutto ciò è ben lontano dal normale* >.>

In ogni caso, ho di nuovo “preso di mira” una delle parti degli attuali 15 numeri che a me è piaciuta di più.

Ho seriamente amato Komui.

Special Thanks: a coloro che hanno commentato “E poi, silenzio”. Kaho_chan; Sephta; Aki_; e gatsu92.

Grazie davvero ^^

Dedica: ad Ally, che è la mia ispirazione continua per degli scleri da Oscar su Lavi e Yucchi XD

Ad Aki_, che mi fa sempre tornare la voglia di scrivere su questo manga.

 

We’ll surely come back 

 

Il motivo per cui ci si avventura nell’Arca…

è molto diverso da quello per cui si tenta di uscirne.

 

Avanza nell’arca, Allen, i suoi stessi passi non sono sicuri.

È come camminare nel buio senza vedere su cosa poggi i piedi, come dover cadere da un momento all’altro, precipitando nel nulla.

Gli occhi chiusi, con addosso la sensazione di non volerli affatto aprire.

L’oscurità, a volte, è molto più sicura della luce: potresti non essere costretto ad osservare quella realtà che è spesso troppo dura, troppo pesante.

Troppo difficile.

«Mi senti, Allen? Sei riuscito ad entrare… dentro l’Arca?» chiede la voce di Komui, così vicina al suo orecchio grazie alla radio di Bak, che per un attimo, uno solo, Allen potrebbe aggrapparsi all’illusione di non essere solo lì.

Di avere un compagno al proprio fianco.

Non ha scelta se non aprire gli occhi, per poter rispondere.

E, pian piano, la luce torna a prendere il posto dell’oscurità.

Perplessità, incredulità: una città.

«Oh? Che c’è?!» la voce di Komui risuona di nuovo così vicina, nel suo orecchio, in un certo senso subito all’erta. Allen sbatte un paio di volte le palpebre.

«Ah, niente. È che è molto diversa da come l’immaginavo…» ammette, ancora sorpreso.

Chi, d’altra parte, entrando in un luogo nemico non avrebbe immaginato un posto quanto meno ostile?

Chi, sapendo di addentrarsi in un’ “arca”, si sarebbe aspettato una cosa simile?

«Cosa vedi?» indaga Komui, quasi nell’immediato.

«Una città a perdita d’occhio… sembra un paese del Sud.» ammette Allen, cercando di spiegarsi al meglio. Se la situazione fosse un’altra, se l’occasione fosse un’altra, descrivere con la voce quel che si vede ad una persona che non può osservare il nostro stesso scenario potrebbe persino rivelarsi divertente.

Come un gioco per bambini.

Ma l’Arca di Noè, non è un gioco.

«Fisicamente come ti senti?» chiede Komui, scrupoloso come ben pochi si aspetterebbero.

«Tutto a posto. Proseguo.» replica, deciso, come se ogni incertezza avuta precedentemente fosse già scomparsa.

Lo sa Allen: è l’unico lì nell’Arca, non può assolutamente fallire, non può fuggire, se anche volesse.

Deve restare, descrivere: come con una persona impossibilitata a vedere.

«Con cautela, mi raccomando! Soprattutto, non perderti!» sottolinea Komui.

Ad Allen, viene da sorridere: è quando fa dei rimproveri o delle raccomandazioni simili, che Komui gli appare come un fratello maggiore non solo per Linalee, ma anche per tutti gli Esorcisti dell’Ordine.

Lui, che insieme alla sezione scientifica non scende sul campo di battaglia, continua a sforzarsi per essere di supporto. E si preoccupa, più di ognuno di loro.

«Signor Komui?» chiama Allen, avanzando. Lo sguardo per un attimo si perde verso il cielo, una farfalla che sta attraversando la volta – perché non è forse un soffitto, quello? È davvero un’arca? – che funge da cielo.

O, chissà, magari è il cielo per davvero.

Se fosse più attento, arriverebbe a collegare che vedere una farfalla nell’arma del Conte del Millennio non è affatto di buono auspicio: forse, Allen non ricorda già più quel membro della famiglia Noah che è il motivo per il quale la sua Innocence ha rischiato di scomparire.

