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Autore: My Pride    26/01/2009    9 recensioni
«C'è qualcosa. Qualcosa d'oscuro, in me, che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro»
«Roy... ti supplico» riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto.
«Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio»
[ Seguito de «Il bacio del vampiro» ]
[ INCOMPIUTA - Un giorno verrà aggiornata (forse) ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO SECONDO. LO SPETTRO D'UN UOMO CHE FU


Nei pressi di Londra, 1612

    Era una delle poche mattine in cui il sole, dopo le solite piogge torrenziali, scaldava la cittadina e gli abitanti che, come loro solito, ghermivano le strade principali in cui stanziava il mercato o la piazza che sfociava poco lontano.
    Lui era seduto lì, su una delle panchine di legno, in compagnia del figlio maggiore che, annoiato, si rigirava di tanto in tanto intorno ad un dito le punte dei biondi capelli lasciati sciolti sulle spalle, attendendo l'arrivo della persona con cui suo padre avrebbe dovuto incontrarsi quel giorno. Avevano sfacchinato in carrozza per ore prima di giungere in un paesino vicino alla capitale, e ancora non capiva perché avesse dovuto seguire il genitore e non era invece potuto restare nel maniero che faceva parte dei suoi possedimenti nei pressi della cittadina di Sheerness, dove adesso si trovava anche suo fratello minore.
    Sbuffando, si sistemò il colletto dell'ampia camicia bianca che era stato costretto ad indossare a causa della pioggia, gettando appena una fuggevole occhiata all'uomo seduto al suo fianco. Assolutamente tranquillo e paziente, questi sfogliava distrattamente uno dei suoi soliti libri come se la situazione per lui fosse più che normale. Il ragazzo sbuffò ancora, quasi esasperato.
«Perché non hai portato Alphonse al mio posto, padre?» domandò, poggiando entrambe le mani sul bordo della panchina in modo da sostenere il suo peso.
    L'uomo girò una pagina con non curanza, quasi piegando la copertina ormai consunta.
«Perché in quanto primogenito un giorno sarai tu a succedermi», rispose semplicemente. «Devi imparare come amministrare gli affari di famiglia».
    «Ma, padre... lo sai che non mi interessa», bofonchiò il biondino, incrociando le gambe sulla panchina e abbandonando i palmi delle mani sulle caviglie. Ricevette un'occhiata ammonitrice dal genitore, a quel dire e a quel fare.
    «Comportati in modo consono alla tua posizione sociale, piuttosto. Non lagnarti come un paesano qualsiasi», ribatté, sondando con lo sguardo la sua postura. «E siediti per bene», soggiunse, scuotendo debolmente la testa. D'un tratto, poi, sentendo qualcuno chiamarlo, alzò lo sguardo e posò il libro sulla panchina, sorridendo.
    Il ragazzo dapprima non capì, ma, vedendo suo padre salutare due uomini che si stavano avvicinando e vedendolo poi alzarsi, fece lo stesso, seguendolo verso i nuovi arrivati. Uno dei due era un uomo molto alto sui quarant'anni o poco più, dai capelli neri brizzolati e folti baffi scuri; l'altro invece era un giovane, forse appena diciottenne, con i lunghi capelli d'ebano come quelli dell'uomo e un taglio d'occhi orientale. Più unico che raro, lì in Inghilterra.
    «Spero che il viaggio non sia stato spossante», disse l'uomo, stringendo la mano a quello che poco prima era seduto, gettando uno sguardo al biondo come se fosse incuriosito dalla sua presenza.
    «Nay, è stata una splendida passeggiata», replicò quasi divertito l'altro, ricambiando la stretta con un sorriso. «Immagino che lui sia suo figlio», soggiunse poi, guardando il ragazzo moro che, per educazione, era rimasto in silenzio, osservando però interessato il biondino.
    «Immagina bene», fece in tono altrettanto spassoso il nuovo arrivato, dando una pacca sulla spalla al giovane e ricevendo da lui un'occhiata. «Avanti, Roy, dove sono finite le buone maniere?»
