Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: HannibalLecter    28/07/2015    0 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

Un tiepido sole faceva capolino dalle nubi e i suoi raggi si riflettevano sulla vetrata posta come parete del mio ufficio.

O forse sarebbe stato meglio dire nostro ufficio.

Le mie otto ore lavorative non mi erano mai sembrate così lunghe. Avevo scritto ben due articoli senza mai staccare gli occhi dallo schermo del computer e solitamente io due articoli li scrivevo nell'arco di una settimana, se andava bene ed ero ispirata altrimenti anche dieci giorni potevano servire. Oltre a molte suppliche e promesse di regali futuri ad Alfie, giusto per fargli indorare la pillola senza troppe lamentele riguardo al mio essere una procrastinatrice seriale.

Avevo evitato come la peste la saletta caffè con annessa la piccola cucina ed ero andata in bagno molto frequentemente, troppo frequentemente. E a quanto pare sembrava se ne fossero accorti tutti dato che all'ennesima pausa pipì Fabrizio mi aveva fissato preoccupato e informato dell'esistenza di pannoloni appositi per persone incontinenti.

Poi avevo cincischiato per mezz'ora alla fotocopiatrice, facendo mille copie inutili di un fascicolo altrettanto inutile, giusto per temporeggiare.

Infine, stremata dai miei continui e patetici tentativi di sfuggire ad Alessandro, mi ero rifugiata dall'unica persona in grado di salvarmi.

«Non mi serve nulla che non sia in questo edificio al momento», mi spiegò Alfredo, lo sguardo fisso sul tablet che teneva posato sulle gambe, «A parte il maestro del mio corso serale di tango, l'ultimo modello dei mocassini Ferragamo e un Warhol originale da mettere in salotto. Ah, e una di quelle deliziose palafitte alle Maldive in usufrutto da qui alla mia morte. Ma non credo tu possa aiutarmi e procurarmi nessuna di queste cose...»

«Quanto costano i mocassini?»

Il mio capo lasciò perdere all'istante qualunque cosa stesse combinando con il suo iPad e alzò lo sguardo preoccupato, «Sei davvero così disperata?»

A quanto pareva si. E tutto per colpa della mia infantile paura del confronto e delle discussioni. Sapevo benissimo quanto il mio comportamento fosse immaturo e molto spesso esagerato ma non riuscivo a fare a meno di comportarmi come una sciocca bimbetta che ha paura di essere messa in punizione. Questioni spinose, problemi irrisolti, malintesi da chiarire: ero una maga nell'evitarli. Come ci riuscivo? Facile: sparendo, sviando il discorso, rimandando la questione e scavandomi da sola una fossa sempre più profonda. Eh sì, perché solitamente se uno, quando si viene a trovare in una posizione scomoda e soprattutto equivoca, non fa altro che fuggire a gambe levate invece di provare a chiarire la propria posizione non pare quasi voglia ammettere implicitamente la propria colpa? La fuga e il silenzio solitamente sono accolti come una tacita ammissione. E nel mio caso era quella maledetta camicia la tacita ammissione. A dire il vero non tanto tacita dato che mi pareva di essere uno di quegli uomini sandwich, stretta tra due cartelli pubblicitari, recanti la scritta in stampatello, giusto perché non sfugga a nessuno: TRADIMENTO.

E il mio silenzio fu preso per una conferma anche da Alfredo che, dopo aver sospirato, si alzò e mi si avvicinò cauto.

«Parlagli», mi esortò accarezzandomi i capelli, «Hai davanti a te due opzioni ma in entrambi i casi lui si merita la tua attenzione. Lascia a Francesco la parte dello stronzo...»

Sbuffai sonoramente.

Da quando era diventato un saggio dispensatore di consigli seri?

Sapevo perfettamente che aveva ragione solo che...solo che nulla, Ginevra!

Avevo trovato l'uomo perfetto e dopo meno di un mese io e i miei inutili folleggiamenti stavamo già per mandare all'aria tutto.

Per cosa poi? Per una notte a dormire con Francesco? Cioè, facciamo le persone serie: io e Francesco? Va bene l'amicizia, va bene scolarsi una bottiglia di tequila in sua compagnia, va bene mangiare schifezze sdraiati davanti al suo caminetto con lui, va bene litigarci perché io voglio vedere per l'ennesima volta Gossip Girl e lui The Walking Dead con la sua fissa assurda per gli zombie, va bene tutto ma una storia d'amore mai in mille anni.

«Hai ragione»

Ripetere prego? Sì, esisteva sempre una prima volta nella vita, ed era giunto l'umiliante momento in cui ammettevo che, probabilmente per qualche astrusa combinazioni di astri o passaggi di pianeti e lune, Alfie aveva detto una cosa ragionevole.

«La Rinascente, secondo piano, Salvatore Ferragamo, mocassini di camoscio color tortora, codice: 791359, quattrocentotrentasette euro»

Ecco, fine della saggezza e del buon senso. 437€?!

Potevo dire addio al mio regalo mensile. Peccato perché avevo già adocchiato un meraviglioso vestitino a corolla azzurro di Moschino.

«Ok, te le porto più tardi a casa», mormorai abbatacchiata, facendo calcoli frenetici per cercare di far entrare nel mio precario bilancio mensile sia l'abito che i mocassini.

«Tu, piuttosto di parlare con Alessandro e spiegargli che non è successo niente stanotte, saresti disposta a spendere quella cifra per comprarmi delle scarpe? Scarpe meravigliosamente lavorate e rifinite ma...», mi bloccò lui incredulo, lo vidi aggrottare la fronte come per sforzarsi di capire cosa non funzionasse nel mio cervello, prima di chiedermi incerto, «Perché non è successo nulla, vero?»

«Certo che no», esclamai precipitosamente.

