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Autore: gratia    01/08/2015    9 recensioni
Jun Misugi ed il medico. Un lieve toccarsi, dentro e fuori. Un confronto su vita/morte e calcio tra il capitano-bambino ed il suo dottore. Visto dagli occhi dell’uomo dal camice bianco.
Nota: Questo pezzo è stato ispirato da “Haru no iro”, secondo capitolo della raccolta “Tamashi no kisetsu” di Queen_V_Introspective.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jun Misugi/Julian Ross
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Toccami'
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TOCCAMI




Paziente numero… 10. Sono quasi alla fine della mattinata. Testa vuota. Comincio ad essere ipoglicemico, è quasi ora di pranzo. Vado dall’infermiera. “Quanti pazienti mancano?” E lei mi risponde: “Solo uno, dottore.”
 
Bene. L’ultimo paziente. Poi potrò riposarmi ed avere quindici minuti per me. La pausa pranzo di un medico non dura un’ora come quella di chiunque altro. Ma quei quindici minuti fanno tutta la differenza. Perché aiutano a recuperare l’empatia, che chiunque in questo lavoro dovrebbe avere. Sempre.
 
In particolare se sei un pediatra. Significa che vedi i bambini, essere fatti di cristallo. Perché puoi leggervi dentro. Ma anche perché sono fragili, possono infrangersi. La loro personalità non si è ancora formata.
 
Sento bussare alla porta. “Avanti” – dico. Eccolo. Il mio ultimo paziente della mattinata. Un bambino. Ovvio. Avrà dieci anni, forse undici. Una donna bella ed elegante lo accompagna. Ha i cappelli raccolti in uno chignon, indossa un tailleur classico.
 
“Buongiorno dottore” – mi dice. Il bambino che l’accompagna si siede senza proferir parola. “Come ti chiami?” – chiedo rivolgendomi al bimbo. “Misugi Jun” – mi risponde lui. È strano. Mi guarda dritto negli occhi. Lo sguardo non cede. È assai inconsueto che un bambino mi guardi senza esitazione.
 
Il camice bianco incute timore. Sempre. Non mi piace, non vorrei indossarlo. Ma me lo hanno imposto sin dai tempi della specializzazione. A cosa serve un camice bianco quando curi bimbi? Devi essere vicino a loro. Devi far capire che sei dalla loro parte della barricata. Il camice distacca, è come una diga che ci divide. Lo so bene perché vedo la paura nei loro occhi quando entrano in questa stanza. Quando vedono il colore del mio camice.
 
Strano, il bianco è un colore che è sempre stato associato alla malattia. Forse proprio per colpa di questo maledetto camice che indosso. Ma è assurdo. Il bianco è il colore della neve. Il colore del riso. Il colore delle nuvole. Il colore dei denti di un essere umano quando sorride.
 
“Signora, ho visto la documentazione. Suo figlio ha una malformazione cardiaca.” Il bambino continua a guardarmi. “Parli con me, la prego” – mi dice. Respiro profondamente, sono davvero stanco. E questa è la prima volta che mi capita. Un piccolo paziente che mi chiede di essere investito direttamente della responsabilità di una conversazione a due.
 
“Jun, non potrai più giocare a calcio. Almeno finché non si farà l’intervento cardiochirurgico. Poi, ne riparleremo. Comunque, anche dopo, dovrà essere solo un hobby per te.”
 
Lui mi guarda in silenzio. Occhi neri. Molto profondi. Occupano metà del suo volto per quanto sono grandi. “Dottore, voglio giocare.”
“Non puoi, Jun. Mi dispiace.”
 
Succede una cosa nuova, imprevista. Il bambino mi tocca la mano appoggiata sopra alla scrivania. La prende, la porta al suo petto. Percepisco le pulsazioni frequenti del suo cuore.
 
“Lo tocchi, dottore. Lo aggiusti. Devo vivere.” Il fremito dell’apice del cuore sulla mia mano è caldo.
 
“Jun, ti farò vivere. Ma non puoi giocare a calcio. Non adesso.”
“Lei non capisce. Vivere significa giocare a calcio. Lei deve farmi vivere e anche giocare a calcio.”
 
Quel tocco sul suo petto. Mi ha trasmesso qualcosa. Distacco delicatamente la mano dal piccolo torace del ragazzino. Inizio a sentire il sudore scendere sulla fronte. Caso più difficile del previsto. Non poteva essere all’inizio della mattinata?
 
Guardo la bella signora seduta accanto al bambino. Ha gli occhi lucidi. Le mani, esili e pallide, tremano. Questo bambino ha un’aura strana intorno. Il corpo è ancora infantile, ma le parole… Lo sguardo… Il tono fermo della voce… Pare quasi di parlare con un… Uomo. Devo spiegargli chiaramente la situazione, solo così potrò evitare che si faccia del male.
 
“Ti consiglio di non toccare più il pallone, Jun. Almeno sino all’operazione. Il calcio potrebbe farti morire. Posso farti vivere, ma solo se non giochi a calcio. Purtroppo, nelle tue condizioni, calcio e vita non vanno d’accordo.”
 
“Capisco, dottore. Voglio vivere” – mi dice lui senza smettere un istante di guardarmi dritto negli occhi. Tiro un sospiro di sollievo. Il ragazzino ha capito. Del resto, un gioco è un gioco, la sua rilevanza è minima a confronto con quella della vita.
“Bene, allora ci vediamo tra un mese. Intanto puoi iniziare a prendere i farmaci che ti prescriverò.”
 
Si tocca il petto. Poi scuote la testa. “Non ha capito, dottore. Lei deve farmi vivere. E deve anche farmi giocare a calcio. Le due cose, per me, sono legate da un filo d’acciaio. Neanche lei può spezzarlo. Neanche il mio cuore può spezzarlo.”
 
Mi tocco la fronte. Mi asciugo il sudore. Mi metto comodo sulla sedia. Salterò la pausa pranzo oggi, avrei dovuto capirlo sin dall’inizio. I suoi occhi me lo avevano già comunicato. Ma ne vale la pena. 
 
 



Nota dell'autrice: un ringraziamento va a Nono23 per la revisione.
   
 
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