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Autore: Persej Combe    05/08/2015    3 recensioni
Ho passato intere giornate a chiedermi che cosa fossi, nascosto nel mio angolo buio e incapace di vedermi. Anche se non potevo guardarmi, me lo sentivo addosso che non ero più io, che mi ero trasformato in qualcos’altro: un’accozzaglia di pezzi incastrati tra loro che formavano un nulla, di ricordi frammentati nel mio cervello che neanche riuscivo a percepire con chiarezza. Il mio corpo... Il mio corpo non esisteva e lo rivolevo indietro a tutti i costi pensando che avrebbe determinato una volta per tutte la mia vera natura! Ma forse, che sciocco, un corpo non significa nulla... Eppure ancora non ho trovato una risposta. Guardami: che cosa vedi? Un uomo? Un mostro? O forse l’opera prediletta plasmata da un dio folle?
~~~
E se Elisio fosse riuscito a utilizzare l'arma suprema?
Aggiornamenti estremamente irregolari
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Calem, Elisio, N, Nuovo personaggio, Serena
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fragmenta'
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Fin da quando ho finito di giocare il plot principale di Pokémon Y, mi sono sempre chiesta che cosa sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate in quell'altro modo. Dopo averci riflettuto per un po' e anche per un pensiero con cui mi sono svegliata una mattina, ho deciso di cominciare a scrivere questa storia. È un po' diversa da ciò che scrivo di solito, perciò non ho idea di cosa verrà fuori. Però vi avverto, sarà un po' pesante. Spero comunque che possa piacere a chi deciderà di andare avanti.
Detto questo, vi lascio al primo capitolo!
Buona lettura,
la vostra Pers ღ



I
Frammenti 

  I flutti del mare si rifrangevano sulla riva facendo rintronare il loro scroscio nell’aria immobile e priva di suoni. La spuma bianca si disperdeva tra le onde e sugli scogli neri, schiumava gorgogliando tra le rocce. Avanti e indietro, avanti e indietro: le onde si muovevano come le braccia di una madre apprensiva che cerca di cullare il figlio nel tentativo di calmarlo dal pianto.
  Serena si asciugò gli occhi stanchi e stravolti con il dorso della mano, aggrappandosi con le dita dei piedi all’orlo del tetto di quel palazzo in rovina sopra a cui si era arrampicata per cercare di isolarsi dagli altri, dai loro lamenti, dalle loro grida mentre ancora una volta venivano fasciati e bendati. Fissava la vastità dell’oceano e la percorreva con lo sguardo, lasciava che essa le si insinuasse negli occhi e in tutto il corpo fino a renderla satura e piena, le orecchie sorde, la vista cieca, il tatto insensibile. Diventava un tutt’uno con i suoi flutti e suoi schizzi, era la figlia che veniva cullata da quelle braccia intangibili.  Affogava in esse, trovava la calma nei suoi abissi oscuri finché il suo respiro si riduceva al nulla e lei perdeva conoscenza e non era più sé stessa.
  Nell’eterno silenzio, udì ad un tratto in lontananza lo strusciare di ruote sulla sabbia. Voltò lo sguardo a nord ovest e, fra i detriti e i macigni, scorse, minuscola e insignificante, una macchina che discendeva dalla Strada dei Menhir lungo il percorso scosceso e pericolante. Dovevano essere Diantha e AZ di ritorno dalla perlustrazione attorno alla zona di Cromleburgo. Alzò la vista, e un brivido la raggelò nel momento in cui nell’atmosfera grigia e polverosa intravide il cristallo rosso dell’arma suprema, che come un fiore funesto districava i propri petali dalle profondità della terra e si innalzava con prepotenza fin quasi a toccare il confine del cielo.
  Si voltò di scatto tenendo i piedi ben piantati contro la superficie ruvida del tetto e ritornò ad osservare la distesa blu scura del mare di Altoripoli.
  Altoripoli.
  Aveva ancora senso dare un nome ad una città che non esisteva più?
  Abbassò il viso e attorno a sé non scorse altro che case distrutte, impalcature spezzate e strade ricoperte di solchi dentro i quali i tubi dell’acqua e del gas si erano rotti. Ogni volta che usciva si teneva sempre alla larga da quei punti per paura di saltare in aria un’altra volta. I pali dell’elettricità si erano schiantati contro le pozze formate dai tubi di scarico e passandovi vicino si poteva ancora sentire un leggero sfrigolio accompagnato da una puzza di bruciato; a quella però non ci faceva mai caso, forse perché quell’odore d’incendio era impregnato un po’ ovunque.
  Sospirò, e fu un lungo sospiro. Si sedette e lasciò penzolare le gambe nel vuoto. Sotto di esse riusciva a vedere cavi e mobili che fuoriuscivano dai buchi dei muri. Li osservò, chiedendosi per quanto a lungo avrebbero mantenuto il loro equilibrio. Sporgendosi in avanti, rischiò quasi di perdere il proprio. Allungò il braccio sinistro e si aggrappò al cemento con le dita, tirandosi indietro con forza. Nel farlo lo sguardo le cadde per qualche istante sul Megacerchio che teneva  legato al polso. Varie volte aveva pensato di gettarlo via, dato che non sarebbe più stato di alcuna utilità, invece si era sempre trattenuta. Lo accarezzò lentamente sulla superficie graffiata e consumata riportando alla memoria il sorriso che lui le aveva rivolto nel vederlo al suo braccio per la prima volta. Quanto disperatamente sentiva il bisogno di rivedere quel sorriso! Avrebbe dato qualsiasi cosa, anche se ora le rimaneva ben poco... Senza tremare, stavolta, diresse la propria attenzione su quel cristallo rosso e lo fissò in silenzio. Dov’era lui adesso?
  «Serena!».