    Il ragazzo chinò appena il capo, allungando una mano verso l'uomo e stringendo la sua con un vago sorriso che accentuò il taglio obliquo dei suoi occhi.
«E' davvero un piacere conoscerla, signor Hohenheim», disse con una voce calda, morbida e ovattata, osservando con la coda dell'occhio il biondino.
    «Il piacere è mio, Roy», rispose l'uomo, e una volta sciolta la presa si girò a sua volta a guardare il figlio, silenzioso e a braccia conserte accanto a lui. Aprì la bocca per presentarlo ai due uomini, ma lo stupì non poco il gesto del moro, che si era chinato a mezzo busto e gli aveva delicatamente preso una mano per baciargliela come un galantuomo. Gesto che fece accigliare non poco il biondino, che osservò quella chioma nera perplesso quanto il padre, a differenza dell'altro uomo che, data l'espressione tranquilla, lo riteneva probabilmente un comportamento normale.
    «Incantato», mormorò il ragazzo con i capelli scuri, alzando lo sguardo per sorridergli e ammiccare, e il biondo si accigliò ancora di più, nonostante quel sorriso gli piacesse anche se non capì propriamente il perché. Con la mano libera lo indicò, guardando il padre.
    «Tha e gòrach, Athair [1]», disse calmo, in una lingua che gli altri due non capirono.
    L'interpellato lo ammonì con lo sguardo.
«Non essere scortese», replicò, poggiandogli una mano sui capelli per scompigliarglieli con fare paterno, guardando divertito il moro che sbatteva le palpebre quasi confuso. «Temo tu abbia frainteso, ragazzo mio», sghignazzò nel vedere l'espressione che si era dipinta sul volto dei due uomini, che si osservarono perplessi. Difatti il moro lasciò la mano del biondo, guardando attentamente suo padre per una frazione di secondo prima che fosse proprio il biondino a richiamare la loro attenzione con un colpetto di tosse, quasi innervosito.
    «Sono un maschio», sbottò, già stizzito di suo per essersi dovuto mettere in viaggio, prendendo poi la mano del moro e stringendola con fin troppo vigore, tanto che all'altro formicolarono le dita quando la mollò. «Mi chiamo Edward».
    Il ragazzo moro si portò una mano alla bocca prima di sgranare gli occhi scuri, sentendo le risate del padre del biondino, alle quali si aggiunsero presto quelle di suo padre. Si sentì invaso da un vago senso di imbarazzo mentre si grattava con finta non curanza dietro al collo, quasi fosse a disagio.
 «S-Sono desolato», si scusò sulla difensiva. «E’ che hai un viso così carino che pensavo fossi una fanciulla. Perdona l’insolenza».
    Edward non poté non arrossire, proprio come una ragazza. Nessuno gli aveva mai detto che era carino, tanto meno un... beh, tanto meno un uomo. Cercò di non dare a vedere che quella constatazione era ben gradita, ricomponendo la sua aria distaccata e incrociando le braccia al petto.
 «Devo considerarla un'offesa alla mia virilità, questa, o un complimento?» ribatté arcigno, ricevendo una poderosa pacca sulla schiena dal padre. Si voltò a guardarlo, notando la sua espressione divertita.
    «Placa gli ardori, Highlander. Non essere così acido», fu la sua risposta spassosa, mentre faceva cenno all'altro uomo di accomodarsi sulla panchina. «Vai a fare due passi, dobbiamo parlare di affari».
    «Vai anche tu, Roy», rincarò la dose il padre del moro.
    Il biondo, che sapeva fin troppo bene quanto fossero noiosi quei discorsi, lanciando un'occhiata in tralice quasi truce al ragazzo dai capelli scuri e sbuffando, prese a camminare per la piazza fino a sbucare in una delle strade principali, seguito dall'altro che gli trotterellava dietro.
    «Senti, mi dispiace», lo sentì dire, ma non gli diede peso, continuando la sua traversata come se nulla fosse, come se lui non avesse aperto bocca. Più lo teneva lontano da sé, meglio era. Non sapeva perché.  «Non volevo dubitare del fatto che sei un uomo, sul serio», riprese quello, insistente, avvicinandosi a lui in sole quattro falcate. «Ma è vero che sei carino, non scherzavo affatto su quel punto».