Fortunatamente no, altrimenti altro che la Rinascente e cinquecento euro, mi sarei fatta spedire alle Maldive a scegliere di persona la palafitta per Alfie, spendendo tutti i miei risparmi, prima di annegarmi in quelle acque cristalline in preda ai sensi di colpa.

«Sai cosa devi fare», e con questo mi congedò spingendomi fuori dal suo ufficio.

Feci ritorno alla mia scrivania facendo ben attenzione a fissare qualsiasi cosa che non fosse il viso di Alessandro.

Il pavimento era sempre stato di quell'orribile color magenta? E quella piccola macchia di umidità nell'angolo? Quando era spuntata?

«Gin, vieni a  vedere!», la voce entusiasta di Francesco mi distolse dalla contemplazione delle foglie tristi e flosce della piantina accanto alla vetrata.

Feci il giro della sua scrivania e mi sporsi sopra la sua spalla per leggere quello che mi stava indicando sullo schermo del computer.

«Sono o non sono una persona meravigliosa?»

«Non lo sei», lo rimbrottai sovrappensiero, divisa tra la gioia procuratami da quello che stavo leggendo e il senso di colpa che mi attanagliava nel percepire lo sguardo perforante di Alessandro, a pochi metri da dove mi trovavo, fisso su di noi.

«Non ho fatto in tempo ad acquistare i due biglietti che due secondi dopo era già tutto sold out»

Non so dove trovai il coraggio di sollevare lo sguardo e fissarlo in quello di Alessandro.

«Fra, non credo verrò», mormorai senza distogliere l'attenzione da quegli occhi così verdi da sembrare fluorescenti.

«Stai scherzando?», sbottò incredulo girandosi a guardarmi, «Ma se fino a una settimana fa dicevi che eri disposta a chiedere un giorno di ferie solo per stare a casa, incollata al pc, ad aspettare che aprissero le prevendita dei biglietti?»

Lo sapevo. Lo sapevo benissimo. Ma se prima di oggi avrei ucciso Isidoro e venduto i suoi reni al mercato nero degli organi felini in cambio di un pass per il Festival di Glastonbury.

Acciuffai il mio cappotto e recuperai la borsa. Aprii il mio raccoglitore rosa alla ricerca di un documento su cui avrei potuto lavorare a casa e lo infilai in una busta plastificata. Fatto ciò marciai decisa fuori da quell'ufficio asfissiante consapevole di avere due paia di occhi puntati alle spalle che mi fissavano sconcertati e di essere terribilmente infantile.

***

Tre tazze di thè caldo, cinque pasticcini e ottocento euro più tardi stavo decisamente meglio.

Il vestito di Moschino era assolutamente un capo irrinunciabile. Avevo provato a resistere, ci avevo provato sul serio, lo giuro sulla testa del mio povero gatto decerebrato. Avete presente Ulisse e il canto ammaliatore delle sirene? Ecco, io non avevo alcun caro amico disposto a legarmi all'albero maestro di una galera e ad offrirmi morbida cera malleabile con cui rendere le mie orecchie insensibili a quei richiami tentatori.

E ora stavo finalmente bene, seduta ad un tavolino della pasticceria super leziosa alle spalle del Castello Sforzesco che serviva thè aromatizzati al lampone e macarons dai mille colori dell'arcobaleno. Fissavo serena le persone indaffarate che passavano rapide di fronte alla vetrina del locale, la presenza rassicurante delle mie due preziose borsine targate Moschino e Ferragamo al fianco.

La soluzione a tutti i problemi risiedeva nell'ignorarli.

Esattamente come stavo facendo io con il mio telefono, il cui schermo non smetteva di illuminarsi e la cui spia lampeggiava impazzita, decisa a catturare la mia attenzione e a farmi capire che i messaggi e le mail si stavano accumulando copiose.

Inutile, nulla mi avrebbe distolto dalla mia pausa thè zen.

I problemi per quelle due ore non esistevano. Alessandro non sapevo chi fosse. Alfredo era solo il nome del pesce rosso che mia cugina fece morire di fame dopo la bellezza di soli tre giorni. E Francesco, bè era l'autore del canto di frate sole e sorella luna, no?

«Ginevra»

Fine del momento zen.

«Che ci fai qui?», mormorai sollevando lo sguardo verso un paio di seri occhi verdi.

Che domande! La risposta era una sola: Alfredo. Il pettegolo del villaggio. La comare dell'ufficio. La gazzetta di Milano.

Per un attimo mi balenò in mente l'immagine di un falò scoppiettante nel quale ardevano i mocassini Ferragamo e le urla di disperazione di Alfie, costretto ad assistere allo spettacolo, dopodiché la mia attenzione si focalizzò su Alessandro, che nel frattempo si era sfilato il cappotto grigio scuro e si era allentato il nodo della cravatta, ora seduto di fronte a me.

«Non mi piacciono i giochetti e le prese in giro. Non mi va di essere lo zimbello dell'ufficio», esordì grave, «Probabilmente la colpa è anche mia poiché non mi sono curato di definire il nostro rapporto...»

Lo fissai cauta in attesa delle sue prossime parole.

L'assenza di definizioni era sempre stato proprio ciò che avevo apprezzato di più nel nostro rapporto. Niente richieste ufficiali, impegni a lungo termini, promesse difficili da mantenere. Vivevamo giorno per giorno la nostra relazione senza curarci di ciò che il futuro ci avrebbe riservato e questo mi permetteva di evitare di sentirmi soffocare, di mantenere intatta la mia tanto amata libertà.

«Vorrei che tu diventassi ufficialmente la mia fidanzata. Voglio impegnarmi seriamente con te e se accetti gradirei che tu facessi lo stesso; e questo implica basta notti nel letto dei tuoi amici…», strinse la mia mano destra tra le sue e io con sguardo terrorizzato osservai impotente come il suo sguardo si soffermava troppo a lungo sul mio anulare nudo.

