Un
tiepido sole faceva capolino dalle
nubi e i suoi raggi si riflettevano sulla vetrata posta come parete del
mio
ufficio.
O
forse sarebbe stato meglio dire nostro
ufficio.
Le
mie otto ore lavorative non mi
erano mai sembrate così lunghe. Avevo scritto ben due
articoli senza mai
staccare gli occhi dallo schermo del computer e solitamente io due
articoli li
scrivevo nell'arco di una settimana, se andava bene ed ero ispirata
altrimenti
anche dieci giorni potevano servire. Oltre a molte suppliche e promesse
di
regali futuri ad Alfie, giusto per fargli indorare la pillola senza
troppe
lamentele riguardo al mio essere una procrastinatrice seriale.
Avevo
evitato come la peste la saletta
caffè con annessa la piccola cucina ed ero andata in bagno
molto
frequentemente, troppo frequentemente. E a quanto pare sembrava se ne
fossero
accorti tutti dato che all'ennesima pausa pipì Fabrizio mi
aveva fissato
preoccupato e informato dell'esistenza di pannoloni appositi per
persone
incontinenti.
Poi
avevo cincischiato per mezz'ora
alla fotocopiatrice, facendo mille copie inutili di un fascicolo
altrettanto
inutile, giusto per temporeggiare.
Infine,
stremata dai miei continui e
patetici tentativi di sfuggire ad Alessandro, mi ero rifugiata
dall'unica
persona in grado di salvarmi.
«Non
mi serve nulla che non sia in
questo edificio al momento», mi spiegò Alfredo, lo
sguardo fisso sul tablet che
teneva posato sulle gambe, «A parte il maestro del mio corso
serale di tango,
l'ultimo modello dei mocassini Ferragamo e un Warhol originale da
mettere in
salotto. Ah, e una di quelle deliziose palafitte alle Maldive in
usufrutto da
qui alla mia morte. Ma non credo tu possa aiutarmi e procurarmi nessuna
di queste
cose...»
«Quanto
costano i mocassini?»
Il
mio capo lasciò perdere
all'istante qualunque cosa stesse combinando con il suo iPad e
alzò lo sguardo
preoccupato, «Sei davvero così disperata?»
A
quanto pareva si. E tutto per colpa
della mia infantile paura del confronto e delle discussioni. Sapevo
benissimo
quanto il mio comportamento fosse immaturo e molto spesso esagerato ma
non
riuscivo a fare a meno di comportarmi come una sciocca bimbetta che ha
paura di
essere messa in punizione. Questioni spinose, problemi irrisolti,
malintesi da
chiarire: ero una maga nell'evitarli. Come ci riuscivo? Facile:
sparendo,
sviando il discorso, rimandando la questione e scavandomi da sola una
fossa
sempre più profonda. Eh sì, perché
solitamente se uno, quando si viene a trovare
in una posizione scomoda e soprattutto equivoca, non fa altro che
fuggire a
gambe levate invece di provare a chiarire la propria posizione non pare
quasi
voglia ammettere implicitamente la propria colpa? La fuga e il silenzio
solitamente sono accolti come una tacita ammissione. E nel mio caso era
quella
maledetta camicia la tacita ammissione. A dire il vero non tanto tacita
dato
che mi pareva di essere uno di quegli uomini sandwich, stretta tra due
cartelli
pubblicitari, recanti la scritta in stampatello, giusto
perché non sfugga a
nessuno: TRADIMENTO.
E
il mio silenzio fu preso per una
conferma anche da Alfredo che, dopo aver sospirato, si alzò
e mi si avvicinò
cauto.
«Parlagli»,
mi esortò accarezzandomi
i capelli, «Hai davanti a te due opzioni ma in entrambi i
casi lui si merita la
tua attenzione. Lascia a Francesco la parte dello stronzo...»
Sbuffai
sonoramente.
Da
quando era diventato un saggio
dispensatore di consigli seri?
Sapevo
perfettamente che aveva
ragione solo che...solo che nulla, Ginevra!
Avevo
trovato l'uomo perfetto e dopo
meno di un mese io e i miei inutili folleggiamenti stavamo
già per mandare
all'aria tutto.
Per
cosa poi? Per una notte a dormire
con Francesco? Cioè, facciamo le persone serie: io e
Francesco? Va bene
l'amicizia, va bene scolarsi una bottiglia di tequila in sua compagnia,
va bene
mangiare schifezze sdraiati davanti al suo caminetto con lui, va bene
litigarci
perché io voglio vedere per l'ennesima volta Gossip Girl e
lui The Walking Dead
con la sua fissa assurda per gli zombie, va bene tutto ma una storia
d'amore
mai in mille anni.
«Hai
ragione»
Ripetere
prego? Sì, esisteva sempre
una prima volta nella vita, ed era giunto l'umiliante momento in cui
ammettevo
che, probabilmente per qualche astrusa combinazioni di astri o passaggi
di
pianeti e lune, Alfie aveva detto una cosa ragionevole.
«La
Rinascente, secondo piano,
Salvatore Ferragamo, mocassini di camoscio color tortora, codice:
791359,
quattrocentotrentasette euro»
Ecco,
fine della saggezza e del buon
senso. 437€?!
Potevo
dire addio al mio regalo
mensile. Peccato perché avevo già adocchiato un
meraviglioso vestitino a
corolla azzurro di Moschino.
«Ok,
te le porto più tardi a casa»,
mormorai abbatacchiata, facendo calcoli frenetici per cercare di far
entrare
nel mio precario bilancio mensile sia l'abito che i mocassini.
«Tu,
piuttosto di parlare con
Alessandro e spiegargli che non è successo niente stanotte,
saresti disposta a
spendere quella cifra per comprarmi delle scarpe? Scarpe
meravigliosamente
lavorate e rifinite ma...», mi bloccò lui
incredulo, lo vidi aggrottare la
fronte come per sforzarsi di capire cosa non funzionasse nel mio
cervello,
prima di chiedermi incerto, «Perché non
è successo nulla, vero?»
«Certo
che no», esclamai
precipitosamente.