    Edward si fermò di botto, arrossendo ancor più vistosamente. Ma perché arrossiva, maledizione? Che razza di potere ammaliante aveva su di lui, quel moro?  
«Anche tu lo sei», si ritrovò a confessargli senza un motivo preciso, pentendosene subito e tappandosi rapido la bocca. Nay, quello non era un ragazzo. Era un ammaliatore o qualcosa di simile, se gli faceva dire quelle cose.
    «Oh, beh, sono lusingato», lo sentì dire, in tono stranamente divertito. «Che ne dici di dimenticare quel piccolo disguido e ricominciare da capo?» Senza che potesse dire una parola o controbattere, il ragazzo se lo ritrovò al suo fianco, e in breve la sua mano stringeva nuovamente quella del moro, che sembrava sorridergli seducente. «Piacere, Roy», fece spassoso, come se fosse un gioco.
    Il biondo guardò le loro mani unite e poi quegli occhi a mandorla, di un colore tendente all'onice, e dovette ammetterlo a se stesso. Quel ragazzo non era solo carino, era bellissimo. E anche maledettamente furbo e ingegnoso. Se non fosse stato così alto, l'avrebbe scambiato per un Wee Folk
[2]. Ma gli regalò comunque un sorriso stiracchiato, ricambiando la stretta. «Edward», disse, sentendolo ridacchiare, e gli piacque, quella risata. Un po' titubante tenne stretta la mano del moro, arrossendo ancora una volta quando quello sguardo scuro si posò su di lui e, a disagio, si grattò una guancia, limitandosi a stringersi nelle spalle.
    «Lo considero un gesto d'affetto?» sghignazzò il moro, ricevendo una mezza occhiata dal biondo, che abbassò prontamente lo sguardo sul terreno lastricato.
    «Consideralo come vuoi», replicò, stupendosi di non essere stato sgarbato come avrebbe voluto sembrare in quel preciso momento.
    «Ma dai, dimmelo tu», fece ancora il ragazzo dai capelli d'ebano, sorridendo sensuale a quello strano ragazzo. Lo vide alzare lo sguardo ancora una volta, prima che una delle fine sopracciglia bionde fosse sollevata appena, come ad indicare un inconfutabile scetticismo, ma lo vide sorridere, come fosse divertito.
    «Tienilo a mente, mai discutere con uno scozzese».


    Nel maniero, nemmeno una fiaccola illuminava le grandi sale e la quiete regnava sovrana, spezzata di tanto in tanto da qualche urlo disumano o dal risuonare sinistro dei vetri infranti.
    Con la testa fra le mani, Padre Roy cercava con tutte le sue forze di scacciare quell'anima malvagia che si annidava nel suo cuore e che cresceva ogni giorno di più, divenendo sempre più potente. Ormai, però, le sue preghiere erano diventate inefficaci da anni. I primi mesi aveva quasi sperato di essere riuscito a placare la sete di sangue che gli attanagliava le viscere; si era persino ridotto a mordere se stesso per non cedere a quell'inarticolato desiderio, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato solo iniettarsi veleno del tutto inutile su di lui, e la sua sete era aumentata sempre più d'intensità, martoriandolo nel profondo, in quel frammento d'anima umana che gli era ancora rimasta e che si aggrappava spasmodicamente al suo cuore per non sparire del tutto.
    Voleva morire. Combatteva contro se stesso da dieci anni: la transizione in lui, per qualche strana ragione, non era ancora completa, e questo poteva considerarsi un suo punto debole o la sua quasi totale invulnerabilità. Di solito, come gli aveva spiegato il vampiro che l'aveva trasformato, non ci volevano più di un paio di giorni per completare il passaggio, ma la sua forza di volontà non aveva permesso che si compiesse né lo faceva tutt'ora, e la sofferenza era maggiore. Mille volte maggiore di quanto fosse mai immaginabile. Dentro di lui il fuoco che ardeva non si spegneva mai, era come le fiamme dell'Inferno che bruciavano per l'eternità, senza consumare il corpo di chi era stato dannato. Come lui.