Quando i nostri occhi si incontrarono nei suoi intravidi un'ombra di felicità così lucente da spaventarmi quasi. Un uomo, uno splendido uomo tra l'altro, mi stava  chiedendo di impegnarmi con lui, di provare a costruire qualcosa di potenzialmente bellissimo con lui e l'unica cosa che provavo era una paura paralizzante.

Paura di poter rovinare tutto, di poterlo deludere, di potermi dimostrare inferiore alle sue aspettative.

Ma il calore con cui mi guardava mi faceva venire solo voglia di baciarlo e di urlare un sonoro «Si, anche io voglio le stesse cose!», al diavolo la paura.

«Credi funzionerebbe?», domandai timorosa.

«Potrei dirti che ci credo come credo nel fatto che il sole un'ora fa è tramontato ad ovest ma sarebbe una bugia. L'unico modo per scoprirlo è tentare, non credi? E io voglio provarci con tutto me stesso, voglio provare ad arrivare a credere nella nostra storia e in te al pari di quanto credo nel ciclo solare».

Wow. Moccia e Baci Perugina inchinatevi di fronte a questo sfoggio di animo romantico.

«E poi sarei io quella brava con le parole?», domandai ridacchiando, «Direi che possiamo tentare», mormorai prima di sporgermi al di sopra del tavolino e stampargli un bacio sulle labbra.

«Posso portarle qualcosa?»

Sì, una vanga con cui scavarti una buca e seppellirtici a vita.

Le cameriere avevano sempre un tempismo invidiabile pensai staccandomi controvoglia da Alessandro e tornando a sedermi al mio posto.

«No, grazie»

«Un cappuccino? Una tisana depurativa? Una fetta di cheesecake al ribes? Un pasticcino alla scorza di cedro?», insisté quella.

Insomma, dov'è questa vanga? Se continuava così altro che buca, sulle gengive gliela davo.

«No, davvero, sono a posto così, grazie lo stesso», cercò di frenarla Alessandro cortesemente.

«Abbiamo anche dei tortini caldi appena sfornati al cioccolato e cannella...»

Che guardava insomma? Non aveva mai visto un meraviglioso ragazzo con degli altrettanto meravigliosi occhi verdi?

«Ce ne andiamo, ci porti il conto, per favore», tagliai corto, alzandomi e afferrando il cappotto.

 

«Gelosetta?», mi stuzzicò Ale, non appena uscimmo dalla pasticceria e ci lasciammo alle spalle l'adorabile cameriera.

«No», borbottai scontrosa, avvolgendomi per bene la sciarpa attorno al collo, «Solo attenta alla tua linea. Niente dolcetti al cioccolato che poi ti viene la pancetta», sentenziai.

«Certo, certo», mi rabbonì lui, fingendo di credere alle mie miserevoli giustificazioni.

«Io ho lasciato la mia teiera in ufficio»

Schivai una pozzanghera e afferrai la sua mano per trascinarlo sotto i portici, al riparo dalla lieve pioggerellina che stava iniziando a scendere.

«Teiera?»

A volte dimenticavo che conoscevo Alessandro da poco meno di un mese e tendevo a dare per scontate tantissime cose.

«È il mio maggiolino», gli spiegai, «Posso portarti a casa io?», domandai entusiasta.

Vidi un'espressione dubbiosa e leggermente allarmata scorrere sul suo viso.

Tsè, gli uomini e il loro scetticismo nei confronti delle doti come autista delle donne.

Donne al volante, sicurezza costante. Non a caso io nei miei quasi sette anni di patente avevo fatto solo tre tamponamenti e preso un paio di multe. Ook, forse una decina, ma rimanevo comunque una fantastica guidatrice.

«E che ne facciamo della mia auto?»

«Domani vieni in metro al lavoro...o passo a prenderti io», proposi, «Sempre che dopo stasera tu voglia ancora salire in macchina con la sottoscritta», conclusi sorridendo malefica.

«Sono di stomaco forte»

«Vedremo»

 

«Sei completamente impazzita?! Hai tagliato la strada a quell'auto, che aveva senza dubbio la precedenza, rischiando di portargli via tutto il muso della macchina!»

Alessandro dopo due minuti di viaggio, alla prima rotonda per la precisione, si era aggrappato alla maniglia sopra la portiera, come Scrat si aggrappava alla sua dannata ghianda.

Terza. Accelerazione. Quarta. Sfrecciai lungo il viale, schivando il camioncino della spazzatura e sorpassando l'autobus fermo alla pensilina.

«Razza di deficiente! Brutta testa di cazzo! Hai comprato la tua patente di merda collezionando i punti per la batteria di pentole all'Esselunga?!  Che ti colpisca un meteorite cosicché tu e la tua guida da cretino idiota spariate dalla faccia della terra!», strillai furiosa nei confronti del coglione che aveva inchiodato senza preavviso davanti a me, costringendomi a pigiare il freno in tutta fretta e facendomi rischiare di proiettare il povero Alessandro al di là del parabrezza.

Mi attaccai irata al clacson continuando ad urlare improperi a volume di voce sempre più alto. Finalmente dopo che la terra aveva fatto tredici giri attorno al sole e gli alieni avevano colonizzato il pianeta quel babbeo decise che era ora di muovere quel suo culo schifoso e permettermi di raggiungere l'appartamento di Alessandro.

Ripartii alla velocità della luce, facendo un bel dito medio all'autista cerebroleso, non appena lo superai.

Quando dieci minuti più tardi, dopo uno spettacolare parcheggio ad L fatto con ancora la quarta inserita e il rischio di finire al di là del muretto che delimitava i posteggi, mi slacciai la cintura e mi voltai verso il mio compagno di viaggio, lo trovai terreo con gli occhi spalancati e un'ombra di shock dipinta in viso.