Fortunatamente
no, altrimenti altro
che la Rinascente e cinquecento euro, mi sarei fatta spedire alle
Maldive a
scegliere di persona la palafitta per Alfie, spendendo tutti i miei
risparmi,
prima di annegarmi in quelle acque cristalline in preda ai sensi di
colpa.
«Sai
cosa devi fare», e con questo mi
congedò spingendomi fuori dal suo ufficio.
Feci
ritorno alla mia scrivania
facendo ben attenzione a fissare qualsiasi cosa che non fosse il viso
di
Alessandro.
Il
pavimento era sempre stato di
quell'orribile color magenta? E quella piccola macchia di
umidità nell'angolo?
Quando era spuntata?
«Gin,
vieni a vedere!»,
la voce entusiasta di Francesco mi
distolse dalla contemplazione delle foglie tristi e flosce della
piantina
accanto alla vetrata.
Feci
il giro della sua scrivania e mi
sporsi sopra la sua spalla per leggere quello che mi stava indicando
sullo
schermo del computer.
«Sono
o non sono una persona
meravigliosa?»
«Non
lo sei», lo rimbrottai
sovrappensiero, divisa tra la gioia procuratami da quello che stavo
leggendo e
il senso di colpa che mi attanagliava nel percepire lo sguardo
perforante di
Alessandro, a pochi metri da dove mi trovavo, fisso su di noi.
«Non
ho fatto in tempo ad acquistare
i due biglietti che due secondi dopo era già tutto sold
out»
Non
so dove trovai il coraggio di
sollevare lo sguardo e fissarlo in quello di Alessandro.
«Fra,
non credo verrò», mormorai
senza distogliere l'attenzione da quegli occhi così verdi da
sembrare
fluorescenti.
«Stai
scherzando?», sbottò incredulo
girandosi a guardarmi, «Ma se fino a una settimana fa dicevi
che eri disposta a
chiedere un giorno di ferie solo per stare a casa, incollata al pc, ad
aspettare che aprissero le prevendita dei biglietti?»
Lo
sapevo. Lo sapevo benissimo. Ma se
prima di oggi avrei ucciso Isidoro e venduto i suoi reni al mercato
nero degli
organi felini in cambio di un pass per il Festival di Glastonbury.
Acciuffai
il mio cappotto e recuperai
la borsa. Aprii il mio raccoglitore rosa alla ricerca di un documento
su cui
avrei potuto lavorare a casa e lo infilai in una busta plastificata.
Fatto ciò
marciai decisa fuori da quell'ufficio asfissiante consapevole di avere
due paia
di occhi puntati alle spalle che mi fissavano sconcertati e di essere
terribilmente infantile.
***
Tre
tazze di thè caldo, cinque
pasticcini e ottocento euro più tardi stavo decisamente
meglio.
Il
vestito di Moschino era
assolutamente un capo irrinunciabile. Avevo provato a resistere, ci
avevo
provato sul serio, lo giuro sulla testa del mio povero gatto
decerebrato. Avete
presente Ulisse e il canto ammaliatore delle sirene? Ecco, io non avevo
alcun
caro amico disposto a legarmi all'albero maestro di una galera e ad
offrirmi
morbida cera malleabile con cui rendere le mie orecchie insensibili a
quei
richiami tentatori.
E
ora stavo finalmente bene, seduta
ad un tavolino della pasticceria super leziosa alle spalle del Castello
Sforzesco che serviva thè aromatizzati al lampone e macarons
dai mille colori
dell'arcobaleno. Fissavo serena le persone indaffarate che passavano
rapide di
fronte alla vetrina del locale, la presenza rassicurante delle mie due
preziose
borsine targate Moschino e Ferragamo al fianco.
La
soluzione a tutti i problemi
risiedeva nell'ignorarli.
Esattamente
come stavo facendo io con
il mio telefono, il cui schermo non smetteva di illuminarsi e la cui
spia
lampeggiava impazzita, decisa a catturare la mia attenzione e a farmi
capire
che i messaggi e le mail si stavano accumulando copiose.
Inutile,
nulla mi avrebbe distolto
dalla mia pausa thè zen.
I
problemi per quelle due ore non
esistevano. Alessandro non sapevo chi fosse. Alfredo era solo il nome
del pesce
rosso che mia cugina fece morire di fame dopo la bellezza di soli tre
giorni. E
Francesco, bè era l'autore del canto di frate sole e sorella
luna, no?
«Ginevra»
Fine
del momento zen.
«Che
ci fai qui?», mormorai
sollevando lo sguardo verso un paio di seri occhi verdi.
Che
domande! La risposta era una
sola: Alfredo. Il pettegolo del villaggio. La comare dell'ufficio. La
gazzetta
di Milano.
Per
un attimo mi balenò in mente
l'immagine di un falò scoppiettante nel quale ardevano i
mocassini Ferragamo e
le urla di disperazione di Alfie, costretto ad assistere allo
spettacolo,
dopodiché la mia attenzione si focalizzò su
Alessandro, che nel frattempo si
era sfilato il cappotto grigio scuro e si era allentato il nodo della
cravatta,
ora seduto di fronte a me.
«Non
mi piacciono i giochetti e le
prese in giro. Non mi va di essere lo zimbello dell'ufficio»,
esordì grave,
«Probabilmente la colpa è anche mia
poiché non mi sono curato di definire il
nostro rapporto...»
Lo
fissai cauta in attesa delle sue
prossime parole.
L'assenza
di definizioni era sempre
stato proprio ciò che avevo apprezzato di più nel
nostro rapporto. Niente
richieste ufficiali, impegni a lungo termini, promesse difficili da
mantenere.
Vivevamo giorno per giorno la nostra relazione senza curarci di
ciò che il
futuro ci avrebbe riservato e questo mi permetteva di evitare di
sentirmi
soffocare, di mantenere intatta la mia tanto amata libertà.
«Vorrei
che tu diventassi
ufficialmente la mia fidanzata. Voglio impegnarmi seriamente con te e
se
accetti gradirei che tu facessi lo stesso; e questo implica basta notti
nel
letto dei tuoi amici…», strinse la mia mano destra
tra le sue e io con sguardo
terrorizzato osservai impotente come il suo sguardo si soffermava
troppo a
lungo sul mio anulare nudo.
