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Autore: Persephone Grey    06/08/2015    0 recensioni
avevo già pubblicato un paio di storie un paio d'anni fa. poi altri progetti, altri impegni, un blog tutto mio, mi hanno tenuta lontana da questo sito.
ora ritorno con un nuovo progetto, che non so ben dove mi condurrà ...
una storia originale ambientata nella Randland creata da Jordan.
spero che i fan di WoT non mi lancino troppi pomodori!!!
La Luce vi illumini!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’uomo avanzava nella notte lungo la strada che portava verso il Maule, rapido e silenzioso come ben si addiceva al suo soprannome, il Topo.
Aveva da tempo imparato l’arte del passare inosservato, persino in pieno giorno e in una piazza gremita di gente e quella notte, nelle buie strade di Tear, si confondeva nelle macchie di oscurità, tra una pozza di luce e l’altra, cercando nel contempo di ripararsi dalla pioggia che scendeva copiosa.
L’anonimato era parte integrante di quello che era e di ciò che faceva per vivere: il Topo era un assassino su commissione, uccideva per denaro e, in quel preciso momento, stava andando a riscuotere il compenso per un lavoro appena portato a termine. Argento sporco di sangue, ma pur sempre argento. Non si poneva più domande sul denaro che riceveva, sul perché veniva pagato. Bisognava pur vivere, in un modo o in un altro, bisognava inventarsi un lavoro. Alcuni uomini erano portati per il commercio, altri per i lavori manuali. Lui era bravo ad uccidere e poi a sparire senza lasciare alcuna traccia, e aveva fatto di questa sua capacità una fonte di reddito. Non si sentiva in colpa per questo.
Rapido attraversò le strade male lastricate di quella zona della città al confine con il Maule. Fu contento di non doversi inoltrare nel quartiere portuale di Tear: quella notte la pioggia non ne voleva sapere di diminuire e le pur sconnesse pietre del selciato erano decisamente meglio del fango che invadeva il Maule.
Individuò la locanda che stava cercando, con l’insegna a forma di stella, ma non vi entrò, non ancora.
Oltrepassò la locanda e si accostò alla bottega di un fabbro. Bussò tre volte, come concordato, tre colpi secchi a breve distanza l’uno dall’altro; udì un fruscio provenire dall’interno e nella sua mano sinistra comparve un pugnale, più per abitudine che per reale presentimento di pericolo. La porta si aprì e una figura incappucciata gli fece cenno di entrare.
La stanza era a malapena illuminata da una lanterna cieca, non del tutto aperta, posata in una forgia spenta.
La figura richiuse la porta alle sue spalle e il Topo tenne stretto in mano il pugnale, nascosto tra le pieghe del mantello. La corporatura minuta rivelava sicuramente una donna, ma il Topo aveva imparato da tempo a diffidare più delle donne che degli uomini, soprattutto quando si trattava di affari.
La donna aprì un po’ di più la lanterna e si sedette su una grossa incudine lì accanto, sistemandosi con calma le gonne; scostò il cappuccio e lo fissò dritto negli occhi, anche se non poteva di certo vederli, dal momento che l’uomo teneva ancora il volto celato dal cappuccio; aveva la tipica espressione di chi si aspetta di ricevere obbedienza. Era la prima volta che la vedeva in viso e, per un attimo, quello sguardo duro gli fece correre un brivido lungo la schiena, aveva l’aspetto pericoloso di un felino pronto a balzare sulla preda.
La esaminò per alcuni, lunghi attimi: pareva più giovane di quanto si aspettasse, ma l’atteggiamento mostrava una persona più matura, sicuramente avvezza al comando. Era ricca, a quanto dicevano le vesti e il consistente compenso pattuito per il semplice incarico che gli aveva commissionato, ma non avrebbe saputo dire se fosse nobile. Aveva un bel viso, con gli zigomi alti e le gote piene; il naso, piccolo e dritto separava i grandi occhi azzurri, la bocca rosea aveva il labbro inferiore più pronunciato, ma forse era solo l’espressione lievemente imbronciata. La fronte spaziosa era accentuata dai capelli acconciati in una crocchia poco sopra la nuca; intuì dei ricci biondi. La donna era sicuramente andorana.