    C'erano attimi in cui, come in quel momento, tornava ad essere quasi umano, lucido, cosciente della sua situazione, e disperato abbatteva in continuazione le vetrate del maniero, tentando di ferirsi, urlando per quel fuoco che non lo abbandonava. A tali momenti si alternavano vuoti oscuri in cui percepiva quel che gli accadeva intorno, ma il suo corpo si muoveva senza rispondere ai comandi della sua mente, vagando come uno spettro per il bosco che circondava il maniero e attaccando qualsiasi cosa da cui percepisse lo scorrere della vita. E a quel punto, mentre i canini affondavano contro la sua volontà nel collo di chi si era perso tra la boscaglia, con il sangue della sua vittima che gli colava agli angoli della bocca, i suoi occhi d'onice vacui e privi d'ogni emozione lasciavano cadere lacrime che nessuno avrebbe mai visto. Per questo, ogni sera da più di dieci anni, tentava di auto-mutilarsi per non patire più quella vita, se così poteva definirsi.
    Ci provava e ci riprovava, senza successo. Un vampiro giovane, appena nato, non poteva fare un granché senza dipendere bene o male dal vampiro che l'aveva fatto risorgere a nuova vita. I poteri erano deboli, non sviluppati, l'unica cosa che lo rendeva diverso, e tremendamente più forte degli altri esseri umani, erano le zanne che gli spuntavano dalle labbra, la sua forza sovrumana e la capacità di rigenerarsi. Senza contare la continua e lasciva sete di sangue e il mai soddisfatto desiderio carnale. Per non parlare poi delle continue immagini che la sua mente registrava proprio come aveva fatto pochi attimi prima, facendogli provare un dolore ancor maggiore, un dolore a cui non riusciva a dare una spiegazione, un dolore che gli sembrava quasi sfociare nella nostalgia.
    Aveva il terrore di se stesso, in quei momenti. Sentiva voci su voci che si accavallavano le une alle altre, occhi che si accostavano ad altri, momenti di cui sentiva la mancanza. Quando tutto diveniva dannatamente doloroso,ciò che i suoi occhi riuscivano a vedere attraverso l'oscura foschia color pece che smussava i contorni era il polso del suo signore, quel polso candido che si macchiava del sangue di cui lui si nutriva per placare almeno in parte la terribile sofferenza, e la sua mente si concentrava unicamente sulla mano gelida e delicata che gli scorreva sulla pelle nuda e fredda, in quell'atto di eccitante e spaventoso erotismo. Quelli, però, erano gli unici attimi in cui riusciva a riacquistare un barlume di se stesso. E a quel punto lo allontanava
immediatamente da sé, come disgustato dai suoi gesti, sotto lo sguardo ambrato del giovane vampiro che, senza dire una parola, gli copriva il corpo nudo con un lenzuolo leggero e lo lasciava solo. Solo con le sue strazianti urla nel realizzare cos'era successo. Urlava e urlava finché la gola non cominciava a bruciargli, rannicchiato su se stesso con le mani convulsamente strette fra i capelli scompigliati, con le gambe al petto, avvolto in quelle lenzuola e seduto su quel materasso completamente sporco di sangue e di un liquido vagamente rassomigliante a sperma.
    D'un tratto, abbandonando quei pensieri, si guardò intorno con gli occhi neri completamente dilatati, come qualcuno che venisse tenuto costantemente sotto controllo, il respiro ansimante gli faceva alzare e abbassare il petto a ritmi sempre più irregolari, mentre la sete di sangue cresceva senza limiti. Qualcosa gli sfiorò una spalla; drizzò la testa, si voltò. Dinanzi a lui si ritrovò uno dei servi di sangue presenti in quella casa.