Quando
i nostri occhi si incontrarono
nei suoi intravidi un'ombra di felicità così
lucente da spaventarmi quasi. Un
uomo, uno splendido uomo tra l'altro, mi stava
chiedendo di impegnarmi con lui, di provare a costruire
qualcosa di
potenzialmente bellissimo con lui e l'unica cosa che provavo era una
paura
paralizzante.
Paura
di poter rovinare tutto, di
poterlo deludere, di potermi dimostrare inferiore alle sue aspettative.
Ma
il calore con cui mi guardava mi
faceva venire solo voglia di baciarlo e di urlare un sonoro
«Si, anche io
voglio le stesse cose!», al diavolo la paura.
«Credi
funzionerebbe?», domandai
timorosa.
«Potrei
dirti che ci credo come credo
nel fatto che il sole un'ora fa è tramontato ad ovest ma
sarebbe una bugia.
L'unico modo per scoprirlo è tentare, non credi? E io voglio
provarci con tutto
me stesso, voglio provare ad arrivare a credere nella nostra storia e
in te al
pari di quanto credo nel ciclo solare».
Wow.
Moccia e Baci Perugina
inchinatevi di fronte a questo sfoggio di animo romantico.
«E
poi sarei io quella brava con le
parole?», domandai ridacchiando, «Direi che
possiamo tentare», mormorai prima
di sporgermi al di sopra del tavolino e stampargli un bacio sulle
labbra.
«Posso
portarle qualcosa?»
Sì,
una vanga con cui scavarti una
buca e seppellirtici a vita.
Le
cameriere avevano sempre un
tempismo invidiabile pensai staccandomi controvoglia da Alessandro e
tornando a
sedermi al mio posto.
«No,
grazie»
«Un
cappuccino? Una tisana
depurativa? Una fetta di cheesecake al ribes? Un pasticcino alla scorza
di
cedro?», insisté quella.
Insomma,
dov'è questa vanga? Se
continuava così altro che buca, sulle gengive gliela davo.
«No,
davvero, sono a posto così,
grazie lo stesso», cercò di frenarla Alessandro
cortesemente.
«Abbiamo
anche dei tortini caldi
appena sfornati al cioccolato e cannella...»
Che
guardava insomma? Non aveva mai
visto un meraviglioso ragazzo con degli altrettanto meravigliosi occhi
verdi?
«Ce
ne andiamo, ci porti il conto,
per favore», tagliai corto, alzandomi e afferrando il
cappotto.
«Gelosetta?»,
mi stuzzicò Ale, non
appena uscimmo dalla pasticceria e ci lasciammo alle spalle l'adorabile
cameriera.
«No»,
borbottai scontrosa,
avvolgendomi per bene la sciarpa attorno al collo, «Solo
attenta alla tua
linea. Niente dolcetti al cioccolato che poi ti viene la
pancetta», sentenziai.
«Certo,
certo», mi rabbonì lui,
fingendo di credere alle mie miserevoli giustificazioni.
«Io
ho lasciato la mia teiera in
ufficio»
Schivai
una pozzanghera e afferrai la
sua mano per trascinarlo sotto i portici, al riparo dalla lieve
pioggerellina
che stava iniziando a scendere.
«Teiera?»
A
volte dimenticavo che conoscevo
Alessandro da poco meno di un mese e tendevo a dare per scontate
tantissime
cose.
«È
il mio maggiolino», gli spiegai,
«Posso portarti a casa io?», domandai entusiasta.
Vidi
un'espressione dubbiosa e
leggermente allarmata scorrere sul suo viso.
Tsè,
gli uomini e il loro scetticismo
nei confronti delle doti come autista delle donne.
Donne
al volante, sicurezza costante.
Non a caso io nei miei quasi sette anni di patente avevo fatto solo tre
tamponamenti e preso un paio di multe. Ook, forse una decina, ma
rimanevo
comunque una fantastica guidatrice.
«E
che ne facciamo della mia auto?»
«Domani
vieni in metro al lavoro...o
passo a prenderti io», proposi, «Sempre che dopo
stasera tu voglia ancora
salire in macchina con la sottoscritta», conclusi sorridendo
malefica.
«Sono
di stomaco forte»
«Vedremo»
«Sei
completamente impazzita?! Hai
tagliato la strada a quell'auto, che aveva senza dubbio la precedenza,
rischiando di portargli via tutto il muso della macchina!»
Alessandro
dopo due minuti di
viaggio, alla prima rotonda per la precisione, si era aggrappato alla
maniglia
sopra la portiera, come Scrat si aggrappava alla sua dannata ghianda.
Terza.
Accelerazione. Quarta.
Sfrecciai lungo il viale, schivando il camioncino della spazzatura e
sorpassando l'autobus fermo alla pensilina.
«Razza
di deficiente! Brutta testa di
cazzo! Hai comprato la tua patente di merda collezionando i punti per
la
batteria di pentole all'Esselunga?!
Che
ti colpisca un meteorite cosicché tu e la tua guida da
cretino idiota spariate
dalla faccia della terra!», strillai furiosa nei confronti
del coglione che
aveva inchiodato senza preavviso davanti a me, costringendomi a pigiare
il
freno in tutta fretta e facendomi rischiare di proiettare il povero
Alessandro
al di là del parabrezza.
Mi
attaccai irata al clacson
continuando ad urlare improperi a volume di voce sempre più
alto. Finalmente
dopo che la terra aveva fatto tredici giri attorno al sole e gli alieni
avevano
colonizzato il pianeta quel babbeo decise che era ora di muovere quel
suo culo
schifoso e permettermi di raggiungere l'appartamento di Alessandro.
Ripartii
alla velocità della luce,
facendo un bel dito medio all'autista cerebroleso, non appena lo
superai.
Quando
dieci minuti più tardi, dopo
uno spettacolare parcheggio ad L fatto con ancora la quarta inserita e
il
rischio di finire al di là del muretto che delimitava i
posteggi, mi slacciai
la cintura e mi voltai verso il mio compagno di viaggio, lo trovai
terreo con
gli occhi spalancati e un'ombra di shock dipinta in viso.