«Credo prenderò la metropolitana domattina», mormorò con un filo di voce.

«Oh no, non dirmi che anche tu soffri la mia guida come Alfie! Credo abbia vomitato minimo quindici volte, proprio su quel sedile dove sei seduto...», ghignai indicandolo.

Balzò in piedi in meno di un nanosecondo andando a sbattere violentemente la testa contro il tettuccio.

Scoppiai a ridere di fronte alla sua smorfia di dolore.

«Vuoi salire?», mi domandò massaggiandosi la testa.

Avrei potuto rispondere affermativamente, salire e concludere la serata in bellezza.

O potevo declinare l'offerta, fare dietrofront e passare la serata con Isodoro e una scatola di cornflakes come cena.

«Ok»

***

 

«Smettila di fare il bambino e sali in auto!»

«Scordatelo!»

Ore 7.57 di una giornata di marzo, mattinata all'insegna di un pallido sole, anticipo dell'imminente primavera, e del solito traffico milanese.

Con le quattro frecce inserite e la testa fuori dal finestrino, occupando irregolarmente lo spazio dedicato all'autobus, stavo cercando di convincere Alessandro a venire al lavoro con me e ad abbandonare la pensilina del 54.

«Se sali stanotte ti faccio stare da me...», proposi persuasiva sbattendo le ciglia ripetutamente e fissandolo malizioso.

«Quello era sottinteso dato che io ti ho ospitato nel mio letto stanotte, calci e discorsi insensati da addormentata compresi nel pacchetto...»

Ecco, questo era il grande potere che le mie doti seduttive avevano. Forse sarebbe stato meglio farsi dare delle ripetizioni intensive da Francesco, il quale deteneva il tempo record di rimorchio: trentasette secondi.

«Signorina, non può stare qui», mi ricordò una vocetta stridula, vocetta che scoprii appartenere alla tipica nonnetta fastidiosa capace di farsi gli affari di tutti tranne i suoi.

La ignorai bellamente; lo sapevo benissimo anche io, non le vedeva le frecce che lampeggiavano?!

«Ti permetto di tenere per un intero weekend Isidoro...»

Ale scoppiò a ridere e scosse la testa, «Quel gatto è posseduto e finirebbe esorcizzato a colpi di acqua di Lourdes e salmi in latino da Dolores, la mia portinaia cilena, super religiosa»

Mi immaginai Isidoro zuppo e spaventato in un angolo, mentre una signora sovrappeso teneva di fronte a sé un grosso crocefisso e strillava «Vade retro Satana!».

Magari mi avrebbe restituito il tenero gattino, tutto leccatine e fusa, che Isidoro era stato per i primi due giorni a casa mia, prima che la nostra convivenza lo traumatizzasse.

Nicola odiava la mia folle palla di pelo e non voleva assolutamente che mettesse piede nella nostra camera e così passavamo le notti in bianco a sentirlo piangere fuori dalla porta chiusa della stanza da letto e le giornate a riverniciare il legno della suddetta porta per celare i segni dei graffi disperati che Isidoro aveva lasciato le notti precedenti. Io mi arrabbiavo con Nicola, lui se la prendeva con lo 'stupido animale' e il gatto mi ignorava, convinto che io non mi battessi in sua difesa. Probabilmente se non fosse finita per il suo tradimento, la nostra storia si sarebbe conclusa per Isidoro, adorato da me mentre Nicola ne pianificava la morte di notte probabilmente.

«Signorina, si sposti! Il bus sta per arrivare...»

Stessa vocetta stridula, tono ancora più fastidioso ed irritante.

«Con cosa posso convincerti a salire allora?», chiesi sollevando un sopracciglio.

Essendomi bruciata la carta sesso, vero jolly di noi donne, non mi restava molto se non impegnare i miei orecchini Cartier o la mia borsa Hermés, per permettermi di comprargli un abbonamento allo stadio o una seduta di lucidatura della carrozzeria della sua Porsche o qualsiasi accidenti di cosa piacesse agli uomini.

Alfie era molto più facile da decifrare ed accontentare. Molto più simile a me, bastava una nuova cravatta Emporio Armani con una fantasia stravagante ed eccentrica per essere di nuovo al centro del suo cuoricino e in cima ai suoi pensieri.

Nicola aveva la fissa per il ciclismo e, nonostante questo significasse che ogni fine settimana di sole io venivo abbandonata per un gruppetto di fanatici in tutine sgargianti e attillate in modo imbarazzante con cui sbiciclettare felicemente per tutta la Brianza e dintorni, ad ogni compleanno o festività mi bastava andare in un negozio sportivo e farmi fare un buono spesa.

«Presentami ai tuoi amici», esalò inaspettatamente.

La mia mente partorì l'immagine di Chiara, Cecilia e Veronica sedute, una accanto all'altra, pronte a fronteggiare il povero Alessandro, posteggiato su uno sgabellino di fronte a loro, stile commissione di esame di maturità.

«Perché?», lo interrogai per prendere tempo.

Le mie amiche, aggiungiamoci anche Alberto e mio fratello, mi conoscevano da sempre e le storie che potevano narrare sul mio conto erano innumerevoli e non sempre innocue e lusinghiere.

«L'autobusss-»

La vocetta dell'anziana fu sovrastata da un potente strombazzare di clacson, proveniente dalle mie spalle.

Lo specchietto retrovisore mi offrì il riflesso del muso arancione del bus e dell'autista di questo, intento a gesticolare nella mia direzione e, probabilmente ad insultarmi, vista la sua espressione furiosa.

Ginevra, tu sai sempre come farti ben volere.

«Muova il culo! Gli risponda di si e se ne vada che devo prendere l'autobus!», mi suggerì acida la solita nonnina, guardandomi astiosa.

