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Autore: mughetto nella neve    28/07/2015    4 recensioni
"I suoi occhi erano chiari: una strana miscela fra l’azzurro e il verde che non riusciva a decifrare. Ecate non sapeva se dare la colpa alla nebbia o a se stessa per simile dubbio. Più li osservava e più li trovava profondi e carichi di una forza che mai aveva visto prima d’ora."
[ Ade/Ecate | Ecate-centric | Titanomachia ]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Altri
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Gli Inferi non sono poi così male, padre mio. Un po’ bui, tetri ed - ehi! - pieni zeppi di mortali deceduti; ma da qualche parte devono pur andare a finire le loro anime, no?”
Così aveva avuto il coraggio di proferire Ecate quando il padre Perse, disperato, l’aveva pregata di abbandonare il proprio compito e tornare alla sua dimora. Personalmente, non voleva minimizzare la questione con un così ironico commento, ma il cuore le piangeva nel vedere il proprio genitore in una così contrita ed amareggiata espressione; aveva desiderio di rassicurarlo, cosicché non si sentisse in pena per lei e l’incarico di psicopompo della quale era stata investita.
Ecate si sentiva onorata di essere la guida dei mortali nel cammino verso l’Aldilà. I suoi viaggi erano silenziosi, lenti e talvolta scanditi da un basso singhiozzare o qualche preghiera rivolta ai titani o allo stesso Tanato. Ai suoi occhi godono di un discreto fascino tanto che non era mai arrivata a lamentarsene.
Si poteva dire affascinata dalla natura dei mortali.
La loro vita era così breve ed il loro corpo così fragile; eppure, proprio per questo, vivevano ogni loro momento con un’intensità che a lei da sempre era sconosciuta. Ecate si domandava spesso cosa si provava a lavorare per guadagnare da mangiare, cosa ci fosse di così affascinante in un neonato o di così misteriosamente straziante nel vedere scomparire all’orizzonte il proprio amato. Volentieri lasciava che i mortali stendessero per lei veri e propri resoconti sulle loro vite: non trovava la forza per dir loro che lei non aveva intenzione di giudicarli per coloro che avevano ucciso, cosa avessero rubato e del perché non si fossero sposati con la donna o l’uomo che amavano.
All’epoca, non sapeva davvero chi si occupasse di simili questioni negli Inferi. Immaginava che fosse la progenie della pallida Notte e del mesto Erebo a catalogare le vite dei defunti, ad occuparsi di loro e trovare il giusto modo di farli riposare in faccia. Ciò che Ecate riusciva a desiderare per loro, nel depositarli sulle sponde dell’Acheronte, era che trovassero ciò che avevano cercato per tutta la vita.
Gli uomini erano sempre alla ricerca di qualcosa: amore, denaro, fortuna, qualche familiare scomparso, un po’ di pace, da mangiare. Avevano mille desideri e decine di migliaia di progetti.
Un poco li invidiava. Le creature divine, raramente, provavano un così forte ardore per qualcosa. I Titani, in particolar modo, spendevano il proprio tempo nelle alte e maestose dimore in cielo e non provavano diletto o frenesia nel loro vivere. La loro progenie era quanto di più forte e maestoso si fosse mai visto e lei - figlia di Titani - non poteva che provare orgoglio verso se stessa e la sua nobile famiglia.
Spesso, però, si domandava se la sua esistenza si limitasse a questo.
Fermava il suo passo e, guardando il pavimento roccioso dell’Averno, prendeva a ragionare su come i mortali vivessero con maggiore veemenza le loro vite e di come trovassero la felicità in minuscoli momenti di cui lei proprio non riusciva ad afferrare il senso. Lei non provava nemmeno la metà di quelle emozioni, esperienze, pensieri e lucubrazioni che scuotevano l’animo umano: ne era affascinata ma allo stesso modo confusa.
Voleva provare anche lei ciò che i mortali provavano: odio, vendetta, desiderio, soffrire per amore e soprattutto comprendere cosa ci fosse di così potente in una freccia scagliata da Eros in persona. Era scioccamente attratta da quella sfera luminosa che erano le emozioni e pensieri umani; si parlava di un qualcosa di simile al miele con le api. Da essa non riusciva a distogliere lo sguardo e quasi non aveva desiderio.