«Credo
prenderò la metropolitana
domattina», mormorò con un filo di voce.
«Oh
no, non dirmi che anche tu soffri
la mia guida come Alfie! Credo abbia vomitato minimo quindici volte,
proprio su
quel sedile dove sei seduto...», ghignai indicandolo.
Balzò
in piedi in meno di un
nanosecondo andando a sbattere violentemente la testa contro il
tettuccio.
Scoppiai
a ridere di fronte alla sua
smorfia di dolore.
«Vuoi
salire?», mi domandò
massaggiandosi la testa.
Avrei
potuto rispondere
affermativamente, salire e concludere la serata in bellezza.
O
potevo declinare l'offerta, fare
dietrofront e passare la serata con Isodoro e una scatola di cornflakes
come
cena.
«Ok»
***
«Smettila
di fare il bambino e sali
in auto!»
«Scordatelo!»
Ore
7.57 di una giornata di marzo,
mattinata all'insegna di un pallido sole, anticipo dell'imminente
primavera, e
del solito traffico milanese.
Con
le quattro frecce inserite e la
testa fuori dal finestrino, occupando irregolarmente lo spazio dedicato
all'autobus, stavo cercando di convincere Alessandro a venire al lavoro
con me
e ad abbandonare la pensilina del 54.
«Se
sali stanotte ti faccio stare da
me...», proposi persuasiva sbattendo le ciglia ripetutamente
e fissandolo
malizioso.
«Quello
era sottinteso dato che io ti
ho ospitato nel mio letto stanotte, calci e discorsi insensati da
addormentata
compresi nel pacchetto...»
Ecco,
questo era il grande potere che
le mie doti seduttive avevano. Forse sarebbe stato meglio farsi dare
delle
ripetizioni intensive da Francesco, il quale deteneva il tempo record
di
rimorchio: trentasette secondi.
«Signorina,
non può stare qui», mi
ricordò una vocetta stridula, vocetta che scoprii
appartenere alla tipica
nonnetta fastidiosa capace di farsi gli affari di tutti tranne i suoi.
La
ignorai bellamente; lo sapevo
benissimo anche io, non le vedeva le frecce che lampeggiavano?!
«Ti
permetto di tenere per un intero
weekend Isidoro...»
Ale
scoppiò a ridere e scosse la
testa, «Quel gatto è posseduto e finirebbe
esorcizzato a colpi di acqua di
Lourdes e salmi in latino da Dolores, la mia portinaia cilena, super
religiosa»
Mi
immaginai Isidoro zuppo e
spaventato in un angolo, mentre una signora sovrappeso teneva di fronte
a sé un
grosso crocefisso e strillava «Vade retro Satana!».
Magari
mi avrebbe restituito il
tenero gattino, tutto leccatine e fusa, che Isidoro era stato per i
primi due
giorni a casa mia, prima che la nostra convivenza lo traumatizzasse.
Nicola
odiava la mia folle palla di
pelo e non voleva assolutamente che mettesse piede nella nostra camera
e così
passavamo le notti in bianco a sentirlo piangere fuori dalla porta
chiusa della
stanza da letto e le giornate a riverniciare il legno della suddetta
porta per
celare i segni dei graffi disperati che Isidoro aveva lasciato le notti
precedenti. Io mi arrabbiavo con Nicola, lui se la prendeva con lo
'stupido
animale' e il gatto mi ignorava, convinto che io non mi battessi in sua
difesa.
Probabilmente se non fosse finita per il suo tradimento, la nostra
storia si
sarebbe conclusa per Isidoro, adorato da me mentre Nicola ne
pianificava la
morte di notte probabilmente.
«Signorina,
si sposti! Il bus sta per
arrivare...»
Stessa
vocetta stridula, tono ancora
più fastidioso ed irritante.
«Con
cosa posso convincerti a salire
allora?», chiesi sollevando un sopracciglio.
Essendomi
bruciata la carta sesso,
vero jolly di noi donne, non mi restava molto se non impegnare i miei
orecchini
Cartier o la mia borsa Hermés, per permettermi di comprargli
un abbonamento
allo stadio o una seduta di lucidatura della carrozzeria della sua
Porsche o
qualsiasi accidenti di cosa piacesse agli uomini.
Alfie
era molto più facile da
decifrare ed accontentare. Molto più simile a me, bastava
una nuova cravatta
Emporio Armani con una fantasia stravagante ed eccentrica per essere di
nuovo
al centro del suo cuoricino e in cima ai suoi pensieri.
Nicola
aveva la fissa per il ciclismo
e, nonostante questo significasse che ogni fine settimana di sole io
venivo
abbandonata per un gruppetto di fanatici in tutine sgargianti e
attillate in
modo imbarazzante con cui sbiciclettare felicemente per tutta la
Brianza e
dintorni, ad ogni compleanno o festività mi bastava andare
in un negozio
sportivo e farmi fare un buono spesa.
«Presentami
ai tuoi amici», esalò
inaspettatamente.
La
mia mente partorì l'immagine di
Chiara, Cecilia e Veronica sedute, una accanto all'altra, pronte a
fronteggiare
il povero Alessandro, posteggiato su uno sgabellino di fronte a loro,
stile
commissione di esame di maturità.
«Perché?»,
lo interrogai per prendere
tempo.
Le
mie amiche, aggiungiamoci anche
Alberto e mio fratello, mi conoscevano da sempre e le storie che
potevano
narrare sul mio conto erano innumerevoli e non sempre innocue e
lusinghiere.
«L'autobusss-»
La
vocetta dell'anziana fu sovrastata
da un potente strombazzare di clacson, proveniente dalle mie spalle.
Lo
specchietto retrovisore mi offrì
il riflesso del muso arancione del bus e dell'autista di questo,
intento a
gesticolare nella mia direzione e, probabilmente ad insultarmi, vista
la sua
espressione furiosa.
Ginevra,
tu sai sempre come farti ben
volere.
«Muova
il culo! Gli risponda di si e
se ne vada che devo prendere l'autobus!», mi
suggerì acida la solita nonnina,
guardandomi astiosa.
