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Autore: Castiga Akirashi    25/07/2015    1 recensioni
{Rating più alto in alcuni capitoli}
Può una bestia redimersi?
Può smettere di uccidere?
Il Demone Rosso ha seminato distruzione, paura e morte per anni.
Ora è sparita.
È morta? È nell’ombra che aspetta una preda?
Nessuno lo sa…
Aurea Aralia è una studiosa Pokémon conosciuta in tutta Isshu.
Stimata e rispettata, passa il suo tempo a esplorare il mondo dei Pokémon ed a aiutare i giovani allenatori che le vengono affidati.
La sua vita cambierà, quando incontrerà una ragazza.
Ragazza o… Demone?
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, N, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Videogioco
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«Gli anni successivi la vidi solo per poco tempo e intenta a uccidere come una belva.» concluse amareggiato il Generale, con un sospiro affranto: «Non riuscivo nemmeno più a parlarle. La mia piccola bambina era diventata un mostro. Solo perché quel folle aveva esaltato la sua indole cattiva, nascondendo il buono che c’era in lei.»
«Che c'è!» ringhiò Raphael, furioso dopo aver ascoltato la crudeltà a cui era stata sottoposta la sua piccola pazza: «Che c'è!»
Surge lo ignorò di proposito, ancora furibondo con lui, e N chiese, sia per curiosità sia per calmare le acque: «Pensa che userà ancora il lavaggio del cervello?»
«Non credo… non credo basterebbe….» rispose il Generale, seriamente preoccupato. Athena era cambiata troppo e Giovanni era determinato a riaverla indietro: avrebbe usato qualunque mezzo per il suo fine.
Nel frattempo, Castiga stava seguendo Giovanni nel labirinto di corridoi della base. Gli trotterellava dietro, senza sapere cosa fare o dire. Quell’apparizione funesta del suo passato l’aveva presa in contropiede e lei non sapeva come reagire. Inoltre, sentì il lampo di Zekrom abbandonarla. Non sentire più il suo compagno Pokémon, le mise nel cuore una grande tristezza, un senso di abbandono che la ferì nel profondo.
Giovanni la condusse nel suo ufficio, la fece sedere e cambiò totalmente atteggiamento, lasciando la ragazza sbigottita sulla sedia.
«Piccola Athena…» disse, con un tono quasi affettuoso: «È da molto che non ci vediamo. Perdona i miei modi bruschi ma dovevo far capire a quella gente che con me non si scherza.»
Lei lo guardò lievemente accigliata e chiese: «Come avete fatto a trovarmi, signore?»
Giovanni sperava in quella domanda, ma non lo diede a vedere. Sapeva come comandarla. Era diventato un vero esperto; con un sorriso triste, rispose: «Hai riposto male la tua fiducia. Sono stato a Kanto recentemente e c’è chi ha parlato…»
«Archer e Milas non lo avrebbero mai fatto.» decreto lei, ben convinta di quel che diceva.
«Loro no, hai ragione… ma Maxus, diciamo che non si è fatto pregare. Mi ha rivelato tutto ciò che tu hai detto ad Archer ed è stato facile intuire le tue mosse.»
“Quel maledetto…” pensò la ragazza furibonda: “Così volevi farmela pagare, eh?”
 «Non temere…» disse Giovanni, vedendo la sua espressione truce: «Ti concederò di avere la tua vendetta su di lui.»
«La vendetta…» ripeté lei, quasi gustando quella parola; era da tanto che non si vendicava di qualche torto ed effettivamente, Maxus l'aveva combinata piuttosto grave. Doveva ammettere che ucciderlo sarebbe stato gratificante.
«Sì. Potrai fargli ciò che vuoi…» mormorò lui, suadente: «Tu puoi fare ciò che vuoi. La tua natura è uccidere.»
Athena lasciò perdere le fantasie omicide e, memore di dibattiti con Aurea, disse: «No; sarà anche la mia natura ma uccidere è sbagliato.»
«E’ sbagliato per i deboli… ma noi, noi abbiamo il coraggio di farlo. Per questo noi dobbiamo comandare. Chi non ha questa forza non merita di avere il potere e di vivere. Lo so che ti manca… fa parte di te e non puoi bloccarlo. Ma se vuoi puoi ricominciare… la rabbia guiderà le tue azioni come ha sempre fatto.»