“Allora? Non pretenderai che ti paghi sulla fiducia?” La voce era quella che ricordava, un timbro calmo, basso e sensuale, e un tono che non ammetteva repliche.
“Ecco” rispose il Topo, ed estrasse dalla tasca un sacchetto in pelle, che le porse. Conteneva alcuni gioielli e una ciocca di capelli scuri, sottratti alla donna che aveva ucciso per lei.
Lei prese il sacchetto e ne esaminò il contenuto. Si soffermò in particolare su un anello di poco valore, un oggetto all’apparenza insignificante che lui stesso aveva quasi lasciato al dito della vittima, un cerchietto di metallo scadente, smaltato in verde. Eppure quell’oggetto pareva avere un particolare significato per la donna che lo rigirò tra le dita tremati.
“Era l’amante di mio marito” disse infine con voce a mala pena meno ferma. “Gaebril aveva iniziato a commerciare con Tear solo per poter stare con lei. Stava lontano da Caemlyn sempre più spesso e sempre più a lungo. Non potevo sopportarlo”.
Dalla scollatura dell’abito fece comparire un laccio di cuoio che slegò e vi infilò l’anello, il quale andò a fare compagnia ad altri due. Uno in particolare attirò l’attenzione dell’uomo, un cerchietto d’oro dalla forma di serpente che si morde la coda. Il Gran Serpente, l’anello che solo le Aes Sedai hanno il diritto di indossare. L’uomo rabbrividì di nuovo. Una Sorella.
La donna lo fissò con un sorriso ironico, quasi riuscisse ad intuire il suo sconcerto.
“So a cosa stai pensando. Sì, sono stata addestrata alla Torre Bianca, ma no, non sono una Sorella”. Non diede altre spiegazioni, e del resto lui non le pretese.
Ritirò gli anelli da dove erano comparsi e si alzò in piedi. L’uomo notò che era bassa ma ben proporzionata nel fisico. Il mantello, leggermente aperto, lasciava intravedere un seno generoso. Avrebbe anche potuto piacergli, se si fossero incontrati in un’altra occasione. Scacciò immediatamente quel pensiero.
“Comunque non credo che andrai a raccontare in giro che hai incontrato, di notte, nella bottega di un fabbro, una donna con l’anello delle Aes Sedai.” Gli porse un sacchetto in pelle. “Il tuo compenso”.
L’uomo esaminò il contenuto, tutti marchi d’argento di Andor.
“È più del pattuito”
“Voglio assicurarmi che se un giorno dovessi avere ancora bisogno di te, tu sia disponibile”.
Strinse il mantello e celò di nuovo il volto sotto il cappuccio, dirigendosi verso la porta. Prima di aprirla si fermò e senza voltarsi aggiunse: “Se dovessi trovarti a Caemlyn, e ti trovassi nei guai, chiedi di Lady Alys Gray”.
Uscì nella notte lasciando l’uomo da solo con la lanterna.
Il Topo attese qualche minuto, poi prese la lanterna e uscì dalla fucina. Pioveva ancora a dirotto, ma doveva fare un breve tragitto per raggiungere la locanda. Aveva fatto appena un paio di passi quando scorse, con la coda dell’occhio, un rapido movimento in un vicolo alla sua destra. In modo altrettanto rapido si appiattì contro il muro, appena in tempo per schivare una freccia che, se avesse tardato un solo istante a scansarsi, lo avrebbe centrato dritto in mezzo agli occhi. Lasciò cadere la lanterna, che si frantumò con un rumore secco, l’olio fuoriuscì dalla base e si incendiò, creando una pozza ardente al centro della strada.
