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Avvertimenti: AU, What if? Ho
deciso di metterli entrambi per il semplice motivo che non sapevo come
regolarmi. In tutti i casi, ho deciso di ambientare questa fan fiction in un
tempo non-così-preciso, nel quale esorcisti e Noah non esistono, ma i Bookman
permangono. Per l’ambientazione, mi sono ispirata ai paesini del sud (Grecia,
ma anche Bahia in Brasile, a Lisbona e al paese che fa da sfondo a Rosso Malpelo, la novella di Verga che, tra l’altro, mi ha ispirato
la storia). In tutti i casi, siamo davanti ad un Lavi allievo Bookman e Tyki che,
semplicemente, lavora in miniera.
Lavi è
rimasto piuttosto invariato, caratterialmente parlando. Per Tyki,
invece, ho cercato di assimilare la sua parte Noah
(soprattutto per quanto riguarda il piacere)
alla sua personalità. Se è OOC, provvederò ad aggiungerlo tra gli avvertimenti.
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Note d’Autrice: Non ho molto da dire
che non sia già stato spiegato negli “Avvertimenti”. In tutti i casi, ci sono
un paio di dettagli che vorrei spiegare.
La fan
fiction è divisa in tre parti e sarà pubblicata in tre parti, nonostante i
capitoli siano di più – ma sono talmente corti che non mi sembrava opportuno
pubblicarli singolarmente. Inoltre, la scelta di usare il nome Lavi per Lavi era necessaria per far
inquadrare meglio il personaggio dai lettori, dato che Junior mi sembrava improprio tanto quanto dargli altri nomi scelti
da me. Ho dato molto spazio al concetto del nome,
in questa fan fiction, cosa che si noterà soprattutto con la seconda parte. Ma
non voglio svelare niente. In tutti i casi, il ragazzo con cui Lavi parla è Tyki, ve lo dico io per non creare fraintendimenti \O/ Ci
sono comunque molti riferimenti al suo aspetto fisico.
Ci sono
alcune parole in portoghese inserite nella fan fiction, di cui vi fornisco la
traduzione ora dato che non causerebbero particolari spoiler.
La
prima, Jogá-lo!,
significa semplicemente Giocala/Lanciala.
La seconda, Caolho,
significa Guercio che, tra le altre
cose, assomiglia a Coelho (Coniglio).
Non è
uno dei lavori di cui sono più fiera, e la coppia, per me, è molto difficile da
rendere. Non so se ho fatto una “bella cosa” e, soprattutto, non so se alla
conclusione di questi tre capitoli Saudade
sarà riuscita a dare una visione chiara di quello che ho voluto trasmettere.
Non ci sono particolari evoluzioni di trama, è solo un excursus di Tyki e Lavi allontanati dai Noah
e dagli Esorcisti. La storia di Tyki (che sarà
rivelata con più chiarezza nella seconda parte) è stata gentilmente offerta da yingsu, a cui è
dedicata questa fan fiction perché scritta appositamente per lei e per il suo
compleanno. Spero, soprattutto, che piaccia a lei.
Il
rating potrebbe alzarsi ad arancione, il giallo – per ora – è una precauzione.
Ringrazio
kammm con
cui mi sono consultato prima di scrivere la storia, e mi scuso per non
avergliela mandata per betarla prima di pubblicarla.
Ma ci sono state un po’ di evoluzioni strane e poi non volevo disturbare ♥.
Mi
scuso per le note chilometriche e vi lascio a questa prima parte. Non so quando
aggiornerò, ma provvederò a mandare un messaggio a chiunque l’avrà messa tra le
seguite/preferite/ricordate.
Grazie
per aver letto. ♥
radioactive,
a yingsu,
anche
se non so fare bei regali
e
mantenere i segreti.
sempre
con amore.
Saudade
ricordo
nostalgico di un una persona, oggetto o situazione speciale ma assente,
accompagnato dal desiderio di riviverlo o di
possederlo.
«All’inizio
ci siamo toccati come se fossimo degli estranei.
Poi ci
siamo toccati come ci hanno insegnato a farlo.
Solo alla fine abbiamo osato toccarci come
facciamo noi due»
[ che
tu sia per me il coltello ― d. grossman]
Prima
parte
All’inizio
ci siamo toccati come se fossimo degli estranei
|| 12 –
19 ||
•
UNO
«Sei
sempre il solito!».
Una
porta si aprì di scatto, sbattendo contro il muro bianco. Sotto il sole di
mezzogiorno, quella parete sembrava fatta di luce. Osservò con attenzione le cinque
falcate traballanti che il ragazzo fece prima di cadere a terra, finendo con la
faccia per terra. Lo avevano cacciato.