    In un lampo, gli fu addosso prima ancora che potesse muoversi o urlare, afferrandolo per le spalle e martoriandogli la carne con dita ormai divenute artigli, senza badare alle sue urla mentre si spostava verso l'addome. La testa si reclinò all'indietro, il volto si chinò poi fino a snudare le zanne; le affondò nel suo collo prima di squarciargli completamente la gola, sentendo il suo sangue caldo colargli lungo il mento. E a quell'odore penetrante di ruggine, il fu Padre Roy scattò serpentino all'indietro, restando seduto su quel pavimento freddo ad osservare allarmato e ad occhi sgranati lo scempio che aveva appena compiuto. Interiora, sangue.
    Una morsa gli attanagliò lo stomaco, come se stesse trattenendo un conato di vomito. Si affrettò a puntellarsi sulle ginocchia per rimettersi in piedi, barcollante, tentando di non guardare le proprie mani, sporche di sangue quasi fino al polso. Puntò lo sguardo verso le finestre, al cielo scuro fiocamente illuminato dalla luna.
«Perdona questo peccatore, Signore», sussurrò, anche se invano. Quella fede fittizia che gli era rimasta era l'unica cosa che gli permetteva di non impazzire. O almeno non del tutto.
    Gettò un'ultima veloce occhiata al corpo esangue a cui aveva appena tolto la vita, sentendo un vuoto attraversargli il petto.
Un mostro, ecco ciò che era diventato. Solo e unicamente un mostro. E, abbattendo l'ennesimo pugno contro un vetro - con i frammenti che gli si conficcavano nella carne già immediatamente guarita, con i lunghi capelli neri che gli ricadevano sulle spalle e sul viso dalla fronte imperlata di sudore a coprirgli frattanto gli occhi scuri -, levò un ringhio acuto che rimbombò sulle pareti del lato ovest, arrivando alle orecchie del padrone di casa. Quest'ultimo alzò appena gli occhi dal libro che stava leggendo, gettando uno sguardo ai suoi due figli prima di stornare poi lo sguardo verso gli altri tre o quattro vampiri che in quegli anni di forzato ozio era riuscito a richiamare. Anche loro, assolutamente immobili, osservavano i loro padroni.
    Hohenheim si sistemò con fare stanco gli occhiali sul naso, voltando distrattamente pagina.
«Ogni sera la stessa storia», borbottò pacato, quasi con svogliatezza, sistemandosi anche il colletto della camicia di pizzo e stando attento al piccolo opale scarlatto che quasi gli cingeva la gola. «Proprio non riesce a starsene buono».
    Trasse un lungo respiro, accavallando con disinvoltura le gambe e cercando di riconcentrarsi come meglio poteva sulla sua lettura. Bevve un sorso del the che uno dei suoi servi di sangue gli aveva portato pochi minuti prima, posando nuovamente la tazza per riprendere a leggere, ma un altro ringhio lo deconcentrò, ed esasperato si massaggiò una tempia. «Sapete bene quello che dovete fare
», fece poi rivolto ai suoi due figli, vedendoli con la coda dell'occhio immobili al loro posto, come se la questione non li riguardasse. Chiuse il libro con uno schianto secco, risistemandosi ancora una volta gli occhiali prima di fulminarli entrambi con lo sguardo. «Muovetevi, invece di poltrire», ordinò, senza voler ammettere repliche.
    I due vampiri si guardarono appena e, sbuffando, sparirono poi in un batter di ciglia, ritrovandosi a camminare senza alcun risuonar di passi per i corridoi impolverati, insinuandosi in uno sulla destra e sbucando nella sala musica, dove il piano con cui si dilettava a suonare la loro defunta madre era stato rovesciato e scagliato in un moto di rabbia contro il muro, scivolando sui vetri che imperversavano sul pavimento come piccoli diamanti grezzi scintillanti.
    Il più giovane trattenne un'imprecazione, voltandosi verso il fratello.
«Spero tu sia contento adesso, Edward», sbottò innervosito, con gli occhi verde ambra ardenti di collera mal celata. «Dieci anni e ancora cerca di contrastare il tuo cosiddetto veleno... distruggendo frattanto gli oggetti di nostra madre». Distolse immediatamente lo sguardo quando incontrò le polle assolutamente scure del maggiore, infervorato quasi più di lui. Il suo disappunto si poteva fiutare nell'aria.