«Non c'è solo la rabbia.» replicò lei, stranita nell'avere una vera conversazione con lui, ma convinta di quel che diceva: «Ci sono anche l'amicizia... e l'amore.»
«Quelli sono sentimenti deboli e impuri.» ribatté lui, quasi con sdegno, sconvolto dalla sua ingenuità e da tutta quella fiducia verso gli altri esseri umani: «Cos’hanno fatto i tuoi amici? Quando non sei più servita loro, ti hanno abbandonata… E l’amore. Quale sentimento più effimero. Colui che diceva di amarti non ti ha dato la minima fiducia. È stato pronto a prendersela con te appena ne ha avuto l’occasione. E non ti ha chiesto nemmeno scusa. Non si è reso conto di essere nel torto. Bella prova di … amore.»
Lei lo fissò, accigliata, e chiese: «Voi come fate a saperlo?»
«No, non ti stavo spiando. Ti ho solo osservata per qualche tempo, per vedere se stavi bene, per proteggerti. E ho fatto bene, visto quello che ti è successo.»
Durante il loro dialogo, entrò nella stanza un Hypno. Giovanni sapeva che la ragazza era cambiata troppo e non era sicuro che i suoi giri di parole avrebbero funzionato. Così fece usare l’attacco Ipnosi al Pokémon, come aiuto. Le si cominciarono ad abbassare le palpebre, mentre lui sussurrava: «Ritrova la tua forza, nella tua indole omicida… solo così ti sentirai completa, solo così sarai te stessa. Non avrai mai nessun tradimento, perché la tua lama saprà sempre dove andare. Abbandonati al dolce sapore del sangue che tu stessa verserai, perché è la tua natura… l’amore, l’amicizia e i buoni sentimenti sono inutili ed effimeri in questa vita… esiste solo il potere e chi è abbastanza forte da tenerlo in pugno.»
«La mia natura…» ripeté la ragazza, in tono vacuo, con lo sguardo assente: «Sentimenti deboli… potere…»
Il ghigno di Giovanni si fece più ampio, mentre incalzava: «Sì, così… l’amore è inutile, è debole, è finto. Un’illusione del cuore.»
«L’amore… è un’illusione…» ripeté lei, ma poi l’immagine di Raphael sovrastò tutto.
Lei sentì vividi sulla sua pelle i suoi baci, le sue dolci carezze, il suo profondo amore e cominciò a ribellarsi all’ipnosi. Lei amava Raphael e sapeva che non era un’illusione. Si ricordò che il ragazzo era stato trattenuto a forza da N, per impedirgli di correrle dietro. Non importava se avevano litigato, si sarebbe risolto tutto. Sarebbe venuto a prenderla e si sarebbero chiariti.
«N-no… l’amore non è un’illusione… e … non è… da deboli…. Io… io… io lo amo, maledizione!» urlò spezzando il contatto ipnotico e riprendendosi di colpo. Sbattendo le palpebre, si guardò intorno, spaesata.
Giovanni ne rimase scioccato. Non avrebbe mai pensato che la ragazza si sarebbe potuta ribellare all’ipnosi.
“Il loro amore è molto forte se è riuscito a cambiarla così. Ormai non è più in mio potere. Dovrò usare il piano B, anzi quello C. Ma prima… l’ultima carta…”
Giovanni le accarezzò il ventre, con fare paterno, e chiese: «E questo allora cos’è? Un pegno d’amore o un parassita che ti fa soffrire? Scommetto che non gliel’hai detto, vero?»
La ragazza guardò di lato, innervosita; i nove mesi erano quasi scaduti e lei da parecchio tempo sentiva i piccoli pugni colpire da dentro… e la piccola creatura muoversi dentro di lei. No, a Raphael non aveva detto niente. Aveva paura, paura che lui la lasciasse. Come aveva fatto il suo vero padre con sua madre.
«No…» mormorò, rosa dai dubbi e dalla pesantezza di quel segreto.
Le aveva fatte tutte per non far vedere il cambiamento. Niente abbracci, non troppi contatti, felpone enormi di due taglie in più... ed era riuscita nel suo intento, tranne che con N. Ma lui, da buon amico, aveva mantenuto il segreto.
