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Autore: kim_kennedy    31/07/2015    3 recensioni
- Gli Shadowhunters non dovrebbero essere così curiosi, sorellina, ricordalo. - l'ammonì il fratello, facendole seccare la gola.
Sapeva che non intendeva la sua passione per i libri, ma qualcosa di più importante... qualcosa a cui lei era stata tenuta all'oscuro.
- Anche nostra madre era curiosa. - le ricordò, con un pizzico di amarezza nella voce, come se ella si fosse cercata il suo destino.
Seraphim gli strinse il colletto della divisa, abbassandolo alla propria altezza - Non parlare di nostra madre, Jonathan. Mai più. - l'avvisò, serrando la mascella.
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E lei... cos'era?
Maledetta?
O era un dono ciò che le avevano concesso?
Non lo sapeva, ma l'unica cosa di cui aveva certezza era che le persone che lo sapevano avevano paura di lei, e non poca.
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- Non sarai mai una vera Shadowhunters. - sputò Jace, facendo luccicare gli occhi della ragazza
- Una persona che non può ricevere i marchi, non è degna di essere chiamata Nephilim. - proseguì, mettendola spalle al muro - Questa è la nostra guerra, non la tua. -
Seraphim gli fece lo sgambetto, facendolo cadere a terra - Una guerra contro mio fratello, Herondale. - i suoi occhi sembravano ardere.
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- Gli Angeli sono innamorati di lei... - sembrava un sussurro, ma tutti compresero.
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Jace Lightwood, Raziel, Sebastian / Jonathan Christopher Morgenstern, Valentine Morgenstern
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
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City of Blood

Curiosity
 
La pelle diafana era rilassata e pura, senza nemmeno il segno di una minima imperfezione.
Le spalle si alzavano e abbassavano a ritmo regolare, intanto che le mani si muovevano sinuosamente nell’aria, leggere come se fosse un’azione naturale come respirare.
Le gambe erano incrociate e il corpo, seduto sul freddo parquet di legno, era rivolto verso il meraviglioso paesaggio che veniva trasmesso tramite le due imponenti finestre.
I capelli erano lunghi, neri come la pece, arricciati in semplici piccoli boccoli sulle punte: erano l’unica cosa di diverso dal colore bianco che, al momento, possedeva addosso.
Le arrivavano fino all’inizio del bacino e sembravano estremamente morbidi e setosi.
Jonathan era poggiato con la spalla contro lo stipite della porta che permetteva l’accesso alla palestra, osservando in silenzio la figura muoversi sinuosamente, probabilmente ignorando la sua presenza nella stanza.
Non capiva cosa ci trovasse nello yoga, ma da quando Seraphim aveva inziato a praticarla aveva acquistato sempre maggiore agilità e flessibilità, avvantaggiandola durante i combattimenti corpo a corpo.
Avevano due anni di differenza ed avevano sviluppato caratteristiche diverse sin dall’infanzia, dove Seraphim era la figlia modello che faceva sempre i compiti e Jonathan era il nullafacente che pensava solamente alle armi ed ai combattimenti.
Lei era sempre stata la mente, lui il braccio.
Loro padre, Valentine, li aveva cresciuti insieme e li stava addestrando in ugual modo, permettendo ad entrambi di avere le stesse possibilità in qualunque ambito.
Era fiero di loro, ma non glielo aveva mai detto: bastava un complimento di troppo per gonfiare il loro misero ego e di fargli abbassare l’impegno nell’addestramento.
Li guardava, portandosi il pollice alla bocca: le sue due creature nella stessa stanza.
Jonathan estrasse un pugnale dalla cintura, lanciandolo contro Seraphim, intenta a meditare silenziosamente; la sorella afferrò il manico dell’arma, fermandolo –Non è carino lanciare un pugnale contro la tua sorellina, Jonathan. – lei rise, voltandosi.
I suoi occhi bianchi squadravano il fratello maggiore, intanto che un sorriso si formava sulle labbra rosee.
Si alzò in piedi, sistemando la tenuta da combattimento, bianca, a differenza di quella del fratello, nera.