«Ma...», presa in contropiede dall'improvviso arrivo del mezzo e dal linguaggio tutt'altro che principesco della signora.

Vidi il riflesso dell'autista che si stava alzando per scendere, probabilmente per venire a picchiarmi e a far capire alla mia testa dura che dovevo sloggiare e non farmi mai più vedere.

«Ok, ok! Sali subito, per carità!»

Girai la chiave, accesi il motore e, ancora prima che Alessandro avesse avuto il tempo di chiudere la portiera, partii sgommando.

«Venerdì sera sono libero», mi ricordò lui allacciandosi la cintura e sorridendo trionfante.

Svoltai a sinistra in modo repentino mandandolo a sbattere la tempia contro il finestrino, ovviamente apposta, ed ebbi l'enorme soddisfazione di vedere il suo sorriso gongolante scomparire.

***

 

«Sul serio, non capisco perché tu debba venire con noi»

Ormai era da più di mezz'ora che cercavo di convincere Alfie a levare le tende e partire verso lidi più accoglienti e soprattutto più lontani di camera mia ma era come dialogare con Bettina, la vicina sorda come una campana di nonna.

Ma si sa, a me piace parlare al vento e sprecare fiato, e così continuavo imperterrita a cercare di sbolognarlo tra una prova d'abito e l'altra.

«Sembri una zucca di Halloween conciata così...», commentò cortese come sempre Alfredo, appollaiato sul bracciolo della poltrona color bordeaux ai piedi del mio letto.

Fissai il mio riflesso allo specchio cercando di capire cosa non andasse in quel delizioso abito con gonna a campana color arancione, gentile dono della mia madrina di battesimo, che soffriva di daltonismo.

Borbottando contrariata mi avvicinai al mio capo e gli diedi le spalle, scostandomi i capelli ancora umidi dalla schiena, per liberare la zip.

Se andavamo avanti così stasera mi sarei presentata in pigiama. Ma non in una di quelle camicie da notte tutte merletti fiorati e pizzi trasparenti in stile Victoria's Secret con cui non capivo come la gente riuscisse a dormire, ma con il mio bel pigiamone felpato di pile decorato con i pasticcini.

Uscire con Alessandro era uno stress continuo, o meglio, il prepararsi agli appuntamenti con lui lo era. Mi aveva sempre vista al meglio. Non aveva ancora avuto l'enorme piacere di assistere allo spettacolo raccapricciante di una Ginevra malata, naso rosso, occhiaie violacee, mollemente adagiata in un tappeto di kleenex appallottolati. O peggio ancora non aveva ancora visto la mia versione depressa, vaschetta di gelato alla mano e lacrima facile. O quella ubriaca, abbracciata alla tazza del wc a cantare i più grandi successi di Tiziano Ferro.

«Non è giunta l'ora di abbandonare la tua postazione ed avviarti verso una serata senza dubbio più divertente e briosa?», chiesi mentre  lottavo con la chiusura lampo di una gonna con una fantasia a rombi viola e gialli, reperto dei miei diciotto anni probabilmente, in cui non sarei entrata neanche cibandomi di gambi di sedano per  due interi mesi.

«Prova quello di pelle nera»

Sorseggiava il suo thè tranquillo, con un sorrisetto stampato sulla sua faccia di bronzo, mentre faceva dondolare il piede, calzato da una scarpa di vernice Gucci, ovviamente.

Acciuffai un abito di velluto a costine con corpetto stile salopette color sangue dalla pila sul letto e, gettata alle spalle la gonna, mi infilai in quello ignorando il consiglio.

Se volevo dare l'idea di una appena fuggita da una comunità hippie ero decisamente su una buona strada. Forse se ci aggiungevo una coroncina di fiori e mi procuravo un po' di hashish, giusto per avere quel tocco da fricchettona strafatta con le pupille dilatate e gli unicorni saltellanti attorno, potevo essere presa per un revival di Woodstock.

Rimasta in mutande e reggiseno per l'ennesima volta, osservai sconsolata la pila, molto alta, di abiti già provati e scartati e quella, molto bassa, di vestiti ancora da indossare.

In pratica restavano l'abito di pelle nera e un tubino super stretch color pisello. Probabilmente quando facevo shopping ero sotto l'effetto di sostanze psicotiche o ero in compagnia della già citata madrina daltonica, non si spiegava altrimenti la scelta assurda del colore.

«Albicocchina mia, non farlo, so quanto ti costi ammettere che avevo ragione io ma...non indossare quell'obbrobrio», mi supplicò Alfie, spaventato dalla direzione del mio sguardo.

Se odiavo dare ragione ad Alfredo Arnaboldi? Diciamo che rasarmi i capelli a zero e girare vestita di foglie di fico e noci di cocco mi avrebbe dato meno fastidio del dover ammettere che io avevo torno e lui no.

Trattenendo il fiato e rischiando di slogarmi entrambi i polsi riuscii a far salire il vestito dai fianchi, dove il mio didietro aveva rappresentato un avversario tenace, fino alle spalle.

Non avevo ancora chiuso la cerniera e già rischiavo il soffocamento.

Ero ingrassata così tanto negli ultimi tre anni?!

Alfie sbucò alle mie spalle e, con un ghigno malefico stampato in volto, alzò tutto d'un colpo la zip, facendomi restare letteralmente senza fiato. 

«Ripeto: indossa quello di pelle nera»

Sembravo Trilli, la fatina di Peter Pan, solo venti volte più alta e quaranta più larga. Qualcuno sapeva dove avrei potuto procurarmi un paio di ballerine in tinta con pompon?

Sbuffando sgusciai fuori da quell'aborto di vestito e mi infilai il famoso abito di pelle nera.