«Vai a
lavorare invece di dormire!» – non riusciva a vedere la donna che urlava quelle
parole, nonostante la distanza, però, gli venne facile distinguere tutti i
riccioli attaccati alla testa di quel ragazzo. Se si fosse avvicinato – ne era
certo – sarebbe riuscito a contargli anche le ciglia. Si immaginò per un
momento seduto davanti a lui, a sfiorare con le sue dita pallide e pulite quei
capelli fatti di notte e carbone, colorati dalla polvere rossa.
No. Era
un pensiero del tutto stupido, che non gli era permesso. Aveva solo dodici anni e di certo quel ragazzo era molto
più grande di lui. Accarezzare i capelli alle persone era una cosa che non
poteva nemmeno immaginare.
«Andiamo»,
questa volta parlavano a lui. Lavi sospirò, girandosi per seguire il Vecchio.
Avrebbe potuto giurare di aver sentito quei capelli tra le dita. Ma forse era
solamente polvere.
Non
sapeva perché si erano fermati in quel luogo.
Il sole
batteva troppo forte e la pelata del Vecchio brillava così tanto che Lavi
avrebbe provato volentieri a cuocergli un uovo in testa. Socchiuse la palpebra
per cercare di proteggersi da quei raggi troppo forti. Si sentiva quasi svenire,
l’afa lo soffocava e la gola era talmente secca che gli sembrava fatta di terra.
Si
guardò attorno, serrando bene la presa attorno alla maniglia della propria
valigia mentre studiava ogni dettaglio di quelle case quadrate e bianche, poste
una sopra l’altra come se a comporle fosse stato un bambino. Come se quel paese
l’avesse costruito lui. Non c’era il mare, e nemmeno l’erba – sapeva che da una
parte si andava alla cava, da un’altra c’era la foresta di sughero e dall’altra
ancora l’aranceto. Le finestre erano chiuse e solo un paio di signore animavano
la strada, sedute su una panchina in ferro battuto. Doveva essere rovente. La
terra rossa su cui camminava assomigliava ad una distesa di polveri e spezie
indiane, e il bianco dei muri sembrava sciogliersi sotto quel sole che non
calava mai.
Sembrava
fatto tutto di pioggia. Lavi si accorse di quell’effetto osservando i raggi
ballare davanti ad un muro isolato, mai finito di essere costruito. Il cemento
tra i mattoni sembrava liquido. Se quel muro fosse crollato davvero,
probabilmente nessuno l’avrebbe riparato.
«È
tutto abbandonato a sé stesso» commentò il Vecchio, come se gli stesse leggendo
nel pensiero.
È tutto triste lo
corresse mentalmente, sospirando. Gli dava l’idea di un porto in cui si fermavano
le barche che non sarebbero partite mai più, e l’idea della cava aggiungeva
nero al bianco e al rosso di quel posto.
Girarono
l’angolo, infilandosi tra due file di case che coprivano la strada dal sole. In
fondo al vicolo, un piccolo spiazzo si apriva come l’abbraccio di una madre. Al
centro, un grosso albero verde accoglieva, sotto la sua fronda, un gruppo di
bambini che giocavano con una palla di cuoio, gridandosi parole in quella
lingua che conosceva ancora poco.
«Vado a
parlare con una persona lì dentro» lo informò il Vecchio, indicandogli
l’anonima costruzione bianca da cui pendeva una stoffa a strisce arancioni e
blu, tenuta in piedi come una tenda da due pali di legno chiaro, «Vedi di non
metterti nei guai» lo ammonì, prima di afferrare anche la valigia del più
piccolo ed incamminarsi dentro la casa.
Lavi
annuì, osservando le spalle curve del Vecchio allontanarsi. Quando sparì dentro
l’abitazione, si guardò attorno alla ricerca di una di quelle panchine in ferro
in cui sedersi. Avrebbe preferito accoccolarsi sotto l’albero, ma l’idea di
avvicinarsi troppo a quei ragazzi più grandi di lui non lo entusiasmava.
Non doveva mettersi nei guai.
Sospirò,
massaggiandosi la testa bollente, iniziando a camminare verso una panchina in pietra,
candida come le mura delle case. Non era come quella che aveva immaginato, ma
andava bene lo stesso. Quasi non l’aveva vista.
Osservò
ancora l’albero – non sapeva se faceva dei frutti o come si chiamava. Gli
sembrava particolarmente anonimo, a dir la verità. Il vento leggerissimo
muoveva le foglie di quel verde profondo, ma non portava nessun odore con sé.
Sentì
un ragazzo urlare, abbassando lo sguardo dai rami, notò la palla roteare verso
di lui e fermarsi contro i suoi piedi
che a malapena toccavano terra. Il gruppo di sconosciuti corsero verso di lui,
agitando le braccia, continuano a ripetere la stessa parola: Jogá-lo! Jogá-lo!