  Diantha e AZ si erano fermati con la jeep scoperchiata sotto il palazzo. La donna la stava chiamando agitando una mano per invitarla a scendere, mentre accanto a lei il gigante teneva a freno la macchina dal posto di guida. In pochi minuti la ragazza scese dall’edificio, districandosi fra gli interni sporchi e caotici e le scale dai gradini sfaldati. Corse verso di loro cercando lo sguardo della donna, ma provò uno sgradito senso di stupore nello scoprirlo cupo e assorto. Si era aspettata di vederla gioviale e affettuosa come era sempre stata, magari che si sarebbe sporta su di lei per darle una carezza, per rincuorarla.
  All’interno del gruppo, tutti quanti la consideravano una sorta di figura materna: dal giorno in cui Elisio aveva attivato l’arma suprema, lei si era sempre prodigata a consolarli, a mantenerli, ad ascoltarli e a dare conforto ad ognuno. Si era presa cura di quelli che erano rimasti feriti, bendandoli e somministrandogli medicine che aveva recuperato in qualche farmacia abbandonata per alleviare il loro dolore. Aveva procurato una certa quantità di cibo e l’aveva razionata affinché fosse sufficiente per ogni componente senza che venisse consumata troppo in fretta lasciandoli a corto di viveri. Poi, insieme ad AZ, aveva preso l’incarico di andare a cercare gli altri sopravvissuti e di portarli al loro nascondiglio.
  Nonostante Serena immaginasse quanto fosse frustrante stare ore ed ore alla ricerca di corpi nella speranza di trovarli vivi per poi non scorgere altro che morte, di solito Diantha appariva sempre pacata, abbastanza tranquilla e fiduciosa. Probabilmente non voleva essere un ulteriore peso per loro, sperava che mostrandosi in questo modo avrebbe potuto alleggerire almeno di poco il dolore che attanagliava tutti.
  Stavolta, invece, sul suo viso si dipingevano sensazioni del tutto opposte a quelle abituali, e nemmeno si sforzava di celarle.
  La ragazza si chiese che cosa potesse aver visto da sconvolgerla a tal punto. O era semplicemente stanca? Di certo, il ruolo di leader che si era imposta doveva comportare preoccupazioni e ansie di non poco peso.
  Dal sedile posteriore, vedeva la sua figura eretta, magra e severa, con le braccia conserte sul petto e lo sguardo chiaro fisso davanti a sé. La frangia bruna le si scompigliava sulla fronte bianca e dal resto della capigliatura, annodata scompostamente sulla nuca, sfuggivano dei ciuffi sottili. Anche con i vestiti sgualciti e il viso accigliato, Diantha aveva una certa grazia nei lineamenti, una bellezza che era difficile da ignorare. Era stata l’orgoglio di Kalos. E ancora adesso l’intera regione riponeva in lei una rinnovata speranza per un futuro migliore.
 
  Facendosi strada fra i detriti che occupavano la vecchia pista ciclabile, imboccarono un corto sentiero verso quella che fino a poche settimane prima era stata la Palestra della città. Essa era diventata il loro nascondiglio. Vi sarebbero rimasti fino a che Diantha non sarebbe stata sicura di aver setacciato completamente la zona. Il suo piano, poi, sarebbe stato quello di spostarsi verso il confine opposto della regione e di stabilirvisi segretamente, là dove il rischio di essere scovati dalle truppe del Team Flare sarebbe stato meno alto. Fecero il loro ingresso nella caverna e AZ fermò la jeep sullo spiazzo bianco dirimpetto all’entrata. Oltre di esso, con i piedi immersi nell’acqua del fiume circostante, c’era Shana china sulle proprie gambe, i lunghi capelli scuri le ricadevano sulle spalle con pesantezza ora che erano lasciati sciolti. Non appena vide i tre, si tirò in piedi; sembrava fosse stata a lungo in attesa.
  La ragazza avanzò e nel correre verso Diantha rivolse a Serena uno sguardo preoccupato.
  «Che cosa succede, Shana?» le chiese la donna senza mostrare il proprio disagio.
  «Tierno continua a peggiorare!» esclamò con gli occhi lucidi «Ho provato... Ho provato a stargli vicino, ma...».
  Diantha scese dall’auto scambiandosi uno sguardo d’intesa con il gigante, poi si apprestò a seguire la giovane che la implorava di fare qualcosa. Serena aprì di corsa lo sportello per andargli dietro, ma una pacca leggera da parte di AZ la rallentò.
  «Sta’ tranquilla, si rimetterà. Diantha sa quello che fa, perciò non devi preoccuparti. Tierno guarirà presto», le disse. I suoi occhi neri le sorridevano come a volerla incoraggiare.
  La ragazza si allontanò lentamente tenendo lo sguardo fermo su di lui: pareva molto convinto delle proprie parole. Si girò e corse dagli altri, schizzando la roccia del pavimento con i piedi che battevano veloci sul sottile corso d’acqua.
  Tierno era sdraiato a terra con le coperte addosso. Da pochi giorni aveva contratto una febbre molto alta e il suo aspetto fiacco e scolorito non dava l’impressione che le sue condizioni stessero migliorando. Aveva la faccia imperlata di sudore e respirava a fatica con la bocca aperta. Accanto a lui, Shana porgeva ripetute domande a Diantha, impaziente che la donna rispondesse, mentre Trovato, accucciato contro la parete, osservava il suo amico senza proferire parola. Di tanto in tanto allungava una mano verso la sua e gliela stringeva, «Fatti forza, amico mio», gli diceva.
  Diantha stava china sul ragazzo. Poggiava le dita sulla sua fronte per sentirne la temperatura e lo accarezzava piano per tranquillizzarlo.
  «Sento che sto per morire...» sbuffava lui «Sto così male...».