«Ma...»,
presa in contropiede
dall'improvviso arrivo del mezzo e dal linguaggio tutt'altro che
principesco
della signora.
Vidi
il riflesso dell'autista che si
stava alzando per scendere, probabilmente per venire a picchiarmi e a
far
capire alla mia testa dura che dovevo sloggiare e non farmi mai
più vedere.
«Ok,
ok! Sali subito, per carità!»
Girai
la chiave, accesi il motore e,
ancora prima che Alessandro avesse avuto il tempo di chiudere la
portiera,
partii sgommando.
«Venerdì
sera sono libero», mi
ricordò lui allacciandosi la cintura e sorridendo trionfante.
Svoltai a sinistra in modo repentino mandandolo a sbattere la tempia contro il finestrino, ovviamente apposta, ed ebbi l'enorme soddisfazione di vedere il suo sorriso gongolante scomparire.
***
«Sul
serio, non capisco perché tu
debba venire con noi»
Ormai
era da più di mezz'ora che
cercavo di convincere Alfie a levare le tende e partire verso lidi
più
accoglienti e soprattutto più lontani di camera mia ma era
come dialogare con
Bettina, la vicina sorda come una campana di nonna.
Ma
si sa, a me piace parlare al vento
e sprecare fiato, e così continuavo imperterrita a cercare
di sbolognarlo tra
una prova d'abito e l'altra.
«Sembri
una zucca di Halloween
conciata così...», commentò cortese
come sempre Alfredo, appollaiato sul
bracciolo della poltrona color bordeaux ai piedi del mio letto.
Fissai
il mio riflesso allo specchio
cercando di capire cosa non andasse in quel delizioso abito con gonna a
campana
color arancione, gentile dono della mia madrina di battesimo, che
soffriva di
daltonismo.
Borbottando
contrariata mi avvicinai
al mio capo e gli diedi le spalle, scostandomi i capelli ancora umidi
dalla
schiena, per liberare la zip.
Se
andavamo avanti così stasera mi
sarei presentata in pigiama. Ma non in una di quelle camicie da notte
tutte
merletti fiorati e pizzi trasparenti in stile Victoria's Secret con cui
non
capivo come la gente riuscisse a dormire, ma con il mio bel pigiamone
felpato
di pile decorato con i pasticcini.
Uscire
con Alessandro era uno stress
continuo, o meglio, il prepararsi agli appuntamenti con lui lo era. Mi
aveva
sempre vista al meglio. Non aveva ancora avuto l'enorme piacere di
assistere
allo spettacolo raccapricciante di una Ginevra malata, naso rosso,
occhiaie
violacee, mollemente adagiata in un tappeto di kleenex appallottolati.
O peggio
ancora non aveva ancora visto la mia versione depressa, vaschetta di
gelato
alla mano e lacrima facile. O quella ubriaca, abbracciata alla tazza
del wc a
cantare i più grandi successi di Tiziano Ferro.
«Non
è giunta l'ora di abbandonare la
tua postazione ed avviarti verso una serata senza dubbio più
divertente e
briosa?», chiesi mentre
lottavo con la
chiusura lampo di una gonna con una fantasia a rombi viola e gialli,
reperto
dei miei diciotto anni probabilmente, in cui non sarei entrata neanche
cibandomi
di gambi di sedano per due
interi mesi.
«Prova
quello di pelle nera»
Sorseggiava
il suo thè tranquillo,
con un sorrisetto stampato sulla sua faccia di bronzo, mentre faceva
dondolare
il piede, calzato da una scarpa di vernice Gucci, ovviamente.
Acciuffai
un abito di velluto a
costine con corpetto stile salopette color sangue dalla pila sul letto
e,
gettata alle spalle la gonna, mi infilai in quello ignorando il
consiglio.
Se
volevo dare l'idea di una appena
fuggita da una comunità hippie ero decisamente su una buona
strada. Forse se ci
aggiungevo una coroncina di fiori e mi procuravo un po' di hashish,
giusto per
avere quel tocco da fricchettona strafatta con le pupille dilatate e
gli
unicorni saltellanti attorno, potevo essere presa per un revival di
Woodstock.
Rimasta
in mutande e reggiseno per
l'ennesima volta, osservai sconsolata la pila, molto alta, di abiti
già provati
e scartati e quella, molto bassa, di vestiti ancora da indossare.
In
pratica restavano l'abito di pelle
nera e un tubino super stretch color pisello. Probabilmente quando
facevo
shopping ero sotto l'effetto di sostanze psicotiche o ero in compagnia
della
già citata madrina daltonica, non si spiegava altrimenti la
scelta assurda del
colore.
«Albicocchina
mia, non farlo, so
quanto ti costi ammettere che avevo ragione io ma...non indossare
quell'obbrobrio», mi supplicò Alfie, spaventato
dalla direzione del mio
sguardo.
Se
odiavo dare ragione ad Alfredo
Arnaboldi? Diciamo che rasarmi i capelli a zero e girare vestita di
foglie di
fico e noci di cocco mi avrebbe dato meno fastidio del dover ammettere
che io
avevo torno e lui no.
Trattenendo
il fiato e rischiando di
slogarmi entrambi i polsi riuscii a far salire il vestito dai fianchi,
dove il
mio didietro aveva rappresentato un avversario tenace, fino alle spalle.
Non
avevo ancora chiuso la cerniera e
già rischiavo il soffocamento.
Ero
ingrassata così tanto negli
ultimi tre anni?!
Alfie
sbucò alle mie spalle e, con un
ghigno malefico stampato in volto, alzò tutto d'un colpo la
zip, facendomi
restare letteralmente senza fiato.
«Ripeto:
indossa quello di pelle
nera»
Sembravo
Trilli, la fatina di Peter
Pan, solo venti volte più alta e quaranta più
larga. Qualcuno sapeva dove avrei
potuto procurarmi un paio di ballerine in tinta con pompon?
Sbuffando
sgusciai fuori da
quell'aborto di vestito e mi infilai il famoso abito di pelle nera.