«Lo farà.» disse invece Giovanni, con un ghigno e il tono di chi sapeva tutto: «Le tue paure si avvereranno… lui ti lascerà e di certo non puoi dargli torto. A diciotto anni essere padre è uno shock. D’altronde si è ancora bambini, no? Come potrebbe solo pensare di rinunciare alla sua giovinezza per un marmocchio?»
Giovanni stava alimentando la sua paura, buttando legna sul fuoco già acceso. E la ragazza era terrorizzata.
Nel frattempo però, lei pensava all’amore. Ci aveva riflettuto durante quel discorso. Aveva capito che lo amava davvero, aveva capito cos’è realmente quel sentimento chiamato “amore”. Era pronta a buttare via il suo pugnale e a vivere con lui fino alla morte. Era pronta a sopprimere la sua voglia di uccidere per lui. Non poteva cambiare ciò che era e non poteva dire che uccidere non la divertiva, ma avrebbe fatto senza la sua passione.
Per lui.
Ma Giovanni, come una nenia che le opprimeva il cervello, continuava a parlare e a parlare e a parlare… confondendole le idee, mettendo zizzania tra cuore e psiche: «L’amore illude la mente. Anzi, la tua mente ti sta illudendo. Lo sai, è malata e ti ha fatto credere di poter essere amata. Ma guardati. Guarda ciò che hai fatto. Sei una bestia, ragazza mia, e nessuno potrebbe mai amarti. Come potrebbe una persona sana di mente amare un mostro? E come vorrebbe, di conseguenza, allevarne il figlio? Sii sincera con te stessa, è tutta un’illusione. Ti sei autoconvinta che ti volessero bene, ma è tutto fasullo, tutta una finzione. Per una volta in tre anni, ammetti la verità, ammetti che nessuno potrebbe volerti bene. Ti hanno tutti presa in giro e ora sono là fuori che ti deridono. Tu non potrai essere amata. Mai.»
Athena era sull’orlo delle lacrime. Pensava a ciò che stava dicendo Giovanni, sentiva che lei amava davvero Raphael, ma forse l’uomo aveva ragione. La sua mente le aveva fatto tanti scherzi, l’aveva tratta in inganno molte volte, offuscata dalla rabbia.
Il dolore poteva fare lo stesso? Poteva spingerla a credersi amata, pur di non soffrire?
«Un’illusione…» mormorò, ma non era convinta.
Perché avrebbe dovuto illudersi per così tanto tempo?
Si sentì stordita. Il sonnifero era nell’aria, uscito da una provetta nelle mani di Giovanni, ma prima che lei potesse rendersene conto, era già svenuta. Quando si risvegliò, Athena aveva male alla pancia. Non poteva muovere le mani, così abbassò lo sguardo: era tornata piatta, appena gonfia, reduce dalla gravidanza ultimata.
«Il mio bambino…» mormorò, con le lacrime agli occhi, cominciando a respirare affannosamente dall'ansia: «D-dov’è il mio bambino?!»
Si accorse di avere un legaccio ai polsi, alle caviglie e al torace. Era legata ad una sedia inchiodata al pavimento.
«Giovanni!» urlò, in preda all’ira. Sapeva che era stato lui: «Giovanni! Riportami il mio bambino, maledetto bastardo!»
La porta si aprì. Lui entrò, con il vestito ancora sporco di sangue e, con un ghigno sul volto, salutò: «Buongiorno. Finalmente.»
«Ridammi il mio bambino o giuro che ti uccido con queste mani, maledizione! Ridammelo!» rispose lei, furiosa, dibattendosi sulla sedia nel tentativo di liberarsi dalle corde.
Il ghigno dell’uomo si allargò, mentre rispondeva: «Non credo proprio.»
Athena cercò di liberarsi, nera di rabbia, ma le catene erano troppo robuste. Il suo sguardo, solitamente spento, era acceso dal fuoco dell’antica rabbia assassina.
«Questo bambino mi servirà.» proseguì Giovanni, con quel sorriso sempre più largo sul viso: «Io diventerò il padrone del mondo e lui sarà il mio erede. Naturalmente, tu mi aiuterai.»