Lavi
non capì subito quello che doveva fare, saltò giù dalla panca e afferrò il
pallone tra le dita, alzando di nuovo lo sguardo verso i quattro ragazzi, ormai
fermi a un metro da lui.
«Sei
sordo?» gli domandò il più grande. Le mani sui fianchi e i capelli sudati
incollati alla fronte abbronzata. Lo aveva già visto! Lo ricordava per terra,
sporco di polvere, mentre una donna senza volto gli gridava di andare a
lavorare.
«No…»
borbottò in risposta, osservando i suoi occhi scurissimi socchiudersi in un
mezzo sorriso, gli tese la mano e Lavi posò la palla sopra il palmo aperto.
Aveva dita lunghissime e magre, sporche di polvere rossa e nera.
«Vuoi
giocare con noi?» gli domandò poi. I suoi denti bianchi brillavano sotto la
luce del sole di mezzogiorno, sembravano margherite che sbucavano tra le crepe
di una terra arida a scura com’era la sua pelle.
Scosse
la testa, abbassando lo sguardo. Gli sembrava impossibile fare dei pensieri del
genere su una persona. Nonostante sapesse che non stava
facendo nulla di male, i sensi di colpa lo costrinsero a sedersi e a tenersi la
pancia, inspirando profondamente l’aria calda di quel posto.
«Certo
che sei strano, tu» commentò, facendogli alzare lo sguardo. Il ragazzo si
indicava l’occhio destro, tenendolo chiuso. Forse alludeva alla sua benda?
Dietro di lui, dicevano qualcosa come caolho,
tappandosi le bocche con entrambe le mani per non scoppiare in una fragorosa
risata.
Lavi
schiuse la bocca, incapace di ribattere. Due ragazzi corsero vero l’albero,
mentre il terzo, forse della sua età, tirava la maglia del ragazzo con i ricci,
«Andiamo» gli domandò, piano.
L’altro
annuì e corse verso l’albero, seguito dal più piccolo, abbandonando Lavi sulla
sua panchina bianca.
•
DUE
Erano
passati tre giorni da quando Lavi e il Vecchio erano arrivati in quel
villaggio. Il proprietario della piccola
drogheria del paese aveva offerto loro la stanza sopra la sua bottega – a
quanto pareva era un conoscente del Vecchio.
Per
qualche motivo, il Vecchio non voleva Lavi con sé durante la sua giornata. Lo
costringeva a casa, con il naso sui libri o intento a trascrivere notizie di
vecchi giornali su fogli nuovi. Sospirò, appoggiando il mento sulle pagine che
avrebbe dovuto riempire con la propria calligrafia. Avrebbe preferito esplorare
il paese, memorizzare ogni vicolo o i punti in cui l’intonaco bianco era
crepato, mostrando le mattonelle scure. Era bravo in quello.
Si
alzò, scendendo le scale per uscire fuori in strada, prima di pentirsi della
propria decisione. Gli sarebbe piaciuto tornare in quel piazzale con l’albero,
magari incontrare nuovamente il ragazzo con i ricci e giocare con lui e i suoi
amici.
Ma non
c’era traccia di quella fronda verde che si muoveva per le carezze del vento
caldo. Il cielo chiarissimo si appoggiava sui tetti piatti delle case, quasi si
confondevano.
Quel
posto era una noia mortale.
Mise le
mani in tasca, guardando disinteressato l’orizzonte. Lì, dove l’azzurro baciava
la terra rossa, vide un gruppo di caschi comparire, marciando stanchi verso il
villaggio. Nonostante fosse ancora chiaro in cielo, era evidente che il turno
in miniera era finito. Lavi si fece da parte, camminando con la spalla contro
il muro per lasciarli passare, osservando come si disperdevano tra le case.
Alcune mogli li aspettavano alla porta, accogliendoli con un bacio sulla
canotta sporca o un bicchiere di acqua.
Un gruppo
di bambini della sua età gli sfrecciò vicino, portando con sé l’odore di cenere
e carbone. Gli ultimi del gruppo erano gli adulti più giovani, che riuscivano
ancora a tenere le spalle dritte dopo una giornata chinati a raccogliere pietre
nella cava. In fondo, vide lui, con le mani nere fino ai polsi,
immerse nei capelli sudati. Rideva sguaiatamente alla battuta di un suo
compagno, salutandolo con una pacca sulla spalla, prima di rimanere solo.
Lavi si
chiuse nelle spalle. Solo dopo averlo visto si accorse di non volerci niente a
che fare: aveva detto che era strambo perché aveva una benda sull’occhio –
probabilmente pensava che fosse un buono a nulla, dato che non era riuscito
nemmeno a rispondergli, tre giorni prima.