  «Tierno, smettila di dire così!» gridava Shana con le lacrime agli occhi: ogni qualvolta sentiva pronunciare quella parola maledetta, un fremito le scuoteva il corpo e la mente le si rabbuiava. Fra il gruppo dei ragazzi, probabilmente era lei quella che era rimasta più segnata dal disastro, anche più di Trovato, che appariva così piccolo e debole. Serena guardò il viso di ogni suo compagno. Erano tutti stati colpiti brutalmente, nei loro tratti si intravedeva lo sforzo immane che compievano nell’andare ancora avanti nonostante il dolore subito. Sentì qualcuno che le si era avvicinato e voltò la testa per vedere chi fosse.
  «Finalmente sei tornata,» la accolse Calem «non ti trovavamo più. Shana era preoccupata».
  «Da quanto è peggiorato?».
  «Un’ora fa ha cominciato a lamentarsi che gli faceva male la testa. Rabbrividiva come non l’avevamo mai visto. Ora va meglio, ma ha comunque bisogno di più cure rispetto a ieri».
  Improvvisamente Diantha alzò una mano in aria e fece cenno a Shana di fermarsi, di riprendere la calma. Le chiese di andare a prendere un’altra coperta per il ragazzo e di portarle la scatola con i medicinali. La donna continuava a rassicurare il giovane.
  «Rilassati, Tierno, sono qui. Andrà tutto bene», sussurrava dandogli qualche carezza sulla spalla.
  «Mi sento uno schifo...» si lamentava lui in risposta.
  Shana le portò rapidamente ciò che lei aveva chiesto, così, mentre lei era intenta a cercare la medicina, i due amici tentavano di coprire al meglio Tierno che continuava a tremare per i brividi febbrili.
  «Ecco,» disse la donna tenendo una pillola sul palmo della mano «manda giù questa».
  Il ragazzo si dimenò per un po’, emise qualche lamento doloroso, poi, incoraggiato anche dagli altri, si decise a inghiottire la pillola e tornò a sdraiarsi sul suo giaciglio con un sospiro spossato.
  «Bravissimo,» sorrise Diantha, la sua voce leggera era dolce e rasserenante «vedrai che tra poco ti sentirai meglio. Ora riposati, è bene che non ecceda con gli sforzi».
  «Diantha?» la chiamò mentre lei riordinava le medicine nella scatola.
  «Dimmi, Tierno».
  «Siete riusciti a trovare Dexio e Sina? Come stanno?».
  Diantha sembrò irrigidirsi per qualche secondo. Abbassò la testa e nascose il proprio sguardo dietro la frangia di capelli. Per un attimo pensò di rinfacciargli una bugia: non voleva peggiorare le sue condizioni rivelandogli ciò che era accaduto ai due apprendisti. Poi però si rese conto che era meschino, che quando sarebbe stato meglio l’avrebbe scoperto comunque. Si morse le labbra celate dietro le sue dita bianche. Prese un grosso respiro e si voltò verso i tre ragazzi. Serena e Calem ascoltavano da lontano.
  «Mi dispiace, Tierno», sussurrò «Stavano cercando di liberare insieme a voi i Pokémon dai monoliti che ne assorbivano l’energia per attivare l’arma. Sono stati travolti da alcuni massi durante l’impatto con il raggio. Non ce l’hanno fatta».
  Tierno la osservò in silenzio. Sembrava non stesse del tutto prestando attenzione alle sue parole e cominciava a chiudere gli occhi sopraffatto dalla stanchezza. Il medicinale iniziava a fare effetto e i suoi movimenti divenivano via via più lenti e pesanti. Probabilmente nel suo stato di stordimento non aveva nemmeno sentito. Si limitò ad annuire piano con la testa, poi si addormentò.
  Trovato e Shana guardarono Diantha come bisognosi di una spiegazione.
  «Sono stati schiacciati?» domandò il primo con voce flebile.
  La donna non rispose, perciò a tutti e quattro fu chiaro che quella fosse stata la sorte dei due poveri apprendisti. Si alzò chiedendo a Shana e Trovato di rimanere accanto al ragazzo in modo da prestargli soccorso nel caso in cui si sarebbe svegliato, poi si diresse dagli altri due.
  Sembrava abbastanza provata. Forse ancora non aveva detto tutto. C’era qualcos’altro che la turbava. Qualcosa di terribile e di indicibile che la faceva soffrire più di tutto il resto. Nonostante Diantha fosse un’eccellente attrice, in quel momento non seppe in alcun modo mascherare le proprie emozioni.
  «Per favore, ragazzi, andate a dire agli altri che ho qualcosa di importante da dirvi, questa sera. Mi raccomando, assicuratevi che vengano tutti. Non deve mancare nessuno. Devono sapere...!».
  Si coprì la bocca coprendo il rumore di un singhiozzo improvviso e, sentendo che non avrebbe potuto più contenersi, rinunciò a terminare la frase. Scosse la testa con forza e chiedendo scusa con voce strozzata si allontanò di corsa.
  Serena la scrutò mentre se ne andava, con i capelli che passo dopo passo le si scioglievano dal fermaglio e una volta liberi si percuotevano nell’aria come numerose fruste. Non capiva, davvero non riusciva a capire che cosa avesse potuto aver visto, eppure, il solo scorgerla così logorata e insicura le faceva girare la testa. Mise quel pensiero da parte e si impose di non pensarci: le era stato dato un incarico e sarebbe stato meglio sbrigarlo al più presto.
 
  «Te ne sei accorta anche tu, non è vero?».
  Finito di svolgere le proprie mansioni, Serena e Calem si erano fermati a riposare sul tetto del solito palazzo. Mentre lei continuava a esaminare con occhi assorti il movimento imperituro delle onde, lui con espressione greve fissava lo sguardo sui resti del Percorso 10.
  «Di cosa parli?».
  «Diantha si comporta in modo strano, oggi. Ho provato a chiedere ad AZ, ma lui non ha voluto darmi nemmeno un indizio. Devono aver visto qualcosa che non ci vogliono dire».
  «Magari preferiscono aspettare stasera».
  «Sarà una buona idea?».
  «Perché dici così?».