«Vai al diavolo! Non mi userai mai più! Se dovrò uccidere qualcuno, sarai tu, e tu soltanto!»
«Le ultime parole famose… ma se tu non collabori, quel piccolo esserino mi serve a poco. Non ho voglia di allevare un altro marmocchio.»
Giovanni tornò alla porta, con un ghigno crudele, e disse: «Mi toccherà ucciderlo. Ma non importa. D’altronde, ci sono tanti bambini in giro.»
L’uomo uscì, mentre Athena realizzava ciò che aveva detto.
«Ucciderlo… lo vuole…» mormorò scioccata, per poi perdere la testa: «Maledetto bastardo! Non osare mettergli le mani addosso!»
La ragazza urlava frasi sconnesse, in preda all’ira, l’antica ira omicida che le stava facendo tornare quella sete di sangue, quella voglia di uccidere. Giovanni la lasciò urlare un paio d’ore, poi tornò dentro con un sacco dell’immondizia. Conteneva alcune maglie, ma non era quello che contava. Era la forma.
«Ecco qui.» disse, mostrandole il rigonfiamento nel sacco: «Ora devo solo liberarmi del corpo.»
L’uomo uscì appena in tempo. Athena si liberò, trovando la forza nell’ira animale che la stava dominando, e attaccò, estraendo il pugnale. Giovanni chiuse la porta e la lama si conficcò nel legno.
Mentre andava a prendere la sua vittima sacrificale, l’uomo rideva, gioioso e gongolante: «È stato troppo facile convincerla. Che ingenua, la mia piccola Killera. Sempre la solita, piccola, irritabile ingenua. Che è in mio potere solo grazie alla rabbia.»
Arrivò nei sotterranei, dove c’erano delle celle. Guardò nella cella comune e disse: «Buonasera, signori. Chi vuole farsi uccidere per primo?»
Athena colpì la porta varie volte, ma era spessa e un misero pugnale non poteva fare molto. Era furiosa, voleva uccidere quell’uomo per ciò che aveva fatto. Giovanni le portò un prigioniero, che lei fece letteralmente a pezzi, prima di capire che non era lui. Il sapore del sangue la eccitò. Uccidere le piaceva. E non voleva più smettere. Quella bella sensazione che sentiva era la prova che tutti avevano fatto finta di volerle bene. Come potevano amare un mostro? Quello che lei era? Impossibile. Era una bestia. Ormai se n’era resa pienamente conto e, anche se le faceva male ammetterlo, era così. Guardò Giovanni, che rideva, felice, guardando i resti della vittima ai suoi piedi.
Tutta colpa sua.
Illusione o no, prima di rivederlo, era felice. Prese la sedia su cui era stata seduta. L’adrenalina che aveva in circolo era talmente tanta che l’arredo sembrava non pesasse nulla. Sollevò la sedia e si avvicinò all’uomo che la guardò un momento interdetto, perplesso da ciò che stava facendo.
Avvicinatasi a Giovanni, alzò la sedia sopra la testa e gliela spaccò sul cranio. L’uomo cadde e lei sbatté a terra i piedi di legno che le erano rimasti in mano. Athena gli montò sopra, mentre lui mugolava, tenendosi la testa. Il sangue usciva da una ferita sulla fronte e lui ebbe paura. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva paura della sua creatura.
Il ghigno passò da lui a lei. Lo fissò, vedendo quegli occhi terrorizzati e mormorò: «Volevi vedermi uccidere, capo? Volevi vedermi folle? Volevi la tua bestia? Eccotela. In prima fila. Non c'è più Pidg a fermarmi.»
Prese il pugnale e colpì. Non si fermò e continuò a colpire, ancora, ancora e ancora, tentando di sfogare quella rabbia, di calmarsi e cercare una soluzione. Ma non c'era una soluzione. Il suo bimbo era morto, Raphael non l'amava... cosa poteva fare? Si fermò solo quando il bracciò cominciò a dolere, il muscolo della spalla a infiammarsi. Quarantasette pugnalate dopo.
Non fermò lì il suo massacro. Dovevano ucciderla per fermarla.
Andò nei sotterranei e trovò i prigionieri, facendo una strage. Sia con il pugnale che con le mani. Era una furia: la forza animale che aveva in corpo, sommata alla mancanza di pietà, era inarrestabile.