«Quanti
anni hai?».
La
domanda gli arrivò senza preavviso, facendolo sussultare. Il corpo del ragazzo
si interpose tra le sua pelle troppo chiara e i raggi del sole. Quella nicchia
gli sembrava troppo stretta, e gli parve quasi di
soffocare sotto gli occhi scuri di lui che brillavano come stelle nella notte.
Aveva anche un neo, sullo zigomo sinistro, appena sotto l’occhio.
Lavi
scivolò fuori da quella piccola cavità, facendo un bel respiro prima di
rispondere «Dodici».
«Davvero?
Sembri molto più piccolo» commentò l’altro, mettendosi le mani sui fianchi, «E
come mai hai i capelli rossi?».
«E tu
come mai hai i capelli ricci?» ribatté, osservandolo dal basso. Sembrava non
capire, anche se il sorriso gli faceva intuire che era parecchio divertito
dalla sua risposta. «È la stessa cosa» borbottò, «Non lo so perché ho i capelli
rossi» confessò, guardandolo di nuovo negli occhi, «Tu quanti anni hai?».
«Diciannove».
Era
grandissimo. «Anche tu sembri più piccolo» ribatté, usando le sue stesse
parole. Lo sentì ridere e la sua voce sembrò riempire tutte le strade del
paese. «Lavori in miniera?» gli domandò, cercando di riprendere il controllo
della situazione – aveva paura che il Vecchio lo sentisse ridere e che lo
trovasse lì a parlare con un perfetto sconosciuto. Sapeva benissimo che non
poteva farlo.
«Tu che
dici, caolho?».
«Cosa?»,
che diavolo di parola era caolho?
Rise
più forte, affondando la sua mano sporca di carbone sulla sua zazzera rossa,
«Non fa niente» lo rassicurò, e Lavi gonfiò le guance, divincolandosi da quella
presa.
«Perché
giochi a pallone con gli altri ragazzini?» chiese invasivo ma senza vergogna,
«Perché non stai con i grandi?» continuò, dondolando sui talloni.
L’altro
rimase qualche secondo in silenzio, sospirando al cielo. Si pettinò i capelli
indietro come se volesse guadagnare tempo, prima di sorridere sornione e
mettergli nuovamente la mano tra i capelli, «Perché i mocciosi come te sono
molto più di compagnia». Prima che Lavi potesse scansarsi nuovamente, il
ragazzo con i ricci ritirò la mano, rimettendola in tasca, «Vuoi giocare anche
tu con noi a pallone, la prossima volta?».
Lavi
annuì.
«Dove
abiti?» gli domandò, osservando il più piccolo che si girava ad indicare la
bottega di Alfredo. Il ragazzo fece schioccare la lingua contro il palato per
poi mostrare ancora quella linea di denti bianchi contro la carnagione
abbronzata, «Significa che verrò a chiamarti» gli disse, prima di agitare la
mano in segno di saluto e superarlo.
Lavi
non rispose.
Il
tramonto sembrava portare via tutte le preoccupazioni della giornata, assieme alla
fatica e al caldo. Era un momento in cui l’afa lasciava il posto al fresco
della sera e il vento diventava un po’ più forte, s’infiltrava sotto le porte,
tra le ante delle finestre.
Il
Vecchio non era ancora tornato e la candela si stava consumando, abbandonando
Lavi nella penombra della sera.
«Caolho!» era la
voce di quel ragazzo.
Lavi
aprì la finestra, mettendo a fuoco la maglia ingiallita dal tempo mentre
l’altro agitava il braccio, facendogli segno di scendere.
«Non
vieni a giocare?» gli chiese, i suoi occhi brillavano anche nella notte.
Il
Vecchio sarebbe arrivato a momenti. Lavi sapeva che se fosse andato con lui non
sarebbe tornato in tempo. Non voleva ricevere una sfuriata dal Panda. Sospirò,
scuotendo piano la testa, chiudendo le ante della finestra con fare di resa.
«Allora
è così, eh?» disse provocatorio, «Sei un piccolo adulto» continuò, «Noioso come
tutti gli altri».
Lavi
fece finta di non sentire e chiuse la finestra, spegnendo la candela e
buttandosi a pancia in giù sul letto. Inspirò profondamente l’odore della
federa, aveva il profumo dell’aranceto dove lavoravano le donne mentre gli
uomini erano in miniera.
Immaginò
le ragazze giovani lavare i panni nel canale che dava da bere agli agrumi della
coltivazione, le lenzuola venire stese vicino a quei alberi e il profumo
incastrarsi nella trama di cotone su cui lui ora sfregava la guancia.
Forse
anche lui aveva quello stesso profumo.