Il Topo estrasse rapido i due pugnali che teneva nascosti nelle maniche. Udì un movimento sopra la sua testa, alzò lo sguardo e una figura scura lo travolse. Rotolarono avvinghiati nella strada, l’aggressore lo afferrò al collo e iniziò a stringere per strangolarlo. Il Topo sentì la stretta e in breve iniziò a vedere dei puntini luminosi davanti agli occhi. L’uomo si fermò a cavalcioni sopra di lui e gli strinse sempre più forte le mani attorno al collo. Iniziò a divincolarsi, ma l’altro manteneva salda la stretta; gli sferrò un pugno, poi un secondo, ma l’uomo non mollava la presa. Il Topo lottava disperatamente, ma l’aggressore era forte e determinato. Voleva ucciderlo. Quando ormai non vedeva più nulla e i polmoni iniziavano a bruciargli per la mancanza d’aria gli conficcò entrambi i pugnali nello stomaco e li spinse con forza verso l’esterno. L’uomo rantolò morendo, e abbandonò la presa attorno al collo. Il Topo, tossendo, si scosse di dosso il corpo del morto, e si girò carponi, ancora tossendo e sputando. La gola gli doleva tremendamente e i polmoni bruciavano nell’espandersi. All’ennesimo colpo di tosse sentì in bocca il sapore del sangue. Strisciò a bordo strada e si appoggiò al muro di una casa. Avrebbe voluto abbandonarsi lì, ma un secondo uomo gli si avventò contro. Lo scansò agilmente rimettendosi in piedi e in un attimo aveva in mano un nuovo pugnale che lanciò contro la figura, colpendola alla gola. Anche questo rantolò nell’accasciarsi al suolo. Il Topo si appiattì nuovamente contro il muro, nel buio. Non vi era altro movimento nella strada, né rumore a parte la pioggia che cadeva. Solo in quel momento si accorse di non essere più protetto dal cappuccio; immediatamente celò il suo volto, ma a quanto pareva gli unici due che potevano riconoscerlo non avrebbero parlato mai più. Si chinò sul secondo uomo che aveva ucciso per recuperare il pugnale. Vide che aveva un panno che gli copriva tutta la faccia tranne gli occhi, alla maniera degli Aiel. Dubitò che si trattasse di un Aiel e infatti, quando gli strappò via il pezzo di stoffa, vide che si trattava di un tarenese, e non di un tarenese qualunque, bensì uno degli uomini dei Difensori della Pietra. Andò all’altro cadavere e tolse il velo anche a quello; un Difensore.
Adesso era davvero scosso. Sapeva di essere ricercato dai Difensori della Pietra, li sentiva alle spalle, il loro fiato sul collo. Più volte negli ultimi mesi aveva rischiato di essere catturato, nel mondo reale e, ancor peggio, nel Tel’Aran’Rhiod. Ma non gli erano mai arrivati tanto vicini da attaccarlo direttamente, da ingaggiare duello. Se lo avevano trovato quella sera, sapevano chi era e come si muoveva. Avrebbero potuto tentare di ucciderlo in ogni momento. Sulla sua testa, del resto, pendeva una condanna di cattura “Vivo o morto”. Ed era indubbiamente più facile trascinare un cadavere davanti ai Sommi Signori.
Guardò di nuovo i due corpi sul selciato. Doveva andarsene prima che fosse passato qualcuno. Si strinse nel mantello e si avviò verso la locanda.

L’uomo entrò ne “La Stella” e venne investito da un’ondata di odori di cucina, tabacco e sudore, vociare di persone e musica.
Si guardò attorno. La sala comune era piena di avventori e una ragazza, in un angolo, suonava un dulcimero e cantava una triste storia d’amore. Nessuno avrebbe dato peso ad un nuovo arrivato, neppure ai suoi vestiti fradici, visto quanto pioveva fuori. Abbassò il cappuccio per non destare sospetti e sorrise al locandiere che in quel momento gli si avvicinava.
“Una pessima serata per andarsene in giro, mio signore” era un uomo grasso, come ogni locandiere che si rispetti, calvo, la pelle scura tipica delle popolazioni del sud, gli occhi scuri che ne rivelavano la scaltrezza a dispetto dell’atteggiamento bonario.