Oppure, semplicemente, si tratta di Allen.

Forse, è naturale che vada così.

«Mh?»

«Gli altri staranno tutti bene?» domanda Allen appena Komui gli dà modo di capire che è ancora in ascolto.

Dopotutto, è quella una delle maggiori paure di chi è nell’Ordine Oscuro.

È probabile e non sarebbe strano, che ci sia molta più paura per la vita dei propri compagni, che per la propria. Perché un compagno è come un fratello.

Perché l’Ordine è come una casa.

E perché rimanere da soli in vita è molto più difficile che morire e lasciare che siano altri a dover sopportare il peso della solitudine e del senso di colpa per non aver protetto qualcuno di importante.

Komui indugia e quasi Allen rallenta il passo: «Quando ci sentiamo in ansia, dobbiamo pensare a cose piacevoli.» replica il supervisore.

Allen si ferma, l’espressione – se Komui potesse vederla – simile a quella sorpresa di un bambino di fronte a qualcosa di sconosciuto, di inaspettato.

Come se non avesse mai sentito parlare di quelle… “cose”.

«Cose piacevoli?» domanda, la perplessità nella voce.

«Come? Non ti viene in mente niente? Per esempio…» indugia sulla replica, soppesando la cosa. Evidentemente sta cercando uno degli esempi migliori che può dare.

Allen resta in attesa, ancora fermo.

Come se, senza le parole di Komui nell’orecchio non potesse avanzare: se fosse l’epoca adatta, si potrebbe anche parlare di un automa, un cyborg, ma non è questo il caso.

«…quando tutti tornerete a casa.» concluse quella frase lasciata in sospeso.

Allen non è colto poi molto di sorpresa, né per la voce, né per le parole: attendeva la risposta con la stessa impazienza che si prova la notte di Natale mentre si aspetta di scartare i regali.

E Komui è sempre stato così: sembra quasi che l’ottimismo sia l’unica cosa di cui riesce a farsi portavoce.

A ben pensarci,il supervisore è sempre stato così: sorride per primo ed è capace di dirlo. Pronunciare quelle parole che lì, nella sede dell’Ordine, sono difficili persino da sussurrare.

 

Andrà tutto bene.

Abbiate fede.

Ce la faremo.

 

«Innanzitutto, vi dirò “bentornati” con una pacca sulla spalla.» riprende Komui, direttamente al suo orecchio.

Socchiude gli occhi, cercando di immaginare la scena.

L’atrio dell’Ordine Oscuro, con il solito movimento di Finder, Esorcisti e addetti alla Scientifica che vanno avanti e indietro, impegnati nelle loro mansioni, o anche semplicemente per andare fino alla mensa.

Tutti, nelle loro divise, alcuni dei quali si sarebbero fermati a salutarli.

Quelli più vicini, più conosciuti; altri si sarebbero limitati a sorridere nel vedere dei compagni tornare, sani e salvi, ancora una volta. E chissà – gli venne da sorridere – uno di loro sarebbe corso alla mensa da tutti gli altri o per i corridoi e avrebbe avvisati che sì, erano tornati e stavano bene.

Poteva sembrare un atteggiamento infantile, ma quando qualcuno usciva in missione, per quanto le speranze fossero alte, non avevi mai la certezza che sarebbero tornati.

Mai davvero.

«E abbraccerò Linalee forte forte!» lo sente aggiungere.

Non può non ridacchiare, per quanto flebilmente, quasi non volesse essere sentito, temendo di interrompere quelle che alle sue orecchie giungono come rassicurazioni. Come un calore strano ma piacevole, proprio lì, al centro del petto.

Se lo ricorda, il primo incontro con Linalee e tutto quello che la ragazza ha sempre significato ai suoi occhi: una persona forte eppure così fragile. Come una sorella, come una migliore amica, come una compagna.

Era facile, stare con Linalee: forse, perché non era mai sembrata spaventata da quel suo occhio.

Perché per lui, per Allen, tutto ruotava attorno a quello.