Chiuse un occhio, prendendo con il pollice la mira contro Jonathan.
Rilanciò l’arma, intanto che la sua risata eccheggiava candida nella stanza.
Il ragazzo afferrò il pugnale dalla lama, strappando i guanti che indossava; le fece un mezzo sorriso, rimettendolo nell’apposito posto della cintura. – Eppure tu non ti fai scrupoli a rilanciarlo contro il tuo fratellone, Seraphim. – Jonathan le lanciò uno sguardo d’intesa: amavano stuzzicarsi a vicenda.
Valentine batté le mani due volte, attirando la loro attenzione – Ultimo esercizio, quello di chiusura, poi ognuno nella propria camera. – annunciò, sedendosi su una trave.
Jonathan si posizionò dietro la sorella, porgendole una mano – Ti fidi di me? – le sussurrò, lasciando che il proprio respiro si espandesse sul suo collo, facendole venire la pelle d’oca.
Seraphim gli strinse la mano, guardandolo negli occhi. I suoi occhi sarebbero stati completamente neri se non fosse stato per un lieve accenno di sclera bianca, che li rendevano meno inquetanti.
I suoi occhi gli ricordavano lo Yin e lo Yang: nel nero, ovvero il male, vi era sempre del bianco, il bene; e, nel bene, vi era sempre del male.
La ragazza si voltò, chiudendo gli occhi e allargando le braccia – Sì. – quasi sussurrò, lasciandosi poi andare nel vuoto.
Le braccia di Jonathan l’afferrarono prontamente, impedendole di cadere. La lasciò sospesa per qualche secondo, riportandola poi in posizione eretta.
Seraphim si voltò, guardandolo.
Il fratello le guardò in silenzio gli occhi bianchi, resi meno spaventosi dalla sclera nera al centro di essi; avevano gli occhi l’esatto opposto l’uno dell’altro.
Gli accarezzò una mano – Ti fidi di me? – gli domandò, andando alle sue spalle; Jonathan chiuse gli occhi, aprendo le braccia – Sì. – mormorò, lasciandosi andare.
La sorella lo afferrò, seppur con difficoltà: fin da quando erano piccoli facevano quell’esercizio e, col passare del tempo, la loro netta differenza fisica gli stava provocando dei problemi.
Quando Jonathan tornò in posizione eretta rivolse un fuggitivo sguardo alla ragazza, come per assicurarsi che stesse bene.
– Bene, molto bene. – commentò Valentine, alzandosi – Ora andate nelle vostre stanze, fra un’ora ci sarà la cena, e non ammetto ritardatari. – concluse l’uomo, severo.
Seraphim si stiracchiò le braccia, affaticate dall’allenamento e dall’aver dovuto reggere Jonathan, quasi il suo doppio in tutto, per la manciata di secondi che era prevista dall’esercizio.
Intanto che camminava verso l’uscita Valentine l’afferrò per un braccio.
Jonathan aveva già lasciato la palestra.
Le portò le mani sugli zigomi, ispezionandole gli occhi: quando era nata aveva temuto che potesse essere cieca, ma col passare degli anni nessun segno di cecità si era manifestato.
Le baciò la fronte, affettuosamente – Vai in camera tua. – le disse solamente, facendola annuire appena.
Anche Seraphim lasciò la stanza.
Valentine si passò una mano sul volto, riflettendo silenziosamente, intanto che le sue gambe, involontariamente, lo conducevano a fare avanti e indietro per la palestra.
I suoi due figli erano l’uno l’opposto dell’altro, questa era stato evidente sin dalla prima infanzia di entrambi, e questo gli rendeva le notte insonni: quando avrebbero dovuto combattere si sarebbero dovuti schierare l’uno dalla parte dell’altra, ma iniziava a dubitare della possibile esistenza di questo piano.
Non poteva far combattere insieme un demone con un angelo, non finché avessero ignorato l’esistenza di quel piccolo particolare che scorreva nelle loro vene.