    «L'ho punito più volte, per questo», gli tenne presente, cominciando a scendere tranquillamente le scale che li dividevano dalla sala, seguito dal compagno.
    «Ma sembra non abbia capito la lezione, dato che se n'è andato in giro senza il tuo permesso», fece in risposta l'altro.

    «Forse avrei dovuto farlo trasformare da nostro padre, almeno si rendeva utile in qualche modo, quel vecchio vampiro», disse tra sé e sé come se stesse intrattenendo un monologo, inclinando la testa di lato per evitare un frammento di vetro che il prete gli aveva appena scagliato contro. «A quanto pare, il mio veleno agisce troppo lentamente».
    Alphonse sbuffò, gettando un'occhiata a Edward.
«Non avrebbe mai esaudito un tuo capriccio, lo sai», lo informò, inarcando un sopracciglio, ma ci guadagnò appena uno sguardo truce.
    «Penso di sì, invece. Me lo doveva», replicò con fare fin troppo ovvio, avvicinandosi maggiormente al prete.
«Ma in questo modo Roy avrebbe ubbidito a lui, essendo originariamente umano».
    Entrambi fecero scorrere lo sguardo nella sala, trovando riverso in una pozza di sangue uno dei loro servitori, con le mani completamente abbandonate, immobili ed esangui, sul pavimento, rivolte verso il camino spento. Degnandolo di una sola occhiata, Edward scosse la testa come se ancora non se ne capacitasse, concentrandosi sul prete che se ne stava in piedi a pochi passi da lui, con le mani convulsamente serrate sul bordo di una delle piccole scrivanie, i capelli scuri gli ricadevano sulle spalle confondendosi con il mantello che indossava.
    Gli si avvicinò piano e provò a sfiorarlo, ma quest'ultimo si ritrasse di scatto con un ringhio sommesso avendo avvertito la sua presenza, mostrandogli le zanne. Il fuoco divampò in un guizzò d'oro e arancio nel camino come se fosse stato acceso da mani invisibili, un fulmine squarciò immediatamente il cielo e in lontananza si udì un ululato, mentre i due vampiri si squadravano, chi sopraffatto solo e unicamente dal disgusto, chi assolutamente indifferente alla collera che sentiva scaturire dall'altro.
    Fu qualche attimo, e il moro gli si gettò contro spinto solo da quell'istinto terrificante che lo animava, come se rivoltarglisi contro potesse servirgli a qualcosa. Lo afferrò per il colletto della camicia con entrambe le mani, costringendolo in questo modo ad alzare di poco il mento, le zanne palpitanti fra le labbra, mentre gli occhi, così scuri che nemmeno le pupille sarebbero state distinguibili, erano fissi solo ed unicamente sul suo volto.
    Il biondo non fece una piega, guardandolo a sua volta con fare saccente. Trasse un sospiro, alzando lentamente un braccio per far cenno al fratello di non intervenire, avendolo visto con la coda dell'occhio flettere il corpo, pronto all'attacco. Una delle sue mani si posò poi su quelle che il moro aveva stretto intorno al suo collo, e con uno scatto repentino lo costrinse a lasciarlo, piegandogli così velocemente il braccio dietro la schiena che l'altro nemmeno se ne accorse. Un altro ringhio
disumano che si trasformò in un urlo sfuggì dalle labbra del moro, che tentò di voltare la testa verso di lui per opporre in qualche modo resistenza, divincolandosi.
    Edward gli piegò maggiormente il braccio, come se volesse spezzarglielo, forzandolo ad inginocchiarsi davanti a lui e ignorando i suoi mugolii di dolore.
«Vedi cosa mi costringi a fare, Roy?» gli sussurrò languido, chinandosi in modo da potergli sfiorare un orecchio con le labbra. «Non voglio farti del male, ma se continui ad opporti in questo modo...» scese piano, lento, saggiando la pelle del collo. «...tutto il dolore che provi non farà altro che aumentare». Accanto a lui c'era solo la debole presenza del fratello, che sembrava assentire in silenzio nonostante il velo di potere che si sentiva scaturire ancora intorno a lui a causa dello scontro evitato al quale avrebbe, probabilmente, voluto partecipare.