  «Se Diantha che è una donna forte ha reagito in questo modo, allora noi che faremo? Mi preoccupo soprattutto per Shana...».
  «Forse deve dircelo assolutamente. Qualsiasi cosa sia, è importante che noi la sappiamo».
  Calem annuì con la testa poco convinto. Non l’avrebbe ammesso ad alta voce, ma quella situazione stava diventando insostenibile anche per i suoi nervi. Erano passate appena due settimane dall’impatto con il raggio dell’arma suprema, ma ai suoi occhi quei quattordici giorni apparivano più simili ad anni, millenni, ere. Guardandosi attorno non era assolutamente in grado di riconoscere nelle macerie che li circondavano quei palazzi che avevano visto durante il loro viaggio con cui si erano prefissi di giungere alle porte della Lega Pokémon. Non poteva proiettare la propria immagine su quella spiaggia dove una volta si era allenato con i suoi compagni, perché quella spiaggia aveva mutato aspetto, era diventata qualcosa di diverso, di ineguagliabile. E i suoi Pokémon erano morti.
  Tutti i Pokémon erano morti.
  Alzò lo sguardo sulla coltre azzurra del mare e rabbrividì nel rendersi conto che fra le sue onde non vi sarebbero più nati Pokémon di tipo Acqua, né dei Wingull l’avrebbero eletta come la zona perfetta in cui scorrazzare in cerca del pasto. Nelle caverne non riposavano più gli Zubat che lo avevano infastidito di continuo durante le sue camminate, e pescando nei laghi non si sarebbe mai più trovato di fronte al faccione rosso e rotondo di un Magikarp. Ovunque regnava un silenzio irreale, privo di vita. E lui ancora non si era abituato a tutto questo, ad abbandonare ciò che era stata la sua esistenza fino a pochi giorni prima, i traguardi e gli obiettivi in cui aveva riposto fiducia e speranza che avevano alimentato i suoi sogni nelle notti passate dentro una tenda arrangiata su un pendio e nel mezzo di un bosco. Ora, invece, i suoi sogni erano occupati da incubi orribili e terrificanti nei quali ogni singola volta rivedeva le sfilze di cadaveri che avevano seppellito nei primi giorni dopo l’apocalisse. Essi sembravano risvegliarsi e parlargli, stringerlo per un braccio ammonendolo di non essere riuscito a impedire tutto questo.
  Posò lo sguardo su Serena, ancora intenta ad osservare i riccioli delle onde che scuotevano la distesa d’acqua di fronte a loro. Lei appariva calma, come se avesse già assimilato ogni cosa e trovato la forza di voltare pagina. Da una parte la invidiava, da una parte non la capiva. Non poteva sapere che ogni sera, in realtà, prima di andare a dormire, con la borsa in mano, lei chinava il viso per baciare in essa ogni Poké Ball che era stata la dimora dei suoi compagni. Soffriva, ma c’era qualcosa che ancora le infondeva speranza e coraggio nell’andare avanti.
  Ad un tratto la sentì ridacchiare.
  «Mi fa pensare ai capelli del Professor Platan. Non sembra anche a te che abbiano lo stesso colore? E le pieghe delle onde si contorcono come fossero boccoli e ricci accarezzati dal vento...».
  Ogni tanto le uscivano dalla bocca quelle considerazioni che non sempre Calem riusciva a capire. Abbassò gli occhi sull’oceano, ma oltre alla tonalità simile, non fu capace di scorgere i boccoli e i ricci di cui aveva parlato. Scrollò le spalle e si mise a studiare con la coda dell’occhio il volto della ragazza. Appariva rilassato e privo di ogni timore. Le labbra le si erano incurvate in un sorriso leggero, appena appena accennato, tinte di un rosa particolare. Stringeva il Megabracciale con le dita minute.
  Per qualche secondo, Calem ritornò a riflettere sul Professore. Diantha e AZ non avevano trovato alcuna traccia di lui, ma in qualche modo ancora si sforzavano di cercarlo. Per la donna, lui era la chiave che avrebbe messo in moto l’intera squadra: contava sul suo aiuto più di quello di chiunque altro. Eppure, visto l’andamento delle spedizioni svolte nelle ultime giornate, le speranze di ritrovarlo andavano a farsi via via sempre più incerte. Molti lo davano per spacciato, mentre pochi affezionati ancora confidavano nel suo miracoloso essersi salvato, nel suo essere sopravvissuto all’oblio in cui Elisio aveva cercato di gettarlo. Fra quei pochi c’era Serena, la quale ogni volta che qualcuno osava anche solo accennare a quale sarebbe potuta essere stata la sua sorte, ribatteva con fermezza: «No, il Professor Platan non è morto! Io me lo sento, è ancora vivo! Nella peggiore delle ipotesi sarà stato catturato dagli uomini del Team Flare, ma non può essere morto!».
  E gli occhi le brillavano, il viso bianco scintillava di viva convinzione.
  Non ci aveva mai fatto caso. Solo allora, nell’accorgersi della languidezza del suo sguardo, della dolcezza che albergava nel suo sorriso, della delicatezza con cui le sue dita passavano fra i ciuffi dorati (e chissà, magari pensando fossero quelle di lui!), si rese conto. Tremò.
  «Serena!» esclamò con voce che era rimprovero e sconcerto.
  La ragazza gli intimò di fare silenzio, e cautamente si sporse dal bordo del tetto per guardare in basso.
  «Serena, che cosa ti salta in testa? Lui è...!».
  «Shh!» lo zittì spingendogli un dito sulle labbra.
  Due teste rosse si aggiravano fra le strade sotto di loro. Non appena intuì che una avrebbe guardato in alto, si ritrasse rapidamente all’indietro, appiattendosi il più possibile contro il cemento per non essere vista. Calem, sdraiato al suo fianco, aspettava silenziosamente che si allontanassero.
  «Credi che mi abbiano sentito?» le chiese sottovoce.
