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Autore: ENS 2    07/08/2015    0 recensioni
[FE8] Un pomeriggio di noia, Joshua sfida Marisa ad una scommessa. Il vincitore scieglierà per l'altro un qualsiasi membro dell'esercito per un appuntamento.
Genere: Comico, Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era una giornata tranquilla, per una volta. L’esercito di Renais era accampato in qualche simpatica cittadina di cui Marisa non si era curata di sapere il nome, ed invece di sanguinare ed affrontare le truppe di Grado o mostri non morti di chissà quale divinità maligna, come ogni altro giorno, i suoi soldati si riposavano. Eirika (leggasi: Seth) aveva fatto fermare lì la marcia per approvvigionarsi.
Marisa era molto contenta di ciò, anche se non lo dava a vedere. I suoi piedi pure.
La donna stava passando il suo tempo seduta ad un tavolo, nella sala comune dell’orrido casermone che Eirika aveva preso per le truppe. Essendo quello del tanto sospirato tempo libero dopo mesi di battaglie incessanti, ovviamente oltre a lei non c’era nessuno: erano tutti fuori per la città.
Questo non dava fastidio a Marisa, anzi, era proprio ciò che desiderava. Nonostante vivesse per la battaglia persino lei si era resa conto di aver bisogno di un paio di giornate per riprendere il fiato. Non vedeva cosa ci fosse di sbagliato nel passarle seduta, in una stanza vuota e con la testa poggiata sul tavolo. Lei lo trovava ottimale.
Era in quella posizione da quella mattina presto: l’abitudine di svegliarsi prima degli altri per allenarsi si era fatta sentire. Appena svegliata si era subito catapultata da quella dannata camera che condivideva con Thethys e Tana, che avevano parlato di cose risibili per tutta la notte. Scesa in sala comune si era piazzata al tavolo ed aveva poggiato la testa. Si era preparata a quello dal giorno prima, fin da quando era passata per la sala comune per andare nella sua stanza: fin da subito aveva localizzato il tavolo e trovatolo ottimale per passarci il tempo aveva pianificato ciò che avrebbe fatto il giorno dopo.
Certo, essendosi svegliata prima di quasi tutti gli altri, aveva dovuto sopportare per l’intera mattina gente che passava per la sala comune dopo essersi svegliata. A parte un paio di bisbigli strani e magari un paio di risolini, nessuno aveva importunato la tipa con la faccia sul tavolo. Ewan aveva tentato ti tirarle una ciocca di capelli, ma lei l’aveva contrattaccato con uno scatto felino.
Passarono le ore, il mattino era finito. Marisa era rimasta nella stessa posa, seduta al tavolo con la faccia poggiata, per almeno sette ore. Cominciava a sentire un certo formicolio alla schiena ed alle cosce, ma lo ignorò. Ormai gli altri dovevano essere fuori per locali a pranzare. Lei non aveva fame.
Marisa udì dei passi dietro di lei. “Oh, buongiorno.” Sbadiglio. “Ci divertiamo, eh?”
Lei non si preoccupò neppure di muoversi: era solo Joshua che ovviamente si svegliava ad un’ora scandalosamente tarda.
Sentì una ciocca di capelli tirare, scattò verso di lui ma non riuscì ad afferrarlo.
“Diamo segni di vita.”
Marisa cercò di non sembrare irritata. Tra l’altro la sua schiena, finalmente libera, stava cercando di ucciderla per il movimento improvviso. “Dov’è il tuo cappello?” chiese. Joshua non lo stava indossando, non l’aveva mai visto senza.
Quello si accarezzò i capelli liberi. “Ewan. Mi ha lasciato un biglietto.” Lo fece per passarlo a Marisa, ma lei non lo guardò neppure.
Invece, la donna tornò alla sua posizione originaria, il viso voltato contro il tavolo. Ora anche le cosce si erano unite alla schiena.
“Non fai niente oggi?” chiese Joshua.
“No.”
“Perché?”
Marisa aprì la bocca, rimase senza parole, e la richiuse. Alzò la testa dal tavolo vagamente stordita, poi guardò lui e disse: “… Non lo so.”
Joshua si sedette davanti a lei. Lei sentì un moto di stizza a dover condividere il suo tavolo. “Allora facciamo una piccola scommessa, che ne pensi?”
“Praticamente sono l’unica cui non l’hai chiesto nell’armata. E Seth. Tutti sanno che bari. No.”
Joshua perse il suo controllo ed i suoi occhi sgranarono, ma cercò di salvarsi: “D’accordo, mi hai preso. Diciamo che vinci a tavolino.” Si alzò e si avviò verso l’uscita. “Allora io vado, eh. Magari vado a farmi una pinta di birra con Gerik e la sua amica. E Tana, magari. Sono io strano, o Tana è sempre ovunque?”