    «Lasciami andare, figlio di puttana!» ringhiò il prete, scrollando le spalle come se volesse liberarsi, e i capelli gli ricaddero dinnanzi al viso, nascondendogli parzialmente gli occhi scuri.
    Una piacevole risata aleggiò fra loro, nonostante lo sguardo di Edward fosse divenuto indecifrabile.
Erano dieci anni che andava avanti così. Probabilmente suo padre aveva ragione. Non era realmente lui. Lo lasciò bruscamente, vedendolo indietreggiare con una mano convulsamente stretta a pugno, tremante di collera e non solo. «Parole molto pesanti, per un uomo di Dio», disse in un sussurro, come se volesse farglielo notare appena. «Och, dimenticavo che non lo è più da anni», soggiunse poi, facendo qualche passo verso di lui per piegarsi appena sulle ginocchia, le mani abbandonate sulle cosce.
    Il moro si allontanò maggiormente,
incontrando con i suoi occhi d'onice dilatati per la sete, il terrore e la rabbia, quelli dorati del vampiro dinnanzi a sé, che erano unicamente un oblio ambrato. Quante volte si era perso in quegli occhi? Quante volte, quando perdeva il concetto del suo essere e diventava un vampiro per quei pochi attimi in cui la sete prendeva il sopravvento, godeva di ogni singola attenzione che quella creatura sapeva dargli? Quante volte lasciava che il suo corpo gli appartenesse? Ne aveva perso il conto, ormai.  La sua integrità di prete era scomparsa dieci anni prima, quand'era diventato un vampiro. Ormai conosceva la lussuria, il piacere... tutto a causa di quell'essere, che approfittava di lui quand'era più debole e assetato, accondiscendente, e tutto ciò che gli faceva gli piaceva tremendamente. Ciò che gli restava era quel briciolo di fede che ancora era riuscito, chissà come e con chissà quale forza, a preservare. E, come se non bastasse, il mostro che aveva dinnanzi non faceva altro che ricordargli la sua triste situazione.
    Indietreggiò ancora, seduto su quel pavimento impolverato, spostando il suo sguardo
verso il più giovane per catturare solo in seguito l'immagine del servo che aveva ammazzato. Terrorizzato ancora una volta dal suo stesso gesto, si sfregò velocemente le mani sul pantalone scuro, come a volerle ripulire del peccato che aveva commesso. I canini, appena scoperti, sporgevano dalle labbra quasi livide «In nome di Dio, di Satana, di chi è il vostro protettore. Lasciate che me ne vada», bisbigliò concitato, riportando la sua attenzione sul volto d'alabastro di colui che aveva dinnanzi. «Lasciatemi libero. Non voglio più uccidere».
    Le labbra di Edward si sollevarono in un sorriso, vagamente triste nel ricordare il lampo d'eccitazione che intravedeva nelle perle nere del prete quando uccideva, lo stesso lampo che aveva riscontrato in quegli stessi occhi quasi trecento anni prima. Desiderio, passione... anche se per poco, era riuscito a vederlo. «Ti ricordo che il nostro compito non è ancora concluso, Roy», replicò tranquillo.
    La pupilla nera si ridusse ad un puntino scuro. «Non potete chiedermi di farlo, non voglio», sussurrò piano, guardando seriamente gli occhi dorati del vampiro. «Non potrei mai... è come un fratello, per me. Non voglio uccidere né lui né altri».
    «Non ti farai più tutti questi scrupoli dopo mezzo secolo, te lo assicuro», mormorò comprensivo Edward, rialzandosi in piedi prima di avvicinarsi a lui. Si chinò ancora una volta, accostando le labbra all'orecchio
per sussurrargli divertito: «Sarà lui la prossima vittima... Maes Hughes».


ATTO SECONDO. FINE





[1] Papà, questo qui è stupido [ Gaelico scozzese ]
[2] I Wee Folk sono creature tipiche del folklore scozzese (Quasi equivalenti ai nostri folletti) caratterizzate dalle minuscole (Wee) dimensioni.




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