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Autore: Kary91    01/08/2015    4 recensioni
[Pre-saga, child!Peeta e suo padre | Post-Mockingjay, Peeta | Everlark ]
Volevo parlare con lei, dirle come mi chiamavo, chiederle se le andasse, ogni tanto, di giocare a disegnare per terra assieme a me e a Delly. Mi ero anche messo in tasca dei gessetti per regalarglieli, perché magari non ne aveva e così l’avrei fatta felice.
Non potevo parlarle all’uscita da scuola, perché c’era la sua mamma. Potevo solo rincorrerla e chiamarla prima che seguisse la signora Everdeen dentro casa; chiamarla e fare un respiro grande grande e sorridere anche se avevo la tremarella e le gambe di ricotta, come mi dicevi sempre tu.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Mr. Mellark, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Di biscotti, favole e pennelli.'
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Questa storia è storia scritta per la challengeReady, set, prompt!” indetta dal gruppo FacebookThe Capitol” con il prompt: Scrivi una drabble/storia su un rapporto padre/figlio senza mai usare le parole ‘padre’ e ‘papà’.

 

Ginocchia Sbucciate

 

Secondo giorno di scuola.

Ho corso per più di un quarto d’ora, dalla scuola fino a casa sua, ma sono troppo goffo e non ho fatto in tempo.

Volevo parlare con lei, dirle come mi chiamavo, chiederle se le andasse, ogni tanto, di giocare a disegnare per terra assieme a me e a Delly. Mi ero anche messo in tasca dei gessetti per regalarglieli, perché magari non ne aveva e così l’avrei fatta felice.

Non potevo parlarle all’uscita da scuola, perché c’era la sua mamma. Potevo solo rincorrerla e chiamarla prima che seguisse la signora Everdeen dentro casa; chiamarla e fare un respiro grande grande e sorridere anche se avevo la tremarella e le gambe di ricotta, come mi dicevi sempre tu.

Ho corso più forte che potevo, ma a metà strada sono caduto, inciampando in una pietra. Il ginocchio mi si è bucato e il sangue è incominciato a scendere. Avevo paura e volevo piangere, ma lo feci piano piano, perché altrimenti non sarei più riuscito a fermare la tremarella.

Mi sono alzato e ho ripreso a correre. Quando sono arrivato di fronte a casa sua la porta si stava chiudendo. Ho cercato di fare più in fretta, di arrivare prima che la sua treccia entrasse con tutto il resto di lei, ma non ci sono riuscito. Avevo corso, ero inciampato, e mi ero persino portato dietro i gessi più belli della mia collezione. Ma non era servito a niente, ero stato troppo lento.

Volevo chiamarla per farla uscire, ma la voce non mi è uscita. Era scomparsa: rimanevo solo io, con il fiato grosso e le guance tutte bagnate.

Mi sono messo a piangere, questa volta anche con i singhiozzi.

Poi sono tornato a casa, e non ho parlato con nessuno fino a quando non sono corso in negozio, per abbracciare la tua pancia. Dei signori che stavano comprando il pane mi hanno guardato, così ho nascosto la faccia nel tuo grembiule.

Mi sentivo molto triste; avevo le ginocchia sbucciate, gli occhi gonfi e un piccolo graffio sul mio cuore nuovo di zecca.

Però c’eri tu; di nascosto dai miei fratelli, quado i clienti sono andati via, mi hai preso in braccio e mi hai detto delle cose all’orecchio che non mi ricordo, ma che mi hanno fatto sentire bene, un po’ come quando mi addormentavo sentendo l’odore del pane appena preparato.

C’eri tu e mi hai messo dell’acqua sulle ginocchia sbucciate e mi hai soffiato sulla faccia per farmi ridere e cacciare via tutte le lacrime.

C’eri tu e la tristezza se ne è andata via per un po’, così come il male alle gambe.

C’eri tu.

 

***

Secondo giorno a casa.

O, per lo meno, ciò che rimane di quella che un tempo era la mia casa.

Non ero nemmeno arrivato al Villaggio dei Vincitori che già avevo trovato Katniss, nonostante fosse parecchio distante da me.

L’ho vista correre verso il Prato, ma aveva l’aria diversa: ha l’aria diversa. È più vuota, più spenta. Non c’è, non del tutto. Come me e come il tuo ricordo.

Ho zoppicato per più di un quarto d’ora, dalla nuova scuola fino al margine dei boschi, ma sono troppo goffo e non ho fatto in tempo a raggiungerla.

Volevo parlare con lei, dirle che non l’avrei più lasciata sola. Chiederle se le andasse, ogni tanto, di restare con me la notte, per aiutarci a vicenda a non sentire i fantasmi. Perché loro sono qui, nella cenere che ancora strozza l’aria e impregna il terreno. Sono seduti fra le rovine della panetteria e mi inseguono mentre riprendo a camminare, cercando di guadagnare velocità per raggiungerla.

Continuo a muovermi più in fretta che posso, ma a metà strada cado, inciampando in una pietra. Il ginocchio si buca e il sangue cola lungo la gamba – l’unica che mi è rimasta. Alle spalle percepisco un’ombra, o forse l’immagino soltanto. È il ricordo della panetteria che un tempo si trovava qui e che adesso ha lasciato il posto a uno sprazzo di terreno vuoto e a qualche asse di legno sparso.

Ti cerco, lo sai?

Grido il tuo nome come poco fa avrei voluto urlare il suo, per costringerla a fermarsi. Per poterla raggiungere.

Grido il tuo nome perché mi sento proprio come quella volta in cui a cinque anni, singhiozzando, sono corso in negozio per abbracciarti la pancia.

La tristezza è diventata disperazione; sento talmente tanto da non sentire affatto – la mente sta diventando insensibile, pur di sfuggire al dolore.

Un tempo c’eri tu; mi hai preso in braccio, mi hai sussurrato all’orecchio, mi hai sciacquato le ferite e mi hai soffiato sulla faccia per farmi ridere.

Lo sento anche adesso quel soffio, complice il vento che s’infila sotto la mia giacca. Ma riesco solo a piangere, anche se vorrei solo perdermi in una di quelle risate piene che mi strappavi tu da bambino.

Piango e basta e il dolore sordo all’altezza del petto si estende al resto del corpo, mescolandosi al bruciore alla gamba.

Ho le ginocchia sbucciate, gli occhi gonfi, il cuore sfregiato da graffi profondi.

E tu non ci sei.

   
 
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