Marisa improvvisamente non voleva restare di nuovo sola. Il tavolo non le sembrava più tanto invitante. “Aspetta!”
L’altro si voltò verso di lei. Stava forse ammiccando? “Sì?”
Lei si mise eretta, per dare una parvenza di conversazione, nonostante il suo corpo la stesse odiando intensamente in quei momenti. “… Facciamo un gioco.”
Joshua tornò sulla sua sedia in un battito di ciglia. Con un’espressione alquanto turbata. “Non l’hai davvero detto.”
“Ho detto: facciamo un gioco.”
Joshua sorrise.
Marisa si guardò per un attimo attorno, smarrita, chiedendosi che cosa stesse facendo, ma riprese la concentrazione. “Allora, io tiro il dado.”
“Non ho mai giocato a dadi con voi. Sempre la moneta.”
“Ah.” Marisa aveva incontrato un ostacolo, ma si riprese subito. “Allora, passami la tua moneta.”
Il sorriso di Joshua si tramutò in un ghigno. “Vedo che qui vogliamo avere il denaro in mano prima di vincerlo.”
“Cosa? Io voglio solo la tua moneta.”
“Non dovresti chiedere la moneta di un uomo così facilmente.”
“Ma ho visto Tethys farlo spesso.”
“Te lo spiegherò quando sarai più grande, bimba.”
Marisa sbatté il pugno sul tavolo, arrabbiata. “Ora basta! Piantala di girarci intorno e farci battute. Ti ho chiesto la moneta, e tu dammela.”
Joshua alzò le mani stupito “Va bene, va bene… Dei, non hai proprio pazienza.”
“No.”
Le passò la moneta. “Testa o Croce?” chiese Marisa.
“Aspetta, che mettiamo in palio?”
Bravo, vedo che hai studiato” disse lei, cercando di non dare a vedere che si fosse scordata, riciclando una frase che aveva sentito Saleh usare spesso con Ewan.
“Non ti seguo più, bimba, ma va bene.” Joshua si stiracchiò. “Io direi di non puntare denaro: alla lunga diventa noioso. Che ne dici di qualcosa di un po’ più personale?”
“Cosa c’è di più personale del denaro?”
Joshua perse il suo controllo. Di nuovo. “Ma proprio adesso mostri il tuo lato avaro?”
“Joshua, perfavore.”
“Comunque, diciamo che non vogliamo puntare denaro, va bene? Che puntiamo?”
“Chi vince sceglie per l’altro un appuntamento con chi vuole.”
Joshua quasi si ribaltò, ma Marisa gli afferrò la mano in tempo. “Ma cos- come ti è venuto in mente? A te!” chiese sconvolto.
“Notte passata con Tana.”
“Ah, Tana” lui comprese. “Beh, non mi sembra una cattiva idea, bimba. L’hai proposta tu, poi… Perché l’hai proposta tu?”
Marisa alzò le spalle. “Sembra divertente cacciarti nei guai.”
“Apprezzo l’onestà. Croce. Tira, dunque.”
Marisa tirò. E sbiancò, atterrita solo come lo era stata l’ultima volta la notte prima, quando Tana aveva tentato di farle indossare il suo reggiseno.
Joshua ghignò, cercò di flipparsi il cappello ma rimase fregato poiché non l’aveva. Non aspettò alcuna parola da Marisa; disse soltanto: “Gilliam.”
 
 
Il giorno dopo, Tethys, Gerik, Saleh, Ewan e Joshua erano nascosti in un cespuglio. Era un cespuglio molto stretto.
“Che cosa stupida” disse Saleh.
“Non parlare a voce alta, Saleh, che ci sentono!” disse Tethys.
Il suddetto cespuglio dava su un piccolo ristorantino con tavoli all’aperto. Non aveva molti clienti al momento anche se era ora di pranzo e dal cespugli si aveva una perfetta visuale di una specifica coppietta. Erano Gilliam e Marisa.
Si erano entrambi preparati per l’occasione: Gilliam indossava una camicia nera con cravattino; Marisa portava quello che indossava di solito, che come per tutti i mirmidoni di FE è qualche roba in seta aderente che fa stile.
C’era parecchio silenzio tra i due, mentre spiluccavano l’antipasto. L’imbarazzo si sarebbe potuto tagliare a fette ed entrambi avevano la faccia arrossata dall’imbarazzo.
“Oh, che dolci” sussurrò Tethys.
“Questa è proprio una giornata da ricordare” sghignazzò Gerik.
“Prego, le donazioni dopo.” Joshua li stava spiando con un cannocchiale.