  «Con questo silenzio si può udire ogni cosa».
  Dal basso proveniva un mormorio sommesso e le due reclute continuavano a muovere i propri passi sulla strada polverosa.
  «Credo che ci stiano cercando», disse allarmata Serena.
  «Allora sarà meglio filarsela», ribatté Calem alzandosi silenziosamente.
 Fece cenno alla ragazza di tirarsi su mentre con un dito poggiato sulle labbra le intimava di non fare rumore. La prese per mano e in silenzio si apprestarono a cercare una via di fuga. Calem si diresse verso la sporgenza di un tetto vicino e vi saltò sopra. Serena lo osservò titubante: lo spazio che separava le due superfici era abbastanza notevole. Il giovane la esortò a sbrigarsi, rassicurandola del fatto che l’avrebbe afferrata senza farla cadere. Vide di sbieco le due teste rosse stare all’erta alla base dei due palazzi mentre scrutavano con attenzione le porte rotte e i macigni sul marciapiede. Approfittando dal fatto che stessero entrambe con lo sguardo rivolto in basso, prese la rincorsa e con un salto si gettò su Calem, allungando le braccia verso di lui come per raggiungere al più presto la sponda sicura. Tuttavia, non appena si adagiò sul tetto, una tegola pericolante scivolò via dalla copertura e strusciando rumorosamente contro di essa, andò a cadere in basso rimbalzando sull’asfalto per fermarsi ai piedi di una delle reclute. Quella alzò la testa e li vide che si tenevano stretti ed erano impauriti. Calem strattonò Serena per un braccio e cominciarono a correre.
  «Sono lassù!» il grido echeggiò per tutta la zona e spinse i ragazzi a muoversi ancora più velocemente.
  Si fermarono al limite di un precipizio, cercando con ansia qualcosa a cui appigliarsi per poter fuggire da lì. C’era un tubo di metallo che si era rotto dal proprio sostegno e che scendeva fino a toccare terra. Calem guardò attorno per controllare se vi fossero altri modi di scappare, ma dovette lasciar perdere. Le voci delle reclute si facevano sempre più vicine e forti, bisognava agire in fretta. Strinse a sé la ragazza e aggrappandosi con una mano al tubo, scivolarono giù. La pelle gli bruciava e la sentiva aprirsi in tagli a causa dello sfregamento con il metallo. Balzarono via innalzando una nuvola di polvere e col fiato spezzato cercarono di allontanarsi il più possibile.
  «Di qua!» gridò Serena notando un tratto scosceso e su cui si erano ammassati più palazzi, rendendo difficoltoso il districarsi fra le macerie. I due ragazzi tuttavia erano abbastanza agili e avrebbero potuto utilizzare questa loro qualità a proprio vantaggio. Calem la seguì senza fiatare e insieme presero a scalare una parete che si era ripiegata contro il terreno. Saltarono tra un macigno e l’altro ricoperti di vetri rotti, si fecero strada in mezzo a travi di legno e di ferro, tra viti e bulloni arrugginiti. Si guardarono indietro sperando di aver seminato i due, ma dovettero accorgersi con angoscia che quelli erano ancora dietro di loro e parevano tenergli testa senza soffrire la fatica.
  «Serena, dobbiamo separarci».
  «Che cosa?».
  «Almeno non rischieremo di essere presi entrambi: uno di noi potrà salvarsi. Scappa senza fermarti e nasconditi. E qualunque cosa succeda, non mostrargli il nostro nascondiglio, capito?».
  Si mosse via di qualche passo e la incoraggiò ad andare.
  «Ci vediamo più tardi!» le disse per poi sparire nel folto dei massi.
  Serena si ritrovò sola, gli occhi di quelli puntati addosso. Senza ragionare prese a correre senza prefiggersi in mente uno schema preciso e più volte si ritrovò intrappolata in un vicolo cieco. A quel punto raccoglieva tutte le forze e con le dita doloranti e i piedi graffiati si arrampicava su un’alta parete, oppure si gettava da grandi altezze trovando infine un appoggio fortuito al quale aggrapparsi. E correva, correva come mai aveva fatto. Si sentiva un animale, una preda che viene cacciata con crudeltà. Disperatamente si infilò dentro la piccola apertura di un edificio e si nascose sotto una scrivania malmessa, cercando di farsi il più piccola possibile e di non emettere alcun tipo di rumore. Non respirava neppure, in quel momento non se lo poteva permettere. Desiderava salvarsi e in nessun modo si sarebbe ceduta alle grinfie del Team Flare. Se l’avessero catturata, non immaginava cosa avrebbero potuto farle.
  Assieme al silenzio che le ronzava nelle orecchie, anche l’aria cominciava a mutare. Stava calando la sera e presto dal foro del muro non sarebbe più passata luce. Sarebbe rimasta al buio. Se da una parte poteva trattarsi di un vantaggio, tuttavia non l’avrebbe di certo aiutata ad orientarsi nel caso in cui la recluta l’avesse scovata. Aspettava in silenzio che il pericolo svanisse. Tutto era immobile, tutto era fermo. Da fuori il rumore delle onde le arrivava ovattato e lieve, come se si trovasse a decine di chilometri di distanza da quel luogo.
  Un tonfo violento contro il muro. E poi un altro. Tre. Quattro. La parete si ruppe.
  L’aveva trovata.
  «So che sei qui, vieni fuori».
  Serena tremò, ma non per questo si lasciò vincere dalla paura. Rimase nascosta sperando che non l’avrebbe vista e che si sarebbe presto deciso ad andarsene. Sentiva i suoi passi che si facevano strada in mezzo alla stanza polverosa. Calpestava le travi ed esse si spezzavano sotto la forza esercitata dai suoi piedi. Si udivano le sue scarpe scricchiolare sul pavimento.