“Nessun signore, mastro, sono solo un viandante sorpreso dalla pioggia”
“Certo, certo, mio … ehm … come posso aiutarti?”
“Una stanza e un boccale di birra” e allungò al locandiere un marco d’argento, il che lo rese particolarmente gentile e servizievole.
“Certamente, certamente. Se vuoi seguirmi, mio sig … ehm …”
Il locandiere si voltò e iniziò lentamente a salire le scale che portavano ai piani superiori, facendogli cenno di seguirlo. Le scale scricchiolarono al loro passaggio; la “Stella” non era una locanda giovane, come non lo era il locandiere. Arrivarono alla fine di un lungo corridoio, ai cui lati si susseguivano una serie ordinata di porte chiuse.
“Mi spiace” disse il locandiere aprendo la porta “la stanza è un po’ piccola ma … ehm … lo vedi anche tu, ci sono tanti avventori questa sera e …”
“Andrà bene” lo interruppe l’uomo.
“Posso fare qualcos’altro?”
“Fammi portare qui quel boccale di birra”
“Ah, sì sì, certamente … e anche una buona zuppa di pesce, sarai certamente affamato, mio … ehm … e infreddolito, con tutta questa pioggia, e la nostra cuoca prepara una zuppa di pesce che …”
“La birra” lo interruppe bruscamente il Topo e richiuse la porta in faccia al locandiere prima che questi potesse riprendere a parlare.
Su una mensola accanto alla porta trovò un acciarino e una candela, fece luce nella stanza e si guardò attorno. Era davvero piccola: un letto, un lavabo con brocca e specchio, qualche piolo nel muro su cui appendere gli abiti fradici. Una piccola finestra. Si tolse il mantello e lo appese ad uno dei pioli, e si sfilò gli stivali. La giubba era ancora sporca di sangue, così come la camicia. Le sfilò entrambe e le appese ad asciugare, pensando che avrebbe dovuto procurarsene di nuove, o per lo meno lavarle.
Trovò già dell’acqua nella brocca, ne versò un po’ nel lavabo e si sciacquò il viso, alzò lo sguardo e lo incontrò riflesso nello specchio. Osservò quel volto che lo fissava dalla lastra rotonda quasi con stupore, l’uomo che si celava sotto il cappuccio dell’assassino, il volto che doveva tenere anonimo, il volto di Jake, il suo.
Osservò quel viso, pallido e scavato, gli occhi scuri erano opachi, circondati da un alone bluastro, la barba di tre giorni gli circondava la bocca e ombreggiava le guance. I capelli scuri e arruffati iniziavano ad arretrare sulle tempie. Aveva un volto comune ed ordinario, che nessuno avrebbe notato, ed era quella la sua forza. Ma adesso era stanco e tirato. Osservò il suo corpo senza camicia, era sempre più magro al punto che gli si potevano quasi contare le costole. Si stava consumando.
Sentì bussare alla porta.
Afferrò il pugnale dalla cintura e aprì puntando la lama verso la cameriera, che per poco non rovesciò il vassoio per lo spavento.
“La … la tua cena … ehm … signore …”
La ragazza era giovane, poco più di una bambina, e aveva gli occhi grandi e castani, sgranati dallo spavento.
“Non c’è nessun signore qui” rispose Jake brusco, ritraendo il pugnale, “avevo detto niente cena, solo birra”
“Mastro … Mastro Clifford, signore, mi ha detto …”
“Lascia il vassoio da qualche parte e vattene”.
La ragazza non disse altro, ma appoggiò il vassoio in terra e si allontanò svelta, ancora tremando.
Jake fissò di nuovo il suo volto nello specchio. Cosa stava facendo? Cosa gli accadeva? Era nervoso, si sentiva braccato. Era braccato.
Si passò le mani sul viso. Non poteva continuare così, non poteva restare a Tear. Doveva andarsene, ma dove? Ripensò a Lady Gray e alla sua offerta. No, non poteva permettersi di fidarsi di nuovo di un’altra persona, di un’altra donna. Non poteva fidarsi di nessuno, a questo punto, figuriamoci di una Aes Sedai, o presunta tale.