Si sentiva così misera paragonata ad una così fitta e variegata moltitudine.
Così sola.
Più volte si persuase a non pensarci: voleva dimenticare la questione e scoprirsi di nuovo fiera e forte della sua natura divina; tuttavia, ciò che aveva messo in circolo, era una rete di pensieri che non l’abbandonò nemmeno quando - agli inizi di quella che pareva essere un piccola e miserabile rivolta ai danni di Crono - si recò negli Inferi per il suo quotidiano compito.
Ciò che vide davanti a sé, in principio, non fu che un’ombra immersa nella nebbia infernale.
La notò quasi subito e credette erroneamente che fosse uno spirito che aveva smarrito la strada nella discesa sull’Acheronte. Non era la prima volta che accadeva e, personalmente, Ecate tendeva a non farne un dramma dato che le anime portate erano sempre di più e non c’era mai abbastanza attenzione o tempo per stare a guardarle tutte.
Si avvicinò con passi sicuri, ben intenzionata a mostrare la via verso l’Aldilà; ma ciò che l’attendeva appena oltre la nebbia era un giovane dagli occhi chiari che reggeva fra le mani un elmo scuro e inspiegabilmente brillante. Certamente, non aspettarsi la sua venuta; ma, a giudicare dalla sua reazione minima, non sembrava temerla: si era limitato a spalancare gli occhi e di arretrare di un passo, quasi a farla passare.
« Chi sei? » sbottò con voce cupa e minacciosa, puntandogli il dito contro - quasi fosse un ladro giunto a vederla . Il velo le scendeva lungo le spalle lasciando che i suoi capelli scuri fluttuassero disordinati qua e là; il suo intento voleva essere quello di sembrare quanto più aggressiva possibile, ma il giovane non reagì ancora alle sue parole.
Si limitò a trarre un respiro propenso, quasi dovesse raccontare una storia che già da molto gli veniva chiesta tanto che, ormai, aveva perso l’entusiasmo nel raccontarla: « Sai come tornare? Alla Terra, intendo. Io e miei fratelli non riusciamo a farci nella strada nella nebbia e dobbiamo assolutamente fare ritorno »
Non sembrava cattivo. Più lo guardava attentamente e più scopriva particolari nel suo volto. Era decisamente più giovane di lei: i suoi capelli erano molto più scuri e tenuti corti, proprio come i giovani mortali erano soliti fare. Era decisamente più alto di lei. La sua veste era semplice ma un poco stropicciata sul finire e sporca di terra qua e là. Non possedeva gioielli o manufatti di alcun tipo, quindi non giungeva a lei con intenzioni ostili. I suoi occhi erano chiari: una strana miscela fra l’azzurro e il verde che non riusciva a decifrare. Ecate non sapeva se dare la colpa alla nebbia o a se stessa per simile dubbio. Più li osservava e più li trovava profondi e carichi di una forza che mai aveva visto prima d’ora.
Si ritrovò a chinare il viso su di un lato, sprezzante di quella presenza vivente negli inferi.
« Chi sei?, ho detto! » ripeté con voce più aspra, sperando che questi si lasciasse finalmente intimorire e gli fornisse quanti più chiarimenti possibili. Questa volta, i suoi occhi felini parvero convincere il giovane ad accontentarla; Ecate lo vide rilassare le spalle forti e dure e schiarirsi un poco la voce.
« Mi chiamo Ade, della progenie di Crono e Rea » si presentò con tono fermo e sicuro. Pareva essersi preparato simile frase da molto tempo ma che, a causa di situazioni contingenti, non fosse mai stato in grado di pronunciarla. Ecate riconosceva dell’imbarazzo nei suoi movimenti; probabilmente non era solito confrontarsi con qualcuno - probabilmente di sesso femminile - in solitudine. Aveva parlato di fratelli quindi era ragionevole pensare che fossero loro ad occuparsene; sospirò, già vagamente annoiata da quella situazione.  « Devi aiutarmi. Solo tu puoi farlo. »
Ecate sentì distintamente la freccia di Eros conficcarsi perfettamente nel suo costato facendole socchiudere le labbra rosee. Fu inaspettato. Il respiro le si mozzò e il suo stesso corpo avvertì un pericolo insinuarsi fin dentro le viscere.