  «Fatti vedere, ho detto!» ringhiò l’uomo agitando in aria un braccio e rovesciando un mobile a terra producendo un violento frastuono. Voleva spaventarla, voleva tormentarla fino a che non si sarebbe arresa. Si aggirò nel buio con sguardo da avvoltoio, le mani aperte, trepidanti al pensiero di afferrarla, le dita lunghe come artigli robusti.
  Eccola.
  La scorse sotto il tavolo e la prese per un braccio, la scaraventò sul pavimento. Serena indietreggiò con i gomiti, il viso pallido e inciso dal terrore.
  «Ci sei sempre stata tu in mezzo, insieme a quell'altro marmocchio, fin dall’inizio», sibilò la recluta rimanendo immobile in piedi di fronte a lei e scrutandola. Era minuscola e patetica, schiacciata contro terra come un misero verme.
  «Ancora resisti? Il nostro progetto è appena all’inizio...»
  Serena scorse qualcosa di viscido nella sua voce. Vide la sua mano infilarsi nel cappotto in cerca di qualcosa e quando la trasse fuori, la ragazza tremò, sentì il sangue gelarsi improvvisamente nelle vene al punto che credette di essere già morta.
  «Non ti permetterò di intralciare ancora il nostro cammino», sussurrò l’uomo puntandole l’arma addosso.
  «Vuoi... vuoi uccidermi?» trovò la forza di dire mentre osservava la canna della pistola scintillare, toccata dagli ultimi raggi di luce che avrebbero illuminato il mondo quel giorno.
  Forse non l’avrebbero fatto mai più, pensò.
  «Quelli come te non hanno più senso di esistere, ormai. Dovevate essere tutti morti, non avete il diritto di occupare il nostro mondo! Siete la feccia, siete i parassiti... Non vi permetterò di contaminare il nostro progetto. Devo sterminarvi tutti, uno per uno».
  Lo vide chinarsi su di lei con un sorriso malsano sulle labbra, allora istintivamente prese il primo oggetto che le capitò tra le mani e prese a colpirlo sulle gambe. Non cercava di centrarlo, non stava pensando, le braccia si muovevano meccanicamente, per disperazione. Quello urlava, gridava, ma poi rideva, la scherniva, non dava segno di voler mollare. Premeva forte la pistola contro la sua tempia, il dito poggiato sul grilletto tremava. Serena sentiva la testa scoppiarle nel fronteggiare il suo sguardo maligno e paranoico e allora colpiva, colpiva, colpiva. Ad un tratto riuscì a sgusciare via dalle sue grinfie, si mise a correre verso l’apertura nel muro per tentare di fuggire un’altra volta. L’uomo sparò, il proiettile partì, la colpì di striscio sul braccio. Il dolore la bloccò, non ebbe il tempo di guardare, di capire, si sentì strattonata di nuovo e un’energica morsa la stritolò sulla ferita, sentiva le sue unghie, sentiva le sue dita sporche oltre il tessuto del guanto. Un freddo glaciale le premeva sulla tempia e lentamente pareva trapassarle la pelle.
  «Ti sembra forse un mondo perfetto, questo?» disse lui in un sussurro che era disperazione e paura.
  Il sangue colava giù dal taglio scivolando lungo le pieghe del vestito.
  «No,» aumentò la pressione sull’arma «no, non lo è affatto! È una pazzia».
  Il guanto si era imbrattato di rosso.
  «Siamo circondati dai morti. Noi stessi siamo morti. Pensaci! Ti senti forse uguale a ciò che eri prima? No, no. Ti è stato strappato tutto, non hai più nulla! E che cosa sei allora, se non un’accozzaglia di frammenti del tuo animo spaccato, dei tuoi ricordi? Ha ancora senso vivere? Nessuno potrà mai renderti ciò che ti è stato rubato. Nessuno potrà riportarti la tua vera essenza. I tuoi sogni, le tue speranze. Non esistono più! Non c’è più niente, non lo capisci?! E questo mondo non sarà mai perfetto...».
  Il sangue gocciolava sul Megacerchio, percorreva le sue dita, cadeva a terra in tonfi muti.
  «Quelli come voi sono la feccia. Sono gli innocenti. Voi non avreste mai voluto tutto questo, perciò lotterete per avere salva la vita. Ma presto, vedrai, anche voi vi sporcherete le mani. In questo mondo non c’è rifugio che nella follia. Morirete anche voi, come abbiamo fatto noi».
  Fu un attimo.
  L’uomo si accasciò a terra, molle, pesante. Serena lo fissava immobile. Vedeva la macchia sul suo petto allargarsi sempre di più sulle sue vesti, tingendole di scuro. Scorse i suoi occhi stanchi, le parve che stesse sorridendo.
  «Presto», disse, e tacque.
  Era finita. Era salva. Eppure non si sentiva al sicuro. Abbassò la testa e vide la pistola nelle proprie mani, sporca di macchie, di sudore. Di lacrime. Una sensazione vacua si era impossessata del suo viso, i suoi occhi erano vuoti, spenti, la pelle bianca di una chiarezza irreale.
  Ad un tratto si sentì chiamare da una voce, una voce di uomo. Si voltò coi capelli spettinati che si agitavano, lo sguardo rischiarato da nuova luce. Salvami, salvami!, pensava mentre col fiato sospeso cercava gli occhi di lui, il suo sorriso.
  La confusione l’aveva fatta cadere in una falsa speranza.
  Dalla fessura nel muro apparve Calem. Anche lui era ferito, ma le sue condizioni erano molto meno gravi di quelle in cui si trovava lei. Le venne vicino, e immediatamente, da dietro la schiena, Serena nascose l’arma sotto ai vestiti, si allontanò dal corpo che giaceva a terra e già cominciava a emanare odore di marcio. Calem non vide, non sentì. Non era successo niente. Si allontanarono insieme da quel luogo e addentrandosi nel buio della notte mossero i propri passi sulla strada che portava al nascondiglio.
  Soltanto allora Serena si accorse di quanto Calem, nel viso, fosse improvvisamente invecchiato in quelle due settimane.