Quella sua maledizione.

Linalee rappresentava, per lui, la certezza di essere sempre accolto con calore, malgrado non potesse più definirsi… un essere umano.

Non in tutto e per tutto.

E malgrado lo volesse, con tutto se stesso; non importava quanto potesse somigliarvi. Allen aveva smesso di considerarsi un essere umano molto tempo prima.

«Per te, dovremmo tener pronta un mucchio di roba da mangiare, eh.» sente Komui aggiungere.

Oh, quello sarebbe stato da ridere: immaginava Jerry che cucinava per un esercito e alla fine sfamava solo lui.

Il tutto con il chiacchiericcio della mensa: qualcuno avrebbe riso perché abituato alla scena di una montagna di piatti su un tavolo e di fronte ad una sola persona.

Altri – probabilmente i nuovi arrivati, o quelli per cui lo spettacolino sarebbe stato inusuale a causa dell’assenza dall’Ordine – sarebbero rimasti a bocca aperta, chiedendosi se non fosse uno scherzo.

E qualcuno, sarebbe stato in disparte, senza curarsene, abituato – benché  senza ammetterlo mai – a quella scena ormai… familiare.

Già. Komui gli dava sempre quella sensazione di “famiglia”.

«Lavi probabilmente si addormenterà da qualche parte, quindi bisognerà avere una coperta a portata di mano…» prosegue Komui.

E ad Allen viene inevitabilmente da sorridere all’immagine mentale della zazzera rossa dell’allievo di Bookman.

È un sentimento strano, quello che sente quando pensa a Lavi.

Il primo incontro era stato di certo abbastanza particolare da rimanere impresso nella memoria: era stata l’unica volta in cui non era stato in grado di utilizzare il proprio occhio destro.

La prima ed unica volta in cui aveva avuto paura.

Quell’occhio, quella maledizione e quella sua capacità di vedere gli Akuma, c’erano sempre stati: senza, era come scoperto.

E ricordava – gli capitava spesso, quando era con Lavi – che era un occhio comodo, il suo.

Uno specchio sulla casa degli orrori del Conte del Millennio: anime senza redenzione alcuna, se non la speranza di essere distrutte sottoforma di Akuma.

Una seconda morte.

Lui uccideva, eppure voleva essere un salvatore.

E ricordava – dopotutto era con Lavi, che era accaduto – al castello di Crowley, i fiori, Eliade, la sofferenza di quello che sarebbe stato il loro nuovo compagno, la paura che si fosse ucciso nel castello dopo averli fatti uscire.

Ed infine, quelle parole dette da Lavi, quelle che lui non aveva sentito, perché già sul treno.

Ma quelle che aveva letto nel suo tono – poteva definirlo “spaventato”? – quando aveva visto l’anima di un Akuma attraverso il suo occhio.

Non era un bello spettacolo.

Una finestra sull’Inferno, certo.

Ma lui, nell’Inferno, ci viveva già da un po’.

«I grandi brinderanno con un bicchiere di vino.» osserva Komui, mentre Allen ha ripreso a camminare, osservando davanti a sé senza davvero vedere, forse.

La mente è focalizzata su altro: all’Ordine, non c’erano molti giovani, non quanto lui in effetti.

Eppure, chissà perché, a focalizzare la mente sulla frase del supervisore, c’era un volto che spiccava fra tutti quelli adulti che aveva scorto nella sede dell’Ordine.

Strano – si era detto – perché in sede, lui non ce lo aveva mai visto.

Eppure, se si parlava di bere, se si parlava di adulti che brindano con un bicchiere di vino alla vittoria, seppur di una sola battaglia, sul Conte e sugli Akuma… non poteva che pensare al suo maestro.

Il Generale Cross Marian. L’uomo che ora non sapeva nemmeno dove si trovasse, quello che lo aveva mandato allo sbaraglio alla sede con come guida Timcanpi.

L’uomo le cui parole, fin dalla prima volta che le aveva sentite, erano rimaste ferme, nella sua mente, come se non facessero altro che ripetersi.