Rimasta sola, cominciò a ridere. Una risata vuota, il suo unico rimprovero per essere cascata in quel tranello della sua mente, come una novellina, come se non conoscesse ciò che poteva fare il suo cervello sotto pressione. E aveva perso il suo unico briciolo di umanità... era in quel bambino. Tutto quello che era diventata in quei tre anni era morto con lui. Non voleva più vivere, non voleva più soffrire, non voleva più illudersi. Voleva solo uccidere, divertirsi, un'ultima danza mortale fino al momento in cui qualcuno avrebbe messo fine alla sua misera vita.
Intanto, fuori a Mogania, Raphael, N, Surge, Belle e Cheren fecero un piano di attacco. N, con l’aiuto di Reshiram, aveva spezzato il legame fra Athena e Zekrom, unendo l’anima del Pokémon Nero Ideale a quella del Pokémon Bianco Verità. In questo modo sarebbero stati entrambi immuni alle sofferenze umane. Avrebbero applicato il piano di salvataggio la mattina dopo.
Ma arrivarono tardi.
Quando penetrarono nella base segreta, videro solo cadaveri lungo la strada. Intravidero una stanza, con la porta scardinata e, sulla soglia, disteso sul pavimento, il corpo di Giovanni, talmente massacrato da essere quasi irriconoscibile.
Belle nascose il viso tra le mani e Cheren la strinse. N si rattristò e Surge scosse la testa, affranto. Raphael non ci badò nemmeno. Cercava lei e solo lei. Arrivarono nell'ufficio di Giovanni e la trovarono: seduta sull’enorme tavolo che giocava con il suo pugnale.
Athena li sentì entrare, ma ormai non era più in grado di intendere e di volere. E nemmeno di riconoscere i suoi amici. Quelle erano altre illusioni, un gioco della sua mente. Solo illusioni che volevano farla impazzire. Come potevano essere loro? Se n'erano andati, l'avevano lasciata al suo destino perché in realtà non le volevano bene come credeva. L’unica cosa importante era uccidere o farsi uccidere. Smise di giocare con il pugnale e lo afferrò per l’impugnatura, posando il pollice sulla lama: la sua classica posizione di attacco che il generale riconobbe. Si mise davanti ai ragazzi, vedendo quello sguardo. Era di nuovo quello che lui si ricordava. Lo sguardo di un animale assetato di sangue.
«Quel pazzo le ha fatto qualcosa.» mormorò, per far capire ai ragazzi che dovevano stare attenti, che quella non era Castiga ma il Demone Rosso: «È fuori controllo.»
Quasi non riuscì neppure a finire la frase, che lei scese dal tavolo, ridendo, con il pugnale in mano e una voglia matta di ucciderli. Surge si preparò ad affrontarla, ma Raphael lo spostò con una gomitata e guardò la ragazza.
«Andiamo, Athena… non mi riconosci? Sono Raphael!»
Lei non si fermò, né accelerò il passo. Ma si avvicinava, lentamente e inesorabilmente, con gli occhi fissi su di lui e un ghigno assassino, mentre mormorava: «Illusioni, illusioni… sono tutte illusioni…»
Raphael le tese la mano, per cercare di stabilire un contatto, ma lei prese un piede della sedia, che si era tenuta per massacrare i prigionieri, e glielo sbatté violentemente sul polso, spezzandolo di netto. Il ragazzo si prese la mano, con le lacrime dal dolore, inciampò e cadde. Lei gli montò sopra, per tenerlo fermo, inchiodandogli la testa al suolo, con il gomito sul mento. Lui, nonostante il dolore lancinante al polso, la guardò negli occhi con affetto, la pace nel cuore, e disse: «Athena, perdonami. Non avevo capito nulla. Ma ora sono sicuro, sono convinto. Io ho davvero fiducia in te.»
Lei, che aveva alzato il pugnale per colpirlo, si fermò. Quelle parole avevano avuto effetto, così lui proseguì, dicendole tutto quello che voleva dirle: «N è stato convincente, davvero. Mi ha fatto capire quanto sono stato stupido. Io ti amo e ti amerò per sempre, finché la morte non mi porterà via. E se potrò, ti amerò anche dall’aldilà.»