 
  Le mani di Diantha erano un sollievo. Pulivano le ferite e disinfettavano con estrema delicatezza. Serena per qualche secondo parve dimenticarsi del proprio dolore e si concedette un sospiro di sollievo. Almeno in quel luogo, la morte non l’avrebbe raggiunta. Osservò le dita della donna che lentamente avvolgevano la benda attorno al suo braccio. Su di esse scorse dei tagli ancora freschi, rossi di una chiarezza brillante, probabilmente doveva esserseli fatti in mattinata. Sollevò lo sguardo e incontrò quello di AZ, che silenziosamente, dall’altro lato della caverna, la scrutava con attenzione. Distolse la vista: i suoi occhi neri erano intensi e parevano dilacerarle la mente, quasi fosse capace di percepire le sue sensazioni, di leggere sul suo viso ciò che aveva passato.
  Mentre medicava le ferite dei due ragazzi, Diantha rimuginava sull’attacco del Team Flare. Serena non le aveva detto la verità, e una volta che Calem ebbe raccontato la propria versione dei fatti, la ragazza si era limitata ad annuire, in silenzio, a concordare con le sue parole. Lui non era stato minacciato, non aveva corso il suo stesso pericolo: semplicemente, la seconda recluta aveva tentato di rapirlo, di portarlo con sé al quartier generale. Tuttavia, chi poteva dire che una volta condotto lì, non gli avrebbero fatto fare la stessa fine?
  «Se le cose stanno così, bisognerà cambiare i piani», disse ad un tratto la donna «AZ, più tardi voglio parlarti. Sarà meglio pianificare un modo per andarcene di qui, dobbiamo partire al più presto. Avranno capito che ci siamo stabiliti in questa zona, se dovessero inviare altre reclute sarebbe troppo rischioso».
  «Al momento non mi sembra prudente, Diantha», rispose l’uomo «Molti dei nostri sono ancora in gravi condizioni e non sono in grado di affrontare un viaggio simile. Non sappiamo cosa ci troveremo di fronte, né la situazione in cui versano gli altri percorsi, e men che meno siamo certi di poter stabilire un nuovo rifugio lontano di qui, adesso. Prima di decidere ogni cosa c’è bisogno di andare in esplorazione nei dintorni e di assicurarci di poterci accampare in qualche modo da qualche parte che sia semplice da raggiugere per tutto il gruppo. Non approverò alcun piano finché non ti sarai accertata di tutto questo».
  «Ma non capisci che è necessario agire immediatamente?! Hai visto come hanno ridotto questi due ragazzi! Se ci troveranno, cosa credi che faranno?».
  «È per noi che sei preoccupata, o per te stessa, Diantha?».
  AZ le rivolse uno sguardo severo, imponente, duro. Il suo viso era contratto in austerità, accentuata ancor di più dalla secchezza della sua pelle bianca e rugosa, il mento appuntito, le guance rese asciutte dal tempo. Nei suoi occhi neri Diantha riuscì a scorgere il dolore di una vita eterna, la saggezza e la consapevolezza di chi ha vissuto abbastanza da sapere ormai troppo bene com’è che va il mondo. Ma l’angoscia che provava lei in quel momento era talmente grande che non gli avrebbe mai permesso di contraddirla.
  «Stai cercando di fuggire perché sai che lui è poco lontano da qui e non puoi fare più nulla. Riesco a capire quello che provi, ma rifletti un attimo. Pensi che lui avrebbe voluto tutto questo? No. Sai bene ciò in cui lui sperava. Ora sei tu colei che deve alimentare ancora quella speranza, che deve cercare di non farla svanire, di prendersi cura di questi ragazzi e di costruirgli un futuro migliore. Glielo devi, tu che sei ancora viva e sei sopravvissuta».
  Serena e Calem ascoltavano in silenzio.
  Diantha girò il viso. Si mordeva le labbra e aveva gli occhi lucidi. Non sapeva dove avrebbe potuto trovare quel coraggio di cui tanto sentiva il bisogno.
  «Se non vorrai aiutarmi, allora farò da sola», disse facendo per allontanarsi «Calem, vai a chiamare gli altri, è arrivato il momento che vi dica. Serena, tu riposati. Quel taglio è abbastanza grave, ci vorrà qualche giorno prima che si richiuda del tutto. Non commettere azioni improvvise».
  Il gigante la guardò allontanarsi mantenendo la stessa espressione. Non poté fare a meno di considerare quanto le donne, per secoli e secoli, non fossero cambiate nemmeno di una virgola: persino le più docili e ragionevoli di tanto in tanto mostravano una parte di sé estremamente ostinata e testarda. Calem si era alzato, Serena osservava la propria benda ripensando alle parole della donna. Fu a quel punto che, ingenuamente, chiese: «Se ce ne andremo, che ne sarà del Professor Platan?».
  Calem la guardò. Non l’aveva capito?
  AZ abbassò la testa, sospirò.
  «Lui più di tutti non avrebbe mai meritato di finire in mezzo a questa storia», disse.
 
  Il silenzio cominciava a calare tra le pareti di roccia mentre Diantha si accingeva a prendere posto di fronte a tutti. Qualcuno stava ancora finendo di raschiare con il cucchiaio la ciotola in cui era stata servita la zuppa calda per cena, mentre altri si sciacquavano i denti con un sorso d’acqua. Nel giro di pochi istanti, gli occhi di ognuno puntarono sulla figura sottile della donna, coperta nelle sue vesti bianche. Ci si trovava nel mezzo dell’autunno e da fuori, dalle strade buie e deserte, proveniva un vento freddo. Diantha tuttavia non pareva soffrire il gelo, e con sguardo greve osservava i presenti uno per uno. AZ, in fondo alla caverna, la scrutava senza emettere parola. Accanto a lui, Calem e gli altri, seduti attorno a Tierno ancora dormiente, aspettavano pazientemente che la donna parlasse. Il ragazzo dai capelli neri di tanto in tanto lanciava qualche occhiata a Serena. Trovato si chinava sempre sull’altro compagno per sistemargli meglio la coperta addosso, mentre Shana, arricciandosi i lunghi capelli attorno alle dita, guardava Diantha tentando di scoprire dalle sue movenze la notizia che presto gli avrebbe comunicato.