Gli aveva dato la stessa educazione, lo stesso addestramento e gli stessi principi, ma tutti i libri che Seraphim divorava giorno dopo giorno dalla tenera età mettevano in bilico tutto ciò: non aveva mai pensato che essi potessero essere una minaccia, ma ultimamente gli dava la dimostrazione di un’alterazione dei suoi insegnamenti.
Poneva sempre più domande sugli Shadowhunters, del perché loro non potevano allenarsi in un Istituto e di quando sarebbero potuti andare ad Idris.
Seraphim era curiosa, e Valentine doveva stroncarla.
Si diresse a passo svelto verso il piano superiore, dove vi erano le camere da letto: la prima sulla destra era quella padronale; la seconda apparteneva a Jonathan e l’ultima, infondo al corridoio, era di Seraphim.
La aprì con decisione, senza nemmeno bussare.
La ragazza sussultò, richiudendo velocemente il libro che stava leggendo sdraiata prona sul letto; le lettere dorate in stampatello catturarono subito l’attenzione del padre: IDRIS, IL CENTRO DEL MONDO.
L’uomo le si sedette accanto, accarezzandole dolcemente i capelli e lasciandoci sciovalare le dita.
– Non ricordo di quel libro nella biblioteca, Seraphim. – ammise, lanciandole un’occhiata.
Valentine era estremamente bravo a manipolare le persone e, soprattutto, ad ottenere ciò che voleva.
Seraphim si sedette sul letto: indossava ancora la divisa da combattimento, poiché Jonathan l’aveva preceduta nell’occupare il bagno per fare una doccia.
Aveva deciso di impiegare il tempo leggendo un libro, ma i suoi piani stavano fallendo miseramente.
Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio – Io... se non sbaglio l’ho trovato ieri per terra, e mi ha incuriosito così l’ho preso. – spiegò ella, mordendosi il labbro inferiore.
Era sempre stata una pessima bugiarda, ma aveva imparato a non far trapelare le proprie emozioni, così come Valentine le aveva insegnato.
Il padre annuì appena, mostrando interesse al suo racconto – Bene, allora lo riporto nella biblioteca. – annunciò, prendendo il libro tra le mani.
Seraphim gliele strinse, deglutendo – Ma... lo stavo leggendo, mi piaceva. – commentò, letteralmente preoccupata che il libro potesse finire nelle mani del padre per troppo tempo.
Sapeva che non avrebbe sistemato il libro nella biblioteca; probabilmente l’avrebbe bruciato, così come gli altri libri che parlavano di Idris e del mondo degli Shadowhunters.
Lo aveva visto, quando aveva otto anni, che urlava contro sua madre, dicendole di quanto fosse pericoloso il mondo esterno per loro, e poi aveva gettato nel camino tutti i libri che era riuscito a raccattare sul momento che parlassero del mondo dei Nephilim.
Valentine le posò una mano dietro la nuca, spingendola dolcemente verso di sé. Le lasciò un bacio sulla fronte, lasciando che la barba le pungesse la pelle lattea – Ci sono tanti altri libri interessanti, Seraphim. Sono sicuro che troverai di meglio di questo vecchio libro impolverato. – concluse, alzandosi dal letto e uscendo dalla camera.
Seraphim si gettò sul letto, sospirando: aveva perso un altro libro.
Ormai non teneva più il conto; da quando aveva imparato a leggere discretamente era sempre stata curiosa di sapere cosa ci fosse attorno a loro, del perché ricevevano un addestramento diverso da quello dato negli Istituti e il motivo della sua prolungata assenza ad Idris.
Tutti gli Shadowhunters, alla sua età,  l’avevano già visitata diverse volte, ma a lei dovevano bastare delle raffigurazioni, ormai sbiadite nella sua mente.
Odiava quando suo padre non le dava le risposte che voleva: temeva che le nascondesse qualcosa, e che quando l’avrebbe scoperto sarebbero stati solo guai per lei.