Ovviamente mi calzava a pennello e altrettanto ovviamente lo avevo preso in una seduta di shopping con Alfie.

«Stellina cara, mi prude tantissimo la lingua e vorrei con tutto me stesso dire che avev-»

«Shhh!», lo zittii prontamente, era già stato abbastanza umiliante vestirsi da abitante dell'Isola-che-non-c'è per sostenere la mia causa fallimentare.

«Avevo rag-», ritentò cocciuto quello.

«Non sento, non sento!», strillai tappandomi le orecchie con il palmo delle mani.

Quell'idiota approfittò del fatto che avessi sollevato le braccia per impedirmi di sentirlo cantar vittoria e si gettò verso i miei fianchi iniziando a farmi il solletico.

Ecco, se volevate togliere a Ginevra Visconti quel poco di serietà che si era guadagnata tanto duramente bastava iniziare a solleticarmi, anche solo in punta di dita, i fianchi.

Un minuto e mi stavo contorcendo sul letto, lacrime agli occhi, continui risolini e suppliche affinché Alfie la smettesse.

«Dillo», mi sfidò perfidamente lui, riacciuffandomi per le ascelle un secondo prima che ruzzolassi giù dal materasso in un disperato tentativo di fuga.

«T-ti pre-prego...», non ce la facevo più, mi mancava il fiato e non riuscivo a smettere di ridere, «Oddio bas-basta!»

«Dillo!», mi sussurrò la serpe all'orecchio continuando a muovere le sue lunga dita su e giù.

«Hai ragione tu!», urlai esasperata con il poco fiato rimastomi.

Il solletichio cessò all'istante e di fronte agli occhi mi si parò il sorriso a trentadue denti di Alfie, che dondolava felice la testa e batteva le mani, come un bambino che ha appena ricevuto il suo contentino.

«Andiamo, per carità». Mi sollevai dai cuscini e andai in bagno, seguita da un trotterellante Alfredo.

Un quarto d'ora più tardi, truccata e semi acconciata, stavamo finalmente per salire in auto quando ci trovammo a discutere come sempre. Il problema ogni volta era lo stesso: chi avrebbe guidato?

Alfie soffriva la mia guida e io la sua. Lui avrebbe sbraitato di fronte ai limiti di velocità del tutto personali che io seguivo e io mi sarei innervosita per i 20 km/h che in media lui teneva in tangenziale. Lui si sarebbe irritato per le mie rotonde in quarta, il mio ignorare i passanti e le mie mancate precedenze. Io me la sarei presa per il suo voler fermarsi a far attraversare persino le formiche e le lumache e le soste di svariati minuti che faceva agli imbocchi delle rotonde, perché gli pareva che in lontananza, cioè a circa mezzo chilometro, gli pareva arrivasse qualcuno.

Soluzione? Taxi.

«Capisco benissimo come mai ti hanno bocciato due volte all'esame pratico della patente», borbottai rientrando nell'androne del mio palazzo, almeno avremmo aspettato il taxi al caldo.

«E io non capisco come mai non ti abbiano mai bocciato, evidentemente papino avrà fatto una generosa donazione alla scuola guida...», insinuò velenoso come una vipera, «La tua cassetta sta scoppiando», constatò indicandomi la targhetta con inciso il mio nome.

Frugai nella mia borsa e gli lanciai le chiavi della posta non appena le pescai dal fondo, invaso da reperti di caramelle e scontrini.

Mi sedetti sull'ultimo gradino della scalinata in marmo dell'ingresso, solitamente di venerdì sera bisognava attendere per secoli un taxi.

Alfie si appoggiò alla parete accanto a me, perché guai far venire a contatto il prezioso tessuto dei suoi pantaloni con il pavimento lucidato a specchio di un plebeissimo atrio, e iniziò ad analizzare la mia corrispondenza.

Lo lasciai fare senza problemi, probabilmente sapeva più cose su di me e le mie relazioni della diretta interessata stessa. Alfie era come una sorella impicciona e decisamente troppo esagitata e piena di folli idee, ma io, cresciuta con due fratelli maschi, molto più interessati ai videogiochi e alle mie amiche che alle mie confidenze, avevo terribilmente bisogno di una figura come Alfredo. Alfredo non mi giudicava mai, mi ascoltava, si lasciava scappare qualche buffa smorfietta che lasciava trasparire i suoi pensieri al riguardo ma era sempre dalla mia parte, qualsiasi cosa succedesse.

«Joanne ti invita a Lione per Pasqua, sappiamo già entrambi che le darai buca come quasi sempre perciò scrivile che se vuole io accetto volentieri il soggiorno pasquale francese a scrocco», mi informò aprendo una seconda lettera.

Joanne, ragazza francese conosciuta ai tempi di una vacanza studio al liceo, perseverava nel volermi invitare almeno sei volte l'anno da lei, nonostante il nostro appuntamento fisso fosse un weekend a Cannes nel periodo del festival, perfetto connubio tra lavoro e svago.

Il rumore di carta strappata fece tornare la mia attenzione sul mio amico, che stava riducendo in pezzetti sempre più piccoli un foglio di carta.

«Che stai facendo? È una lettera che si scusa per il mancato invito alla cerimonia degli Oscar di quest'anno e mi offre un posto in prima fila, tra Bradley Cooper e Eddie Redmayne, per il prossimo anno? È un biglietto per la sfilata di Dior per Paris Fashion Week?», incalzai curiosa.

«Sì, sogna. Bradley avrebbe occhi solo per me!», mi rispose strizzandomi l'occhio, «No, era solo la bolletta della luce»

«E perché mai lo avresti fatto?!», domandai sbigottita.

Il mio cervello cercò di trovare un collegamento tra i conti da pagare per la luce utilizzata e la reazione psicopatica di Alfredo.

Ovviamente non lo trovò.