  «Ho un brutto presentimento...» disse ad un tratto.
  «Se ci ha voluti qui tutti quanti, non dev’essere nulla di buono», commentò Trovato.
  «Per favore, vi pregherei di prestarmi la vostra attenzione. Come Calem e Serena vi avranno già fatto sapere nel corso della giornata, ho una cosa molto importante da dirvi», cominciò la donna.
  L’attenzione di tutti si posò su di lei e lentamente la caverna venne pervasa dal silenzio.
  «Prima di tutto, però», cercò nella folla gli occhi di AZ e una volta trovatili vi fissò lo sguardo senza esitare «c’è una comunicazione che devo farvi. Oggi siamo stati vittime di un attacco da parte del Team Flare».
  Lo sconcerto si diffuse in voci confuse che echeggiavano fra loro e si mischiavano caoticamente riverberando in rumori scomposti.
  «Per non mettere a maggior rischio l’incolumità dell’intero gruppo, ho deciso che domani mattina partiremo per cercare un nuovo luogo in cui rifugiarci. Le reclute potrebbero già essere sulle nostre tracce, quindi prima ce ne andremo, più alte saranno le possibilità di non essere catturati».
  «Se ne renderà conto, poi. Se ne renderà conto», commentò seccamente AZ. Tuttavia non era rimasto sorpreso.
  «So che alcuni di voi confidavano nell’aiuto del Professor Platan. Io stessa mi sono trattenuta dal prendere qualsiasi decisione aspettando il giorno in cui l’avremmo ritrovato. Fino ad oggi».
  Serena tremò. Lentamente portò le mani alla bocca coprendo con le dita vibranti un grido che ancora non aveva urlato, ma che già martellava nella gola e bruciava. Con gli occhi sgranati che andavano a riempirsi di lacrime mute, fissava Diantha e la guardava, la osservava, tendeva le orecchie, ma della sua voce non riusciva a percepire altro che un mugolio vano e senza senso. Forse non la stava sentendo perché già aveva sentito nel suo animo? Si alzò, silenziosa. Gli occhi di Calem si posarono su di lei. Forse, mentre se ne andava, aveva cercato di raggiungerla, aveva pensato.
  Nessuno poteva raggiungerla. Muoveva i propri passi sulla terra e sulle rocce porose, correva talmente veloce che le pareva di volare. Di tutto ciò che la circondava non vedeva altro che buio, freddo e silenzio. Il suo stesso pianto era silenzio, perché per esternare un dolore del genere, non c’era parola, né suono o grido. La morte è silente, tace, colpisce a bocca chiusa e ti abbraccia nel suo mantello nero senza emettere rumore. Rumore è ciò che rimane dentro la testa di chi sopravvive, di chi è costretto ad avanzare senza quel qualcosa che fino a pochi istanti prima era sembrato ovvio ed eterno. Le bruciavano gli occhi, e i piedi, per il dolore, non li sentiva più. Vagò a lungo senza curarsi della meta, del tragitto, della lontananza dal rifugio. Raggiunse luoghi della città che ancora non aveva esplorato, si nascose nelle loro ombre, in mezzo alle macerie sporche e abbandonate. Finse di essere invisibile, perché neanche la luna, che quella notte appariva così pallida, doveva vederla. Ad un tratto la forza si affievolì, il pianto si calmò. A passi lunghi e lenti si trascinò verso la riva del mare e non appena la sua pelle venne accarezzata dal manto d’acqua, si lasciò cadere a terra, sfinita, distrutta.
  Che agonia. Che dolore.
  Le onde si abbattevano sul suo viso senza pietà, con crudezza. Allungò una mano di fronte a sé come se stesse tentando di afferrare qualcosa.
  I boccoli e i ricci si frangevano in mezzo alle sue dita.
  Non li avrebbe più visti. Non avrebbe più sentito il loro profumo da lontano. Non avrebbe più incrociato quegli occhi, non si sarebbe più potuta crogiolare nella felicità emanata da un suo unico sorriso.
 Ecco che una sciocca cotta adolescenziale diventava vitale e indispensabile, si tramutava in un tormento invalicabile e terribile. Si vergognava di star soffrendo anche più di quando la fiamma spenta sulla coda di Charizard aveva sancito la scomparsa dei suoi Pokémon.
  Per un po’ rimase immobile senza pensare. I suoi abiti erano bagnati, i capelli zuppi si attaccavano al suo corpo gracile, lo ricoprivano come una lunga coperta dorata. Il vento spirava e aveva freddo.
  Si era spezzata in mille frammenti. Era difficile riafferrare quei pezzi e rimetterli insieme. D’un tratto erano spariti tutti e non li trovava più.
  Vide la benda avvolta sul braccio sinistro completamente intrisa d’acqua. Il taglio bruciava a contatto con il liquido salino. Si mise seduta e un pezzo per volta strappò via la garza, scoprendo la ferita che quella recluta le aveva fatto.
  Chi era stato a causare tutto quello?
  Voltò lo sguardo e in lontananza la luce rossa del cristallo la accolse come una maledizione.
  Si alzò. Il vento le schiaffeggiava la faccia e la obbligava a serrare gli occhi, ma lei vedeva lo stesso, lei sapeva. Sfilò la pistola dai propri vestiti e la puntò di fronte a sé, in mezzo a quello sguardo gelido e azzurro come il ghiaccio che individuò nella mente.
  «Ti ucciderò».

  Lo scoppio dello sparo echeggiò nel silenzio, e a quel punto cominciò la caccia.
  
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