Sua madre, Jocelyn, le aveva procurato diversi libri sui Nephilim e su tutto ciò che c’era da sapere sul mondo che li circondava; dalla sua morte Seraphim perdeva lentamente quasi tutti i libri, e Valentine non era così sciocco da non rendersene conto.
Era difficile mentirgli: ti innvervosiva il suo sguardo e, magicamente, non sapevi più come articolare una frase di senso compiuto, soprattutto una bugia.
Jonathan era più bravo di lei a mentire, ma non ne aveva mai bisogno: non aveva nulla di nascondere al padre, o almeno così dimostrava.
Quando Seraphim non sentì più il rumore dell’acqua scendere raccattò una vecchia tuta dall’armadio, dirigendosi verso il bagno.
Non vedeva l’ora di essere sotto il getto d’acqua.
Entrò, trovando Jonathan con solo un asciugamano sui fianchi mentre si tamponava con una salvietta i capelli – Pensavo fossi uscito dal bagno. – sussurrò la ragazza, abbassando lo sguardo intanto che le sue guance si coloravano di un dolce rosso.
Non si erano mai visti così prima d’ora, poiché loro padre aveva sempre evitato ogni possibile contatto intimo tra i due, come per esempio cambiarsi l’uno davanti all’altro.
Anche in tenera età, quando erano del tutto innocente ed estranei ad ogni tipo di malizia, non si erano mai visti senza la tenuta da combattimento addosso.
Jonathan le afferrò il mento, alzandolo; non era la prima volta che si guardavano negli occhi da così vicini, ma ogni volta entrambi provavano brividi di freddo lungo la schiena.
Era così strano che fossero così simili, ma allo stesso tempo così opposti.
Le passò una mano su una guancia, tastando la pelle morbida sotto i polpastrelli. Passò il pollice sulle sue soffici labbra, trovandole così invitanti e sensuali.
I loro nasi si sfiorarono – Ti sei mai chiesta del perché siamo così diversi? – le domandò, inclinando leggermente il capo verso destra.
Seraphim deglutì, abbassando lo sguardo sui loro piedi nudi – Sì. Un milione di volte, probabilmente. – confessò, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Le labbra del fratello, ora, le sfioravano le tempie – E non sei mai giunta ad una conclusione? – mormorò, pettinandole i capelli tra le dita.
Erano davvero troppi vicini e, se Seraphim avesse allungato una mano, avrebbe sentito il suo battito cardiaco, probabilmente accellerato come il suo; gli accarezzò una spalla, e i suoi muscoli si rilassarono sotto al suo tocco delicato.
La ragazza aveva rialzato lo sguardo ed ora Jonathan la stava scrutando da capo a piede, aspettando una risposta – No. Non riesco a capire perché ogni cosa di noi sia invertita. – si morse il labbro inferiore, sospirando – Ma, soprattutto, mi sono sempre chiesta perché tu hai le rune ed io no. – continuò.
Il fratello le lasciò un bacio sulla fronte, chinandosi poi alla sua altezza – Gli Shadowhunters non dovrebbero essere così curiosi, sorellina. – l’ammonì, lasciandola poi da sola nel bagno.
Quella frase gliela aveva ripetute milioni di volte suo padre, mentre sua madre le diceva, di nascosto, che fosse un bene che la ragazza avesse ereditato la sua indole del voler avere sempre risposte concrete.
Seraphim e Jocelyn erano due goccie d’acqua per quanto riguardava il carattere e le altre mille particolarità che le univano, ma, allo stesso tempo, la ragazza assomigliava incredibilmente a suo padre.
La sua voglia di combattere, di imparare ad utilizzare la dialettica e la persuasione: su questo piano, ella assomigliava inevitabilmente a Valentine.
Seraphim scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore dalla rabbia: stava piangendo, e si era ripromessa che non l’avrebbe mai più fatto ripensando alla madre defunta.
Si passò velocemente la mano sulle goti, spogliandosi poi rapidamente ed entrando nella doccia.
Non era debole, lei era forte.
Continuava a ripeterselo, intanto che strofinava con forza la spugna contro la pelle lattea.