Lui fece spallucce, «Io straccio sempre le lettere che vogliono denaro da me. Odio le bollette. Ormai anche la Enel lo ha capito e le manda direttamente al mio povero commercialista»

Spiegazione super ragionevole, no?

Avevo avuto l'onore di conoscere Andrea Agosti, il suo commercialista, e potevo affermare che dopo la sua morte sarebbe finito dritto filato in paradiso, su un tappeto rosso, e probabilmente sarebbe anche stato fatto santo.

Tenere in ordine le finanze di Alfie e fare in modo che non dovesse dichiarare bancarotta prima del suo trentesimo compleanno causava molteplici notti insonni e mal di pancia al povero ragazzo.

Oculatissimo e super prudente quando si trattava del giornale, scialacquatore e senza freni con i suoi risparmi.

«Dovresti aumentare la parcella del povero Andrea...», commentai a mezza voce alzandomi in piedi, poiché avevo intravisto il taxi attraverso il vetro coperto di goccioline di pioggia della porta d'ingresso.

Alfie mi aprì la portiera e mi fece salire per prima, accomodandosi a sua volta subito dopo.

«Buonasera, via Alfieri 33, grazie», informai l'autista, un signore brizzolato sulla sessantina, che annui e mi rispose con un sorriso.

Il mio amico mi porse il suo telefono indicandomi lo schermo, «Andrea è già fin troppo ricco, e lo è grazie alla gente ricca che non sa amministrare il proprio capitale, fortunato lui».

Non commentai, avevamo cercato, sia io sia Francesco, a spiegargli dei rudimenti di economia, nulla di troppo cervellotico e complesso ovviamente, in fondo eravamo pur sempre giornalisti di cinema, ma giusto le basi per imparare a farsi la dichiarazione dei redditi da soli e tenere un bilancio approssimativo delle entrate e delle uscite. Fra poi aveva anche tentato di iniziarlo al mondo degli investimenti, con risultati disastrosi, dato che Alfie già a sentir parlare di spread e deficit al tg diventava magicamente sordo.

Sul display illuminato dell'iPhone di Alfie lessi il messaggio di Francesco che si scusava del poco preavviso, inesistente a dire il vero, con cui ci informava che stasera non si sarebbe unito a noi, rapito in anticipo da Aprile per un weekend alla spa.

Avrei potuto convincermi che non me ne importava nulla ma ciò avrebbe significato mentire in modo sfacciato a me stessa. Ero arrabbiata e delusa, sì, delusa e arrabbiata perché Francesco odiava le terme, perché questa cosa di chiamare le ragazze come il mese in cui le frequentava era una cosa semplicemente squallida, perché avrebbe dovuto esserci quella sera, Aprile o non Aprile.

Sapevo benissimo di avere gli occhi attenti di Alfredo puntati sul mio viso, in attesa di leggere chissà quale espressione di sconsolata disperazione nell'apprendere la notizia arrivata via sms.

Non aveva avuto neanche il coraggio di scrivere direttamente a me e così aveva usato Alfie come ambasciatore. Codardo.

«Peggio per lui, Alessandro lo conosce già e per me è indifferente che ci sia o meno...»

Bugiarda. Bugiarda. E ancora bugiarda.

Non so se Alfredo notò la mia menzogna ma se anche fosse fu così gentile da non commentare.

 

***

 

La serata fu un successo. Veronica avvolta in uno splendido smoking dal taglio maschile, sotto cui si era casualmente scordata di indossare una camicia, era stata l'anima della cena, brillante e ciarliera come sempre, e aveva ignorato per tutto il tempo mio fratello Federico. Quest'ultimo, poveretto, non fu così bravo nel mostrarsi indifferente, tradito dai suoi occhi che cadevano più spesso del dovuto sulla scollatura della mia amica.

Cecilia e Alberto parevano già in luna di miele, continuavano a sfiorarsi, quasi sovrappensiero, che fosse una carezza sul dorso della mano o una parola bisbigliata all'orecchio dell'altro, e avevano lanciato il totonome per il bebè in arrivo.

Per ora i più quotati erano Gabriele e Margherita. E solamente io e Alberto eravamo convinti sarebbe stata una femminuccia, tutti gli altri propendevano per un futuro fiocco azzurro, con l'eccezione di Alfie che scommetteva su una coppia di teneri gemellini strillanti.

Chiara, arrivata trafelata dall'ufficio, ancora in tailleur color cipria, era parsa sempre leggermente assente, la testa persa in chissà quali pensieri.

E poi ovviamente c'era Alessandro, splendido, ancora più del solito, in un completo informale ma molto elegante dai colori tipicamente invernali. Aveva chiacchierato senza problemi con tutti i presenti, trovandosi in sintonia persino con Federico, che solitamente snobbava e odiava in silenzio i miei fidanzati.

Fidanzato, pareva ancora così strano considerarlo tale, eppure la sua mano che più volte era scivolata sotto il tavolo per cercare la mia, anche solo per una leggera stretta o una carezza fugace, e i sorrisi complici che mi dedicava, tutto rendeva il nostro legame un po' più reale.

Al ritorno, dopo saluti durati una lunga mezz'ora a causa dei temporeggiamenti farciti di pettegolezzi spiccioli di noi ragazze, avevo abbandonato senza sensi di colpa Alfie e mi ero infilata nella Porsche di Alessandro.

«Allora che mi dici?», lo incalzai curiosa non appena si sedette in auto e partimmo.

Nella penombra dell'abitacolo della macchina risuonò la sua risata, «Poco impaziente, eh?»

Mi morsi il labbro inferiore in preda all'imbarazzo. Effettivamente non gli avevo neanche dato il tempo di premere l'acceleratore e uscire dal parcheggio che già lo avevo aggredito con la mia curiosità morbosa.

