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Autore: CupOfEternitea    06/08/2015    1 recensioni
L'infinito che lotta ingabbiato tra le ossa e che pian piano si spegne.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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COSA RESTA

Si giocava ad essere adulti,
stesi tra le cicale ed il cemento.
Distesi troppo vicini, tossivo il fumo delle tue sigarette,
poi ti prendevo le mani e vi affondavo il viso.
In fondo, era buono il profumo del tuo vizio.
Sotto la cenere, odoravamo d’incoscienza:
rubavamo ore alla notte perdonandoci a vicenda
per quel reato rimasto impunito.
«Questa è l’ultima volta», dicevo;
«Non ci cercheremo più», scrivevi;
e ci trovavamo ogni volta lì, con la sfida tra le ciglia,
ad intimare all’altro la ritirata.
Non parlavamo mai,
strano compagno di notti in fuga dal silenzio.
Posavi il capo sul mio grembo
e chissà a cosa pensavi,
a cosa pensavo, mentre affondavo le dita tra i tuoi capelli,
compagno di viaggio su un binario lontano dal mio.
Non avevamo nulla da darci,
nulla da dirci;
mentivamo in silenzio per essere più veri.
È a te che torno con la mente:
non era quello il momento,
l’apice del nostro fulgore?
Sciogliere i capelli e bagnarsi d’euforia
e lasciar correre le ore per il gusto di gettarle al vento;
leccare dalla propria pelle il sapore della notte
e trattenerlo contro il palato fino al mattino;
frugare tra le stelle e affondare
in quelle acque nere d’ignoto,
la schiena sull’asfalto,
l’infinito che lotta ingabbiato tra le ossa
e che pompa sangue
a gote arrossate
a mani pallide
che danzano sotto i lampioni
e dipingono contro il cielo speranze e visioni.
Regalarsi bugie
leggere come l’aria,
liberarle nel vento
e seguirle col naso all’insù per vedere fin dove arriveranno.
Giocavamo a cercarci
e scoprivamo noi stessi.

La caduta fu violenta, strano amico.
Succede, quando cammini in punta di piedi
sul ciglio del risveglio.
Due solitudini che si allontanano,
la mancanza di un odore,
e ci si ritrova a inciampare nel silenzio,
ad ascoltare se stessi.
Rimasta senza un complice,
esplorai da sola i limiti dei miei sensi.
Mi bagnavo la ferita
di lacrime salate
e attendevo che bruciasse.
Il piacere della pena:
affondare la lingua nella carne viva
e scoprire, con quella fragola rossa,
il succo caldo, vivo, dolcissimo
di un cuore che batte.
Bere la mia stessa vita e non esserne mai sazia.

Cosa resta di quell’estate, amico perduto?
La memoria
di un viso più bello e più fresco
che sbiadisce nello specchio,
vinto dal tempo
e da incontri alla luce del giorno;
forse una punta di quell’orgoglio
che accompagna le bravate di gioventù.
L’odore di sigaretta mi strappa una smorfia.
Il pensiero di polmoni grigi
e giorni che sfuggono
ad ogni boccata d’aria viziata.
Cinture di sicurezza
e foglietti illustrativi pronti all’uso
in una borsa troppo grande
e troppo piena
di dieci anni di lezioni acquisite
a fare da zavorra.
Accarezzo le cicatrici con le labbra e lecco via la pelle morta.
Sulla lingua il sapore della polvere.
  
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