La mano che reggeva il pugnale tremava. Raphael poteva vedere nei suoi occhi quella guerra interna: cuore contro cervello.
Ma prevalse il più forte. Il cuore, ancora ferito, cessò di combattere.
Lei menò il fendente, preciso, verso il petto dell’unico ragazzo che avesse mai amato.
Il cuore si ribellò, un’ultima volta, con un disperato gesto di amore.
A pochi centimetri dal costato di Raphael, Athena deviò il colpo e si piantò il pugnale nel petto. La lama penetrò del tutto, finché la guardia non si fermò, bloccata dallo sterno.
Con un gemito, la ragazza cadde al suolo.
Raphael, sconvolto, cercò di sostenerla, prendendola in braccio e tenendole la testa, implorando: «Resisti! Ti portiamo in ospedale, resisti maledizione!»
Le strappò di dosso la maglia, per farla respirare meglio e vide il sangue sgorgare copioso; con le lacrime agli occhi, disperato, gridò: «Io ti amo! Non posso vivere senza di te! Ti prego, non lasciarmi! Ti guariremo, vedrai! Vinceremo la maledizione di quel pazzo, ma tu resisti!»
Lei sorrise, cercò di dire qualcosa, ma il suo respiro divenne presto un rantolo soffocato. Con ancora quel sorriso dipinto sul volto, chiuse gli occhi. Il suo respiro si indebolì sempre più. Debole… sempre più debole…
Cheren, Belle e Surge si avvicinarono preoccupati, ma, N li anticipò: corse verso Raphael e lo spinse via; prese in braccio la ragazza e fischiò, schivando un pugno in faccia dell’amico.
«Mettila giù, N! Potresti ucciderla!» gridò lui, cercando di afferrargli un braccio.
«È troppo tardi.» rispose il ragazzo, liberandosi dalla presa.
Il soffitto tremò. Comparve una breccia e Reshiram planò nella stanza. N le saltò in groppa e il Pokémon bianco prese il volo.
Raphael cercò di fermarli, aggrappandosi alla coda della viverna, ma lei la sbatté e il ragazzo cadde al suolo, con un gemito.
N e Reshiram svanirono all’orizzonte, seguiti da Zekrom, mentre Raphael, ancora in terra, gemeva: «N… riportamela… la salveremo… vivrà… con me… per sempre… Non è tardi… non è mai troppo tardi…»
Non aveva nemmeno le lacrime per piangere. Il suo dolore era immenso, oltre le lacrime, oltre qualunque cosa.
Girando lo sguardo, vide un vetro.
Affilato, letale.
Sarebbe finito all’inferno.
Il suicidio è peccato.
L’avrebbe raggiunta.
Prese il vetro e lo fissò. Ma prima che potesse piantarselo nel collo, Cheren intervenne e gli bloccò il braccio, dicendo: «Fermo, Raphael! Cosa vuoi fare?!»
«Lasciami! La raggiungerò! Andrò con lei! Lasciami!»
«No! Sta’ fermo! Belle, prendi quel vetro!»
Belle si avvicinò titubante e lo disarmò ma Raphael continuò a lottare, finché la ragazza non disse: «Guardate!»
Cheren e Raphael si bloccarono. Davanti a loro c’era Cobalion, che disse, con la voce mentale spezzata dal dolore: “Sono arrivato tardi.”
«Cobalion?» esclamarono i tre amici, ma lui fissò Raphael e disse: “Tu, umano. Raphael. Seguimi.
Io dovevo proteggerle entrambe, l’avevo promesso, ma purtroppo manterrò la promessa a metà, perché sono stato troppo lento.”
«Protegger…le?» chiese Belle, non riuscendo a comprendere le parole del Pokémon.
Raphael si alzò e seguì Cobalion, che lo condusse in una stanza vuota. Sul tavolo, un fagotto piangeva.
Il ragazzo accese la luce e prese il fagotto. Dentro, avvolta da una vecchia coperta, c’era una neonata, ancora sporca del sangue materno, che strillava. Ma quando lo vide, si calmò.
Belle e Cheren lo raggiunsero. Lei mormorò: «Guarda… Guarda gli occhi.»
Erano della stessa forma di quelli di Athena, mentre in alcuni tratti del viso si vedeva Raphael.