Sedette sul pavimento. Le assi scricchiolarono sotto il suo peso, e non erano nemmeno ben livellate, tanto che avvertiva sotto di sé gli stacchi tra l’una e l’altra. Non vi badò. Mangiò svogliatamente la zuppa di pesce, solo perché doveva mettere qualcosa nello stomaco, accompagnata da un pane scuro e fragrante e da un boccale di birra fresca; doveva mangiare, doveva rimanere lucido mentre pensava a cosa gli rimanesse da fare.
Non voleva affidare le sue sorti ad una donna. Proprio una donna l’aveva messo in quell’enorme casino, ed era quasi paradossale che una donna, ora, gli mostrasse la via d’uscita. Sembrava uno scherzo del destino. La Ruota gira e ordisce come vuole, pensò.
Si trascinò contro il letto e appoggiò la testa al materasso, fissando il soffitto. Rivide il volto di Isabella, i lunghi boccoli neri, gli occhi scuri, la figura alta e slanciata.
Ripensò a come era riuscita a raggirarlo, lei, una spia dei Sommi Signori. L’avevano incaricata di cercare il Topo, di trovare quell’assassino a pagamento. E lei l’aveva trovato. L’aveva seguito per settimane, senza che lui se ne accorgesse. Una ragazza in gamba. Ma non era una sognatrice, nemmeno con un Ter’angreal, e non aveva ottenuto le prove definitive. Così l’aveva circuito e aveva ottenuto la sua fiducia. E molto di più. Aveva fatto in modo che lui si innamorasse di lei, così da indurlo a confidarsi.
Che stupido! Cosa non possono fare un bel paio d’occhi.
Non avrebbe mai voluto farlo, ma fu costretto ad ucciderla. Quando sentì il suo corpo abbandonarsi, dopo che le ebbe tagliato la gola, una parte di lui morì con lei.
Si alzò di scatto. Non voleva pensarci, non voleva pensarci mai più. Aveva bisogno di distrarsi. E magari anche di riempirsi le tasche di monete, così da non aver bisogno di lavorare per un po’. Sentiva il bisogno di smettere di uccidere, per qualche tempo, doveva far sparire il Topo, ma per farlo aveva bisogno di soldi. E per svuotare la testa e riempire le tasche non c’era niente di meglio di un tavolo, dei giocatori e un mazzo di carte. Sentiva, quella sera, di avere dalla sua una buona dose di fortuna, nonostante tutto quello che era successo; era un pensiero strano, ma si sentiva fortunato. Osservò la camicia, la macchia di sangue non era troppo evidente, avrebbe potuto spacciarla per una macchia di vino. La indossò, anche se era ancora umida. Guardò la giubba ma quella no, non poteva utilizzarla. Pazienza, ne avrebbe fatto a meno.
Scese nella sala comune dove trovò un solo tavolo di giocatori, in un angolo. Erano già in quattro, ma si avvicinò ugualmente, con finta noncuranza, non prima di aver preso un boccale di birra dal vassoio della cameriera che gli passò accanto. La ragazza gli rivolse un’occhiataccia: la birra non era per lui. Jake le rivolse uno dei suoi sorrisi sornioni e la ragazza arrossì, ma non fu una cosa che Jake notò: era già concentrato sul tavolo dove i quattro stavano giocando al Gatto Nero.
Osservò la partita, leggermente in disparte. Uno dei quattro era stato spennato per bene: era evidente dallo sguardo fisso sulle poche monete ancora davanti a lui; un paio di mani e avrebbe lasciato il tavolo. Il tipo alla sua destra era, certamente, quello che aveva avuto la maggiore fortuna. Gongolava e ridacchiava in continuazione, anche un idiota avrebbe capito che aveva in mano delle ottime carte. Si avvicinò alla finestra posta accanto al tavolo, fingendo di osservare la strada sorseggiando la birra, ma con la coda dell’occhio scrutò l’uomo: aveva due borse in pelle discretamente gonfie di monete. Aveva trovato il suo pollo.