«Mi piacciono. Soprattutto Alfie, che non vedo abbastanza in ufficio, cinque giorni a settimana», scherzò lui.

Mi rigirai tra le mani le frange della mia sciarpa, «Ops, non l'avevo vista in quest'ottica. Alfie è un mio amico, prima di essere il mio superiore. Avevo invitato anche Francesco...»

Perché mai mi stavo giustificando? Alfredo era un mio amico, un mio grande amico a dire il vero, la mia piccola sorellina sciroccata.

«Come mai non c'era?», domandò, potevo quasi percepire il sollievo che provava nell'apprendere che Francesco, sebbene invitato, non si era presentato.

«Impegni», restai sul vago.

Alessandro non conosceva Francesco e non volevo che, saputa la storia delle ragazze a scadenza mensile, lo giudicasse in modo sbagliato.

Francesco era uno stronzo, trattava le donne come fossero usa e getta ma, nonostante non approvassi il metodo, capivo che il suo ero solo un modo di reagire a ciò che gli era successo.

«Invidio tantissimo la felicità di Cecilia e Alberto, loro sono l'esempio di tutto ciò che vorrei io dalla vita...», esordì Alessandro, interrompendo il mio rimuginare sulla storia del mio amico.

Effettivamente i miei amici erano stati molto fortunati, considerato che si erano conosciuti poco più che bambini e, salvo sparuti litigi e incomprensioni, era da dieci anni che andavano d’amore e d’accordo.

Io però non avrei mai voluto un amore così, alcuni penseranno che la mia affermazione deriva dal fatto che non l’ho avuto un unico grande amore simile a quello, ma la verità era che io ero incapace di legarmi per troppo tempo ad una persona, o forse non avevo ancora incontrato una persona con cui valesse davvero la pena impegnarsi per tutta la vita.

Non avevo mai avuto il sogno dell’abito bianco, delle damigelle vestite da confetti e della torta a sette piani con gli sposini di zucchero in cima. Non credevo nel per sempre o probabilmente ne ero solo spaventata. Fatto sta che ero felice di aver vissuto le mie esperienze, per quanto tragiche e deprimenti alcune di esse fossero state, perché mi avevano aiutato a capire cosa desideravo davvero, e di sicuro avevo capito che questa cosa non era il matrimonio. Volevo semplicemente una relazione solida, in cui il mio compagno fosse prima di tutto anche mio amico, mio complice, che mi conoscesse davvero e apprezzasse tutte le sfaccettature del mio carattere, qualcuno che venisse a fare jogging con me alle sei di una domenica mattina se mi venisse voglia di farlo, qualcuno disposto a correre in aeroporto a prendere il primo aereo, senza prenotazioni e con pochi bagagli, qualcuno che riuscisse a comprendere, assecondare ma al tempo stesso, quando necessario, limitare il mio carattere folle, caratterizzato da un’irrazionale impulsività, una tagliente schiettezza e dei vertiginosi sbalzi d’umore. Qualcuno che mi facesse ridere e fosse in grado di sorprendermi, impedendo alla noia di prendere il sopravvento nella nostra relazione.

Non ribattei all’affermazione di Alessandro, preferendo non fargli sapere che io ero di tutt’altro avviso. Un figlio adesso? Sapevo a malapena prendermi cura di me stessa e ricordarmi i croccantini di Isidoro, rischiando ogni sera di farlo morire di fame a causa della mia sbadataggine, figurarsi un frugoletto strillante.

Sentii vibrare il telefono nella borsetta e così lo pescai, giusto per dare un’occhiata alle ultime mail, nonostante sapessi benissimo che Alessandro detestava che guardassi il cellulare quando ero con lui, diceva che nuoceva ai rapporti umani.

Se Marzo aveva il cane-topo non puoi immaginare quale orribile creatura Aprile si porti appresso: una cavia da laboratorio. Ora è di là a far scorrazzare il mostriciattolo nella vasca da bagno, speriamo caschi nel buco dello scarico. Salvami!

Non potei fare a meno di sorridere. Francesco era un idiota, e non solo per il suo essere uno sciupafemmine incallito, ma perché le donne che si sceglieva erano una più pazzoide dell’altra.

«Chi è che ti scrive a quest’ora?», domandò Alessandro dopo aver notato il mio digitare semi nascosto dalle pieghe del cappotto.

«Mio fratello Lorenzo, quello che non hai ancora conosciuto», mentii e non seppi neanche io perché lo feci.

Stavo per riporre il telefono, dopo aver consigliato a Francesco l’acquisto di una trappola per topi, quando questo iniziò a squillare.

«Pronto?», risposi dopo aver letto un numero sconosciuto sul display.

I secondi che seguirono furono tra i più terribili della mia vita. Ascoltai come in trance quello che la signora dall’altro capo mi stava spiegando tra lacrime e singhiozzi.

Nonostante le frasi spezzate dai singulti avevo afferrato la notizia che mi faceva tremare e che mi aveva gelato il cuore: Alfie aveva avuto un incidente nel tornare a casa.

 

 

 

Buongiornooo!

Mi spiace turbare gli animi dei miei lettori con questa notizia sconvolgente ma vi voglio rassicurare dicendovi che Alfredo è uno dei miei personaggi preferiti e questo dovrebbe già calmarvi e garantirvi sonni tranquilli. Francesco c’è poco in questo capitolo, troppo impegnato nella sua personale caccia ai topi, ma tranquille che tornerà. Mercoledì prossimo parto per due settimane quindi vorrei riuscire ad aggiornare nuovamente prima di quel giorno ma non assicuro nulla perché sono già impegnata nella stesura del capitolo dell’altra mia storia quindi vedremo, io però farò tutto il possibile.

Come sempre i vostri commenti sono più che graditi.

S. xxx

 

 

 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: HannibalLecter