Ovviamente
mi calzava a pennello e
altrettanto ovviamente lo avevo preso in una seduta di shopping con
Alfie.
«Stellina
cara, mi prude tantissimo
la lingua e vorrei con tutto me stesso dire che avev-»
«Shhh!»,
lo zittii prontamente, era
già stato abbastanza umiliante vestirsi da abitante
dell'Isola-che-non-c'è per
sostenere la mia causa fallimentare.
«Avevo
rag-», ritentò cocciuto
quello.
«Non
sento, non sento!», strillai
tappandomi le orecchie con il palmo delle mani.
Quell'idiota
approfittò del fatto che
avessi sollevato le braccia per impedirmi di sentirlo cantar vittoria e
si
gettò verso i miei fianchi iniziando a farmi il solletico.
Ecco,
se volevate togliere a Ginevra
Visconti quel poco di serietà che si era guadagnata tanto
duramente bastava
iniziare a solleticarmi, anche solo in punta di dita, i fianchi.
Un
minuto e mi stavo contorcendo sul
letto, lacrime agli occhi, continui risolini e suppliche
affinché Alfie la
smettesse.
«Dillo»,
mi sfidò perfidamente lui,
riacciuffandomi per le ascelle un secondo prima che ruzzolassi
giù dal
materasso in un disperato tentativo di fuga.
«T-ti
pre-prego...», non ce la facevo
più, mi mancava il fiato e non riuscivo a smettere di
ridere, «Oddio
bas-basta!»
«Dillo!»,
mi sussurrò la serpe
all'orecchio continuando a muovere le sue lunga dita su e
giù.
«Hai
ragione tu!», urlai esasperata
con il poco fiato rimastomi.
Il
solletichio cessò all'istante e di
fronte agli occhi mi si parò il sorriso a trentadue denti di
Alfie, che
dondolava felice la testa e batteva le mani, come un bambino che ha
appena
ricevuto il suo contentino.
«Andiamo,
per carità». Mi sollevai
dai cuscini e andai in bagno, seguita da un trotterellante Alfredo.
Un
quarto d'ora più tardi, truccata e
semi acconciata, stavamo finalmente per salire in auto quando ci
trovammo a
discutere come sempre. Il problema ogni volta era lo stesso: chi
avrebbe
guidato?
Alfie
soffriva la mia guida e io la
sua. Lui avrebbe sbraitato di fronte ai limiti di velocità
del tutto personali
che io seguivo e io mi sarei innervosita per i 20 km/h che in media lui
teneva
in tangenziale. Lui si sarebbe irritato per le mie rotonde in quarta,
il mio
ignorare i passanti e le mie mancate precedenze. Io me la sarei presa
per il
suo voler fermarsi a far attraversare persino le formiche e le lumache
e le
soste di svariati minuti che faceva agli imbocchi delle rotonde,
perché gli
pareva che in lontananza, cioè a circa mezzo chilometro, gli
pareva arrivasse
qualcuno.
Soluzione?
Taxi.
«Capisco
benissimo come mai ti hanno
bocciato due volte all'esame pratico della patente»,
borbottai rientrando
nell'androne del mio palazzo, almeno avremmo aspettato il taxi al caldo.
«E
io non capisco come mai non ti
abbiano mai bocciato, evidentemente papino avrà fatto una
generosa donazione
alla scuola guida...», insinuò velenoso come una
vipera, «La tua cassetta sta
scoppiando», constatò indicandomi la targhetta con
inciso il mio nome.
Frugai
nella mia borsa e gli lanciai
le chiavi della posta non appena le pescai dal fondo, invaso da reperti
di
caramelle e scontrini.
Mi
sedetti sull'ultimo gradino della
scalinata in marmo dell'ingresso, solitamente di venerdì
sera bisognava
attendere per secoli un taxi.
Alfie
si appoggiò alla parete accanto
a me, perché guai far venire a contatto il prezioso tessuto
dei suoi pantaloni
con il pavimento lucidato a specchio di un plebeissimo atrio, e
iniziò ad analizzare
la mia corrispondenza.
Lo
lasciai fare senza problemi,
probabilmente sapeva più cose su di me e le mie relazioni
della diretta
interessata stessa. Alfie era come una sorella impicciona e decisamente
troppo
esagitata e piena di folli idee, ma io, cresciuta con due fratelli
maschi,
molto più interessati ai videogiochi e alle mie amiche che
alle mie confidenze,
avevo terribilmente bisogno di una figura come Alfredo. Alfredo non mi
giudicava mai, mi ascoltava, si lasciava scappare qualche buffa
smorfietta che
lasciava trasparire i suoi pensieri al riguardo ma era sempre dalla mia
parte,
qualsiasi cosa succedesse.
«Joanne
ti invita a Lione per Pasqua,
sappiamo già entrambi che le darai buca come quasi sempre
perciò scrivile che
se vuole io accetto volentieri il soggiorno pasquale francese a
scrocco», mi
informò aprendo una seconda lettera.
Joanne,
ragazza francese conosciuta
ai tempi di una vacanza studio al liceo, perseverava nel volermi
invitare
almeno sei volte l'anno da lei, nonostante il nostro appuntamento fisso
fosse
un weekend a Cannes nel periodo del festival, perfetto connubio tra
lavoro e
svago.
Il
rumore di carta strappata fece
tornare la mia attenzione sul mio amico, che stava riducendo in
pezzetti sempre
più piccoli un foglio di carta.
«Che
stai facendo? È una lettera che
si scusa per il mancato invito alla cerimonia degli Oscar di quest'anno
e mi
offre un posto in prima fila, tra Bradley Cooper e Eddie Redmayne, per
il
prossimo anno? È un biglietto per la sfilata di Dior per
Paris Fashion Week?»,
incalzai curiosa.
«Sì,
sogna. Bradley avrebbe occhi
solo per me!», mi rispose strizzandomi l'occhio,
«No, era solo la bolletta
della luce»
«E
perché mai lo avresti fatto?!»,
domandai sbigottita.
Il
mio cervello cercò di trovare un
collegamento tra i conti da pagare per la luce utilizzata e la reazione
psicopatica di Alfredo.
Ovviamente
non lo trovò.