In principio, sentì freddo. Un terribile freddo.  Avvertì le sue stesse ossa tremare nel corpo, implorare  la potenza del fuoco o una qualsiasi forma minima di calore perché - così abbandonati - sarebbero incorsi alla follia se non alla stessa morte. Si scoprì, dunque, a tremare e poco le bastava il velo che da sempre portava con sé nei suoi viaggi per l’Oltretomba.
« Ti senti bene? »
Ade le teneva il braccio, cercando di capire cosa avesse improvvisamente avuto. Il suo corpo era caldo. Ecate aprì gli occhi nel sentirlo così vicino a sé e soprattutto a scoprirsi a pensare sul suo calore. Questi non sembrava ancora intimorito dal suo atteggiamento, ma più impensierito dal suo improvviso mutismo scosso dai tremori.
Ecate non stava bene. Si sentiva scuotere. Una forza minacciosa le aveva afferrato le viscere e mordeva con forza la schiena facendola tremare in preda ai dolori. I suoi piedi erano macigni e i suoi capelli sembravano improvvisamente levarsi in aria, come se dotati di vita propria. Ecate avvertiva se stessa improvvisamente diversamente: sentiva il suo corpo reagire come mai prima d’ora ed improvvisamente ciò la spaventava.
E ciò che era peggio - e, oh!, era davvero peggio - era che tutto ciò si interrompeva quando si voltava ad osservare Ade.
 
 
 
 
 
 
~Il Mughetto dice~
Me li immagino molti di voi a domandarsi “ma che cosa ho appena letto?”. Ebbene, non so neppure io cosa mai è venuto fuori in tutto questo delirio serale. Avevo voglia di scrivere una delle mie OTP mitologiche ed è venuto fuori questa piccola pentola di fagioli Ecate-centric di cui io non so davvero come giustificarmi.
Fate finta di non averlo letto, guardate.
La Ade/Ecate è una delle OTP più potenti che ho in campo mitologico. Li vedo benissimo assieme e poco contano i miei sensi di colpa verso la Ade/Persefone che, in egual modo, amo ed adoro. Non so davvero perché io sia arrivata a scrivere tutto ciò e tanto meno perché ci siano loro due come protagonisti. Come spero avrete notato questo racconto è ambientato durante la Titanomachia e, in particolar modo, nel magico momento in cui Ade, Poseidone e Zeus scendono giù negli Inferi per farsi costruire armi per sconfiggere i Titani.
Quello che Ade tiene in mano è, infatti, il prodigioso Elmo dell’Invisibilità. Ho preferito renderlo come un giovane educato e imbarazzato dallo sguardo minaccioso di Ecate perché, fondamentalmente, io ce lo vedo - nei primi tempi - a temere un poco le donne ed il loro modo di arrabbiarsi. Appare sul finale perché, nonostante il mio grande amore per lui, la scena era completamente dedicata ad Ecate ed i suoi pensieri.
Questa, d’altra parte, è decisamente OOC. Mi dispiace molto per questo. Simile vicinanza agli umani lo si deve alla recente lettura della Teogonia di Esiodo in cui, appunto, viene detto che questa è molto vicina ai mortali e da sempre li protegge. Dato che, all’epoca era l’unico psicopompo esistente ( Ermes è figlio di Zeus e Melinoe di Ade o di Zeus, ancora ), poteva essere solo lei a condurre le anime e ciò mi ha fatto intuire che fosse questo il suo modo di relazionarsi con questi.
Perché shippare la Ade/Ecate? Perché sono carini e, sul serio, sicuramente si saranno incontrati durante la Titanomachia e - una possibile cotta di Ecate per lui - è l’unica ragionevole spiegazione che riesco a darmi al perché abbia tradito i Titani in favore degli dei.
Detto questo, vi ringrazio per aver letto e mi scuso ancora per questo obbrobrio.
  
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