Glielo diceva sempre Jocelyn quando Valentine la sgridava per via dell’allenamento poco soddisfacente.
Puoi superare tutto, piccola mia, io credo in te.
E adesso Seraphim singhiozzava, intanto che si lasciava sciovolare per terra; si strinse le ginocchia al petto, affondandoci il viso.
Sei la migliore combattente che abbia mai visto, piccola mia.
Dalla porta cominciò a sentire dei pugni che ci si infrangevano contro, mentre la voce di Valentine e Jonathan la raggiungeva ovattata da dentro il box doccia.
Sentì i due bisbigliare, intanto che la ragazza si alzava barcollando, raggiungendo poi velocemente un asciugamano, provocandole fitte alla testa per via dello scatto repentino.
La vista le si annebbiò, intanto che sentiva sua padre aprire con forza la porta chiusa a chiave, probabilmente utilizzando qualche runa di apertura.
L’uomo le strinse le spalle, preoccupato, e Seraphim gli cadde tra le braccia, perdendo i sensi.

Quando riaprì gli occhi Seraphim si trovava nella camera padronale.
Era sdraiato sul letto matrimoniale del padre, intanto che egli dormiva al suo fianco con ancora la tenuta da combattimento addosso.
Le si strinse il cuore, facendola vergognare: non aveva nemmeno dato il tempo a suo padre di farsi una doccia che aveva dovuto soccorrerla, come una bambina che non sapeva badare a se stessa.
Ricacciò le lacrime indietro, minacciandosi da sola di non dover piangere ancora, e che le lacrime che aveva versato poche ore prima bastavano per molto tempo.
Si sentiva la bocca impastata, e se avesse provato a parlare sarebbe uscito solo qualche sussurro.
Gli occhi di Valentine si aprirono di scatto, voltandosi verso di lei.
– Seraphim... – sussurrò, stringendo la ragazza a sé.
Ella affondò il viso nell’incavo del suo collo, stringendo con forza il padre in un abbraccio – Mi hai fatto così preoccupare. Jonathan è venuto a chiamarmi dicendomi che stavi piangendo e pensavo che fosse per via del libro che ti avevo tolto... – continuò, accarezzandole con premura i capelli.
Seraphim scosse la testa, chiudendo gli occhi – L’hai detto tu: “Gli Shadowhunters non dovrebbero essere così curiosi” – mormorò, sospirando.
Sentì Valentine ridacchiare, intanto che le passava un braccio attorno alla vita e la stringeva – Jonathan non l’hai mai trattato così quando stava male. – notò ella, aprendo appena gli occhi.
In tutti gli anni, da quando aveva lievi ricordi della sua infanzia, non aveva mai visto il padre trattare il fratello con così tanto amore, né preoccupazione.
Pensava che lo facesse perché fosse un maschio, e non aveva bisogno di tutte le cure di una ragazza, ma col passare degli anni gli sembrava più come un allentamento, come se non volesse insegnare al figlio l’amore e la premura.
Il padre le lasciò un bacio sulla fronte – Cos’hai detto poco fa? – l’ammonì, lanciandole un’occhiata divertita.
Sapeva che voleva farle credere che fosse un momento divertente, ma Seraphim intuì che fosse un argomento a cui non poteva accedere.
La ragazza sospirò, coprendosi con il piumone caldo – Mi dispiace di essere un problema per te, papà. – mormorò, chiudendo gli occhi.
Voleva solo dormire.
Sentì Valentine irrigidirsi al suono delle sue parole e, qualche secondo dopo, il padre le accarezzò la schiena, come faceva quando era piccola ed aveva gli incubi.
Seraphim si rilassò, godendosi quel tocco dolce che mancava da fin troppi anni – Non sarai mai un problema per me, Seraphim. Sono sicuro che tu e Jonathan mi renderete orgoglioso. – concluse, lasciando che il silenzio prendesse il posto delle parole.
E, se anche non sapeva di cosa si trattasse, la ragazza aveva intuito che, le parole, erano state scelte con cura, per uno scopo ben preciso, e non era quello di rassicurarla.
  
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