Gli piaceva il Gatto Nero, un gioco di pura fortuna. E bluff. E Jake era bravo in entrambe le cose. Continuò a sorseggiare la birra fingendo di osservare la pioggia scendere in strada, ma attendeva il momento in cui il tizio messo male avrebbe abbandonato il tavolo.
Non dovette attendere molto: un paio di mani e l’uomo rimase senza monete. Si alzò tra le proteste degli altri tre giocatori, che non potevano proseguire senza un quarto. Ovviamente chi protestò maggiormente fu il tizio che aveva vinto quasi tutto. Jake sogghignò, era arrivato il suo momento.
“Dai, Carl, non te ne andare! Vedrai che la fortuna gira e la prossima mano sarà quella buona!” stava dicendo il tizio sogghignante a quello che aveva appena spennato. “Senza il quarto dovremo smettere anche noi”
“Se non ci sono problemi, il quarto posso farlo io” Jake intervenne come se fosse una decisione presa all’improvviso, ma impercettibilmente mosse la borsa contenente il suo denaro, una quantitativo abbastanza consistente.
L’uomo di nome Carl si allontanò alla svelta, visibilmente sollevato, mentre gli altri facevano segno a Jake di sedersi.
“Allora, amico, a cosa preferisci giocare?” gli chiese il tizio ghignante
“Scegliete voi, a me basta solo distrarmi un po’. Sapete, le donne! Farebbero ammattire anche un santo!”
“Oh sì sì, le donne, sono nate solo per creare problemi agli uomini!”
Jake voleva metterli a loro agio, fare in modo che fossero tranquilli. Così li avrebbe spennati meglio.
Osservò la sua vittima prescelta. Era tarenese, dalla pelle non troppo scura. Probabilmente un mercante, poiché non aveva inserti colorati nelle maniche a sbuffo. Ed era grasso, i bottoni della giubba sembravano sul punto di esplodere da un momento all’altro. Disse di chiamarsi Juilin. Un nome buffo, pensò Jake, per un omone di quella stazza.
Juilin prese il mazzo di carte e iniziò a mescolarle, osservando Jake. Probabilmente il mazzo era il suo e si aspettava che il nuovo arrivato pretendesse di utilizzare un mazzo di sua proprietà. Jake attese serafico che Juilin distribuisse le carte. L’uomo sembrò contrariato del fatto che Jake non protestasse, ma si limitò a distribuire 13 carte a testa. Le prime due mani Jake giocò in modo conservativo, non voleva vincere, ma nemmeno perdere tutto. Poi iniziò a sentire la fortuna che gli sorrideva; era una sensazione fisica, come un brivido sotto pelle. Iniziò a vincere, una partita dopo l’altra. Per non dare troppo nell’occhio dovette forzatamente perderne qualcuna, ma non fu affatto facile.
“Per la Luce, amico mio! Hai la fortuna del Tenebroso!” esclamò ad un tratto Juilin
A questa affermazione gli altri due si mossero leggermente a disagio sulla sedia. Portava male nominare Shai’tan, lo sapevano tutti, persino i bambini.
“Non diciamo sciocchezze! È solo che questa sera gira bene!”
Un altro paio di partite e perfino Juilin aveva perso il sorriso, nonché più di metà delle monete.
Jake, osservando la borsa di pelle, ormai piena, decise che per quella sera era il caso di smettere. Aveva già in tasca il denaro necessario a sopravvivere svariate settimane.
Decise di perdere un paio di partite prima di lasciare il tavolo, ma senza puntare troppo.
Quando ebbe lasciato agli altri un paio di marchi d’argento, finì la birra e si alzò.
“Signori, mi piacerebbe continuare, ma i miei occhi cominciano a confondere le carte”
SI alzò dal tavolo, prese la borsa con le monete e si diresse verso la stanza.
Adesso che aveva denaro a sufficienza, doveva capire cosa fare di sé, del Topo e della sua vita.

   
 
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