Questa
storia è storia scritta per la challenge “Ready, set, prompt!”
indetta dal gruppo Facebook “The Capitol” con il prompt:
Scrivi una drabble/storia
su un rapporto padre/figlio senza mai usare le parole ‘padre’ e ‘papà’.
Ginocchia Sbucciate
Secondo
giorno di scuola.
Ho corso per
più di un quarto d’ora, dalla scuola fino a casa sua, ma sono troppo goffo e
non ho fatto in tempo.
Volevo
parlare con lei, dirle come mi chiamavo, chiederle se le andasse, ogni tanto,
di giocare a disegnare per terra assieme a me e a Delly.
Mi ero anche messo in tasca dei gessetti per regalarglieli, perché magari non
ne aveva e così l’avrei fatta felice.
Non potevo
parlarle all’uscita da scuola, perché c’era la sua mamma. Potevo solo
rincorrerla e chiamarla prima che seguisse la signora Everdeen
dentro casa; chiamarla e fare un respiro grande grande e sorridere anche se
avevo la tremarella e le gambe di ricotta, come mi dicevi sempre tu.
Ho corso più
forte che potevo, ma a metà strada sono caduto, inciampando in una pietra. Il
ginocchio mi si è bucato e il sangue è incominciato a scendere. Avevo paura e
volevo piangere, ma lo feci piano piano, perché altrimenti non sarei più
riuscito a fermare la tremarella.
Mi sono
alzato e ho ripreso a correre. Quando sono arrivato di fronte a casa sua la
porta si stava chiudendo. Ho cercato di fare più in fretta, di arrivare prima
che la sua treccia entrasse con tutto il resto di lei, ma non ci sono riuscito.
Avevo corso, ero inciampato, e mi ero persino portato dietro i gessi più belli
della mia collezione. Ma non era servito a niente, ero stato troppo lento.
Volevo
chiamarla per farla uscire, ma la voce non mi è uscita. Era scomparsa: rimanevo
solo io, con il fiato grosso e le guance tutte bagnate.
Mi sono
messo a piangere, questa volta anche con i singhiozzi.
Poi sono
tornato a casa, e non ho parlato con nessuno fino a quando non sono corso in
negozio, per abbracciare la tua pancia. Dei signori che stavano comprando il
pane mi hanno guardato, così ho nascosto la faccia nel tuo grembiule.
Mi sentivo
molto triste; avevo le ginocchia sbucciate, gli occhi gonfi e un piccolo
graffio sul mio cuore nuovo di zecca.
Però c’eri tu;
di nascosto dai miei fratelli, quado i clienti sono andati via, mi hai preso in
braccio e mi hai detto delle cose all’orecchio che non mi ricordo, ma che mi
hanno fatto sentire bene, un po’ come quando mi addormentavo sentendo l’odore
del pane appena preparato.
C’eri tu e
mi hai messo dell’acqua sulle ginocchia sbucciate e mi hai soffiato sulla
faccia per farmi ridere e cacciare via tutte le lacrime.
C’eri tu e
la tristezza se ne è andata via per un po’, così come il male alle gambe.
C’eri tu.
***
Secondo giorno a
casa.
O, per lo
meno, ciò che rimane di quella che un tempo era la mia casa.
Non ero
nemmeno arrivato al Villaggio dei Vincitori che già avevo trovato Katniss,
nonostante fosse parecchio distante da me.
L’ho vista
correre verso il Prato, ma aveva l’aria diversa: ha l’aria diversa. È più vuota, più spenta. Non c’è, non del tutto.
Come me e come il tuo ricordo.
Ho zoppicato
per più di un quarto d’ora, dalla nuova scuola fino al margine dei boschi, ma
sono troppo goffo e non ho fatto in tempo a raggiungerla.
Volevo
parlare con lei, dirle che non l’avrei più lasciata sola. Chiederle se le
andasse, ogni tanto, di restare con me la notte, per aiutarci a vicenda a non
sentire i fantasmi. Perché loro sono qui, nella cenere che ancora strozza
l’aria e impregna il terreno. Sono seduti fra le rovine della panetteria e mi
inseguono mentre riprendo a camminare, cercando di guadagnare velocità per
raggiungerla.
Continuo a
muovermi più in fretta che posso, ma a metà strada cado, inciampando in una
pietra. Il ginocchio si buca e il sangue cola lungo la gamba – l’unica che mi è
rimasta. Alle spalle percepisco un’ombra, o forse l’immagino soltanto. È il
ricordo della panetteria che un tempo si trovava qui e che adesso ha lasciato
il posto a uno sprazzo di terreno vuoto e a qualche asse di legno sparso.
Ti cerco, lo sai?
Grido il tuo nome come poco fa avrei
voluto urlare il suo, per costringerla a fermarsi. Per poterla raggiungere.
Grido il tuo
nome perché mi sento proprio come quella volta in cui a cinque anni,
singhiozzando, sono corso in negozio per abbracciarti la pancia.
La tristezza è diventata disperazione;
sento talmente tanto da non sentire affatto – la mente sta diventando
insensibile, pur di sfuggire al dolore.
Un tempo c’eri tu; mi hai preso in
braccio, mi hai sussurrato all’orecchio, mi hai sciacquato le ferite e mi hai
soffiato sulla faccia per farmi ridere.
Lo sento anche adesso quel soffio,
complice il vento che s’infila sotto la mia giacca. Ma riesco solo a piangere,
anche se vorrei solo perdermi in una di quelle risate piene che mi strappavi tu
da bambino.
Piango e basta e il dolore sordo
all’altezza del petto si estende al resto del corpo, mescolandosi al bruciore
alla gamba.
Ho le ginocchia sbucciate, gli occhi
gonfi, il cuore sfregiato da graffi profondi.
E tu non ci sei.