 

Non diventeresti un Esorcista?

 

«È davvero il massimo… addormentarsi dopo aver fatto baldoria.» prosegue Komui.

Sorride.

Perché non può fare altro, se immagina il caposezione Reever ubriaco, mentre Jhonny – magari a sua volta alticcio, perché no – blatera a proposito di una partita a scacchi lasciata in sospeso.

E Jerry – non lo sa, ma ha sempre avuto l’impressione che regga benissimo l’alcool – che ride osservandoli mezzi ubriacati, a far casino, alzando le voci ilari per un successo che non è certo il simbolo della vittoria di una guerra.

Ma quello di una vittoria personale sì: significherà che sono tutti lì, insieme. Che sono tornati malgrado il Conte, i Noah, gli Akuma.

Significherà che non importa, se quella vita che vivono come Esorcisti è l’Inferno o il tanto decantato Paradiso. È comunque vita. E loro sono tutti a casa, di nuovo.

«Poi, un po’ in ritardo…» lo sente riprendere, proprio quando non pensava più alla voce di Komui, quasi dimentico della radio di Bak e del fatto di essere nell’Arca: «…si presenterà Kanda, con il solito sguardo truce.» conclude.

C’è ilarità nella voce, mentre ad Allen torna in mente un ricordo che, al massimo, gli fa uscire una risatina leggera e un po’ nervosa.

Oh se lo ricorda, lo sguardo truce di Kanda: come si fa a dimenticare quella persona che la prima volta che l’aveva vista gli era parsa né più né meno di una macchina da guerra?

Chiaramente, l’obiettivo da eliminare quella volta era stato lui.

Anche Kanda, se ci ragionava un po’ su, era un pensiero strano: continuava a chiamarlo “mammoletta” – ah, quanto gli dà sui nervi! – e la loro prima missione era stata un fallimento quasi su tutta la linea.

Diceva di mal sopportarlo, Kanda, o così dava a vedere.

Quanto il giapponese, almeno.

Eppure, a volte si ritrovava a pensare che l’altro non avesse esattamente torto: la sua ingenuità era davvero mostruosa.

Solo che, malgrado se ne rendesse conto, non riusciva a smettere di essere così: pensare che non potesse esistere alcun modo di riscattare le colpe degli Esorcisti, era troppo difficile.

E non importava, quanto Kanda si lamentasse o fosse asociale. O quanti sguardi truci gli avrebbe rifilato quando, tornando a casa, avrebbe scoperto che di nuovo, in missione lui era stato così diverso da come invece era lui.

Freddo, calcolatore. Spietato. Non era errato, pensarlo di Kanda, almeno un po’.

Non gli importava – anche se quel “mammoletta”… – se rispondendo ad una delle sfrecciatine del giapponese, si sarebbe ritrovato la sua katana puntata alla gola.

Anzi, si poteva dire che se lo aspettava, che quasi lo sperava.

No, nessun atto di masochismo: ma se non gli puntava contro Mugen, quello non era Kanda.

E non sarebbe stata la normalità, se Lavi per calmarlo non l’avesse chiamato “Yucchan”, guadagnandosi un’occhiata omicida e un Kanda che lo seguiva con Mugen sguainata, già dimentico di Allen.

Lavi avrebbe corso per tutta la mensa – magari con la coperta preparata da Komui come mantello – con un continuo ripetersi di: “Waaaah” e “Dai, non arrabbiarti Yucchan!”.

Linalee avrebbe riso divertita alla scena e con lei anche tutti gli altri, compreso lui.

Non era una scena seria, per l’Ordine Oscuro, quello al servizio del Papa, i cui Esorcisti erano uomini pronti a morire pur di distruggere il Conte.

Ma se, al loro ritorno, la scena sarà davvero quella che aveva immaginato sulla descrizione di Komui, allora non importa – pensò – qual’era la fama dell’Ordine.

Significherà che è tutto a posto, tutto alla normalità a cui sono abituati.

Significherà che, non importa come, né perché e nemmeno se era considerato impossibile.

Loro saranno ancora tutti vivi.

   
 
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