«Ma… l’avete fatto?» chiese Cheren, pentendosi poi della domanda, vedendolo avvampare ma annuire.
«Dove?» chiese ancora e lui rispose solo: «Austropoli.»
Belle fece qualche calcolo e sbarrò gli occhi, borbottando: «Nove mesi esatti fa. E… e tutte quelle maglie larghe. E stava sempre male. E... e… Ma che stupidi!»
Raphael guardò la bambina. Come poteva farla finita, ora che aveva lei?
Tornarono al piano di sotto, con la bimba fra le braccia. Surge era ancora lì, fermo al suo posto. Fissava quella pozza di sangue, con lo sguardo vuoto. A vederlo, si sarebbe potuto pensare che sarebbe rimasto lì così per sempre.
Raphael si avvicinò a lui e lo riscosse, mostrandogli la bambina. Surge guardo lei, guardò lui e gli tirò un pugno nei denti. Poi, fissando ancora quella pozza, cominciò a piangere, crollando sulle ginocchia. Raphael si pulì la bocca, sputando un po’ di sangue, mise un braccio dietro alla schiena del soldato, mentre con l’altro teneva la bambina. Lo aiutò ad alzarsi e lo condusse fuori.
Ritornarono a Isshu con la morte nel cuore, ma una nuova vita tra le braccia. Al porto li accolsero Aurea, Zeus e Elizabeth, ma quando li videro, scortati a vista da Cobalion e senza la ragazza, capirono che qualcosa era andato storto.
Raphael prese da parte la studiosa e la suocera, mentre Cobalion e gli amici badavano alla piccola e a Zeus.
«No…» gemette Aurea, sentito il racconto: «Non può essersene andata…»
Elizabeth non aveva né lacrime né parole, ma si chiedeva come fare, cosa dire a Zeus che la sorella non c’era più.
Aurea ricacciò indietro le lacrime con poco successo e chiese, con voce tremante: «Raphael… Maru?»
«Deve averli N. Si è portato via tutto, quindi immagino li terrà lui.»
La studiosa non resse più e scoppiò in lacrime, gridando tutta la sua rabbia, insieme alla domanda che si stavano ponendo tutti: «Perché? Proprio ora che stava cambiando, che stava diventando una persona migliore… perché?!»
Nessuno sapeva come consolarla, perché tutti erano nel suo stato d’animo. Surge e Raphael peggio di tutti.
Dopo che si fu un po’ ripreso, il Generale portò Elizabeth e Zeus ad Aranciopoli, ma voleva vedere molto spesso la sua nipotina.
Belle e Cheren, invece, rimasero con Raphael. Lui voleva rimediare a quello che aveva fatto alla madre, con la figlia. La crebbe con amore e lei diventò una bambina buona, educata e gentile.
Quando lei compì i tre anni, lui chiese ai due amici di lasciarlo solo. Doveva farcela senza l’aiuto di nessuno.
L’unica eccezione era Cobalion. Il Pokémon Metalcuore si sentiva in colpa. Aveva promesso di proteggerle entrambe e invece aveva fallito. Così andò a vivere con Raphael e la piccola, aiutandolo a crescerla.
Lilith Castiga Grayhowl, ecco come l’aveva chiamata Raphael. E non c’erano più dubbi su di chi fosse figlia: due occhi verdi, ma non il suo verde, un verde più scuro, lo osservavano con uno sguardo intelligente e furbo ogni giorno; i capelli castani, sempre ben tenuti, avevano delle sfumature rossicce che apparivano solo quando erano colpiti dal sole. Li portava lunghi, come lei quando era il Demone Rosso.
Una ragazzina sportiva, che odiava andare all’asilo e adorava giocare con i Pokémon. Dolce e comprensiva di natura, era vivace e piena di vita, ma con un innato sarcasmo e poca inclinazione alla solitudine.
A Raphael sembrava di rivedere Athena.
Quella bambina era la luce del sole.
La luce che andava a dissipare un po’ di quel buio che gli oscurava il cuore.
La luce che riscaldava temporaneamente il gelo di quel cuore perso nell’oscurità.
La luce da sola che poteva curare quel dolore che lentamente gli corrodeva l’anima.
  
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