Lui
fece spallucce, «Io straccio
sempre le lettere che vogliono denaro da me. Odio le bollette. Ormai
anche la
Enel lo ha capito e le manda direttamente al mio povero
commercialista»
Spiegazione
super ragionevole, no?
Avevo
avuto l'onore di conoscere
Andrea Agosti, il suo commercialista, e potevo affermare che dopo la
sua morte
sarebbe finito dritto filato in paradiso, su un tappeto rosso, e
probabilmente
sarebbe anche stato fatto santo.
Tenere
in ordine le finanze di Alfie
e fare in modo che non dovesse dichiarare bancarotta prima del suo
trentesimo
compleanno causava molteplici notti insonni e mal di pancia al povero
ragazzo.
Oculatissimo
e super prudente quando
si trattava del giornale, scialacquatore e senza freni con i suoi
risparmi.
«Dovresti
aumentare la parcella del
povero Andrea...», commentai a mezza voce alzandomi in piedi,
poiché avevo
intravisto il taxi attraverso il vetro coperto di goccioline di pioggia
della
porta d'ingresso.
Alfie
mi aprì la portiera e mi fece
salire per prima, accomodandosi a sua volta subito dopo.
«Buonasera,
via Alfieri 33, grazie»,
informai l'autista, un signore brizzolato sulla sessantina, che annui e
mi
rispose con un sorriso.
Il
mio amico mi porse il suo telefono
indicandomi lo schermo, «Andrea è già
fin troppo ricco, e lo è grazie alla
gente ricca che non sa amministrare il proprio capitale, fortunato
lui».
Non
commentai, avevamo cercato, sia
io sia Francesco, a spiegargli dei rudimenti di economia, nulla di
troppo
cervellotico e complesso ovviamente, in fondo eravamo pur sempre
giornalisti di
cinema, ma giusto le basi per imparare a farsi la dichiarazione dei
redditi da
soli e tenere un bilancio approssimativo delle entrate e delle uscite.
Fra poi
aveva anche tentato di iniziarlo al mondo degli investimenti, con
risultati
disastrosi, dato che Alfie già a sentir parlare di spread e
deficit al tg
diventava magicamente sordo.
Sul
display illuminato dell'iPhone di
Alfie lessi il messaggio di Francesco che si scusava del poco
preavviso, inesistente
a dire il vero, con cui ci informava che stasera non si sarebbe unito a
noi,
rapito in anticipo da Aprile per un weekend alla spa.
Avrei
potuto convincermi che non me
ne importava nulla ma ciò avrebbe significato mentire in
modo sfacciato a me stessa.
Ero arrabbiata e delusa, sì, delusa e arrabbiata
perché Francesco odiava le
terme, perché questa cosa di chiamare le ragazze come il
mese in cui le
frequentava era una cosa semplicemente squallida, perché
avrebbe dovuto esserci
quella sera, Aprile o non Aprile.
Sapevo
benissimo di avere gli occhi
attenti di Alfredo puntati sul mio viso, in attesa di leggere
chissà quale
espressione di sconsolata disperazione nell'apprendere la notizia
arrivata via
sms.
Non
aveva avuto neanche il coraggio
di scrivere direttamente a me e così aveva usato Alfie come
ambasciatore.
Codardo.
«Peggio
per lui, Alessandro lo
conosce già e per me è indifferente che ci sia o
meno...»
Bugiarda.
Bugiarda. E ancora
bugiarda.
Non
so se Alfredo notò la mia
menzogna ma se anche fosse fu così gentile da non commentare.
***
La
serata fu un successo. Veronica
avvolta in uno splendido smoking dal taglio maschile, sotto cui si era
casualmente scordata di indossare una camicia, era stata l'anima della
cena,
brillante e ciarliera come sempre, e aveva ignorato per tutto il tempo
mio
fratello Federico. Quest'ultimo, poveretto, non fu così
bravo nel mostrarsi
indifferente, tradito dai suoi occhi che cadevano più spesso
del dovuto sulla
scollatura della mia amica.
Cecilia
e Alberto parevano già in
luna di miele, continuavano a sfiorarsi, quasi sovrappensiero, che
fosse una
carezza sul dorso della mano o una parola bisbigliata all'orecchio
dell'altro,
e avevano lanciato il totonome per il bebè in arrivo.
Per
ora i più quotati erano Gabriele
e Margherita. E solamente io e Alberto eravamo convinti sarebbe stata
una
femminuccia, tutti gli altri propendevano per un futuro fiocco azzurro,
con
l'eccezione di Alfie che scommetteva su una coppia di teneri gemellini
strillanti.
Chiara,
arrivata trafelata
dall'ufficio, ancora in tailleur color cipria, era parsa sempre
leggermente
assente, la testa persa in chissà quali pensieri.
E
poi ovviamente c'era Alessandro,
splendido, ancora più del solito, in un completo informale
ma molto elegante
dai colori tipicamente invernali. Aveva chiacchierato senza problemi
con tutti
i presenti, trovandosi in sintonia persino con Federico, che
solitamente
snobbava e odiava in silenzio i miei fidanzati.
Fidanzato,
pareva ancora così strano
considerarlo tale, eppure la sua mano che più volte era
scivolata sotto il
tavolo per cercare la mia, anche solo per una leggera stretta o una
carezza
fugace, e i sorrisi complici che mi dedicava, tutto rendeva il nostro
legame un
po' più reale.
Al
ritorno, dopo saluti durati una
lunga mezz'ora a causa dei temporeggiamenti farciti di pettegolezzi
spiccioli
di noi ragazze, avevo abbandonato senza sensi di colpa Alfie e mi ero
infilata
nella Porsche di Alessandro.
«Allora
che mi dici?», lo incalzai
curiosa non appena si sedette in auto e partimmo.
Nella
penombra dell'abitacolo della
macchina risuonò la sua risata, «Poco impaziente,
eh?»
Mi
morsi il labbro inferiore in preda
all'imbarazzo. Effettivamente non gli avevo neanche dato il tempo di
premere
l'acceleratore e uscire dal parcheggio che già lo avevo
aggredito con la mia
curiosità morbosa.
«Mi
piacciono. Soprattutto Alfie, che
non vedo abbastanza in ufficio, cinque giorni a settimana»,
scherzò lui.
Mi
rigirai tra le mani le frange
della mia sciarpa, «Ops, non l'avevo vista in quest'ottica.
Alfie è un mio
amico, prima di essere il mio superiore. Avevo invitato anche
Francesco...»
Perché
mai mi stavo giustificando?
Alfredo era un mio amico, un mio grande amico a dire il vero, la mia
piccola
sorellina sciroccata.
«Come
mai non c'era?», domandò,
potevo quasi percepire il sollievo che provava nell'apprendere che
Francesco,
sebbene invitato, non si era presentato.
«Impegni»,
restai sul vago.
Alessandro
non conosceva Francesco e
non volevo che, saputa la storia delle ragazze a scadenza mensile, lo
giudicasse in modo sbagliato.
Francesco
era uno stronzo, trattava
le donne come fossero usa e getta ma, nonostante non approvassi il
metodo,
capivo che il suo ero solo un modo di reagire a ciò che gli
era successo.
«Invidio
tantissimo la felicità di
Cecilia e Alberto, loro sono l'esempio di tutto ciò che
vorrei io dalla
vita...», esordì Alessandro, interrompendo il mio
rimuginare sulla storia del
mio amico.
Effettivamente
i miei amici erano
stati molto fortunati, considerato che si erano conosciuti poco
più che bambini
e, salvo sparuti litigi e incomprensioni, era da dieci anni che
andavano d’amore
e d’accordo.
Io
però non avrei mai voluto un amore
così, alcuni penseranno che la mia affermazione deriva dal
fatto che non l’ho
avuto un unico grande amore simile a quello, ma la verità
era che io ero
incapace di legarmi per troppo tempo ad una persona, o forse non avevo
ancora
incontrato una persona con cui valesse davvero la pena impegnarsi per
tutta la
vita.
Non
avevo mai avuto il sogno dell’abito
bianco, delle damigelle vestite da confetti e della torta a sette piani
con gli
sposini di zucchero in cima. Non credevo nel per sempre o probabilmente
ne ero
solo spaventata. Fatto sta che ero felice di aver vissuto le mie
esperienze,
per quanto tragiche e deprimenti alcune di esse fossero state,
perché mi
avevano aiutato a capire cosa desideravo davvero, e di sicuro avevo
capito che
questa cosa non era il matrimonio. Volevo semplicemente una relazione
solida,
in cui il mio compagno fosse prima di tutto anche mio amico, mio
complice, che
mi conoscesse davvero e apprezzasse tutte le sfaccettature del mio
carattere,
qualcuno che venisse a fare jogging con me alle sei di una domenica
mattina se
mi venisse voglia di farlo, qualcuno disposto a correre in aeroporto a
prendere
il primo aereo, senza prenotazioni e con pochi bagagli, qualcuno che
riuscisse
a comprendere, assecondare ma al tempo stesso, quando necessario,
limitare il
mio carattere folle, caratterizzato da un’irrazionale
impulsività, una
tagliente schiettezza e dei vertiginosi sbalzi d’umore.
Qualcuno che mi facesse
ridere e fosse in grado di sorprendermi, impedendo alla noia di
prendere il
sopravvento nella nostra relazione.
Non
ribattei all’affermazione di
Alessandro, preferendo non fargli sapere che io ero di
tutt’altro avviso. Un figlio
adesso? Sapevo a malapena prendermi cura di me stessa e ricordarmi i
croccantini di Isidoro, rischiando ogni sera di farlo morire di fame a
causa
della mia sbadataggine, figurarsi un frugoletto strillante.
Sentii
vibrare il telefono nella
borsetta e così lo pescai, giusto per dare
un’occhiata alle ultime mail,
nonostante sapessi benissimo che Alessandro detestava che guardassi il
cellulare quando ero con lui, diceva che nuoceva ai rapporti umani.
Se
Marzo aveva il cane-topo non puoi immaginare quale
orribile creatura Aprile si porti appresso: una cavia da laboratorio.
Ora è di
là a far scorrazzare il mostriciattolo nella vasca da bagno,
speriamo caschi
nel buco dello scarico. Salvami!
Non
potei fare a meno di sorridere. Francesco
era un idiota, e non solo per il suo essere uno sciupafemmine
incallito, ma perché
le donne che si sceglieva erano una più pazzoide
dell’altra.
«Chi
è che ti scrive a quest’ora?»,
domandò Alessandro dopo aver notato il mio digitare semi
nascosto dalle pieghe
del cappotto.
«Mio
fratello Lorenzo, quello che non
hai ancora conosciuto», mentii e non seppi neanche io
perché lo feci.
Stavo
per riporre il telefono, dopo
aver consigliato a Francesco l’acquisto di una trappola per
topi, quando questo
iniziò a squillare.
«Pronto?»,
risposi dopo aver letto un
numero sconosciuto sul display.
I
secondi che seguirono furono tra i
più terribili della mia vita. Ascoltai come in trance quello
che la signora
dall’altro capo mi stava spiegando tra lacrime e singhiozzi.
Nonostante
le frasi spezzate dai
singulti avevo afferrato la notizia che mi faceva tremare e che mi
aveva gelato
il cuore: Alfie aveva avuto un incidente nel tornare a casa.
Buongiornooo!
Mi
spiace turbare gli animi dei miei
lettori con questa notizia sconvolgente ma vi voglio rassicurare
dicendovi che
Alfredo è uno dei miei personaggi preferiti e questo
dovrebbe già calmarvi e
garantirvi sonni tranquilli. Francesco c’è poco in
questo capitolo, troppo impegnato
nella sua personale caccia ai topi, ma tranquille che
tornerà. Mercoledì prossimo
parto per due settimane quindi vorrei riuscire ad aggiornare nuovamente
prima
di quel giorno ma non assicuro nulla perché sono
già impegnata nella stesura
del capitolo dell’altra mia storia quindi vedremo, io
però farò tutto il
possibile.
Come
sempre i vostri commenti sono più
che graditi.
S.
xxx