Marisa portò lentamente la forchetta al piatto da portata dell’antipasto, solo per vedere che era rimasto un singolo pezzo di prosciutto. Si bloccò.
“Oh, prego, prendilo pure” le disse Gilliam con un sussurro mozzato.
Marisa arrossì ancora di più: “… No, no. … Prego, è tuo.”
“E’ solo un pezzo di prosciutto, ed è l’antipasto. E’ tutto tuo, davvero.
“Oddei, sono così impediti” mormorò Gerik.
“Ma io…” fortunatamente furono interrotti dall’arrivo del cameriere. Che portava un solo piatto. “Ci dispiace per il disturbo, ma l’ordine del signore sarà pronto in un paio di minuti. Scusateci.” Servì Marisa della sua pietanza, prese il vassoi dell’antipasto con ancora la fetta di prosciutto contesa e se ne andò.
Marisa fissò il suo piatto, poi l’assenza di quello di Gilliam. Non ce la fece a guardare anche i suoi occhi: arrossì pesantemente con un’espressione imbarazzatissima. Prese a fissare le posate mestamente.
“Oh no, è la fine” disse Tethys. Intanto Ewan si era appropriato del cannocchiale di Joshua.
Marisa fissava intensamente la sua forchetta, senza muoversi di un millimetro e diventando sempre più rossa.
“C-cosa fai, non mangi?” balbettò Gilliam.
Rantoli soffocati da parte di lei.
“Guarda, sembra buono… Il mio piatto sta arrivando, non è un problema.”
Marisa sollevò faticosamente lo sguardo sul piatto, sollevò la forchetta e la affondò nel suo pasto. Era uno stinco di maiale.
Tethys si mise le mani nei capelli.
A Marisa sfuggì la presa dalla posata per l’imbarazzo e nascose le mani sotto il tavolo, dove potevano torcersi furiosamente senza preoccupazioni.
Ma Gilliam, essendo un uomo tutto d’un pezzo, seppe riprendere la situazione in mano: “Quindi… Un po’ inaspettata questa tua richiesta d’uscire.”
“… Sì.” Marisa alzò lievemente gli occhi.
“Sai, mi chiedevo perché…”
La donna cercò di nascondere il profondo respiro che prese ed alzò lo sguardo sugli occhi dell’altro. Disse piano: “Io… avevo voglia di uscire.”
“Ah sì, ti avevo notata su quel tavolo. Immaginavo ti stessi annoiando.”
Cercando di non tornare ammutolita per quell’accenno al tempo passato col tavolo, lei continuò il discorso: “Avevo voglia di uscire, ed ho pensato a te, perché… perché…” la imbarazzava terribilmente dirlo “Mi sembravi un po’ solo anche tu.”
Gilliam aggrottò la fronte. “In effetti hai ragione.”
“Ti ho sempre visto un po’ in disparte, così ho pensato che potessimo farci un giro insieme. Non abbiamo spesso il giorno libero.”
“Hai una bella voce: dovresti parlare di più.”
Il rossore che era lentamente andato via dal viso di Marisa tornò prepotentemente. “Grazie” mormorò lievemente.
Nel frattempo Joshua si era riappropriato del suo cannochiale. “Sono io, o Gilliam se la sta lavorando?”
“Quell’uomo è segretamente uno sciupafemmine” disse Gerik.
Il cameriere arrivò con il piatto di Gilliam. I due presero a mangiare senza scambiarsi altre parole, ma visibilmente più a loro agio.
“Hai visto la settimana scorsa Ross e Innes?” Gilliam intavolò il discorso dopo aver ingoiato un boccone.
Innes si stava tranquillamente facendo gli affari suoi quando all’improvviso Ross era sbucato e l’aveva sfidato ad una gara di sguardi. Innes non aveva potuto rifiutare.
“No. Tethys me l’ha raccontato, però.”
“Peccato, ti sei persa un grande spettacolo.”
“Davvero ha perso dopo sette minuti?”
“Sì, io c’ero, sono davvero durati così tanto. Poi Innes ha avuto un crampo ad una palpebra, anche se non credo possano esistere, ha fatto un balzo ed è crollato.”
“No, ma dai, io credevo che Tethys stesse ingigantendo la cosa.”
“Il giorno più divertente della mia vita.” Gilliam sorrise, portando anche Marisa ad incurvare all’insù le labbra.
Non essendo esattamente delle dame a tavola, tutti e due, i loro pasti erano già finiti.
Il cavaliere si pulì la bocca con il tovagliolo. “Questo posto cucina davvero bene. Come lo conoscevi?”
Quel posto glielo aveva consigliato Joshua. Ed all’improvviso Marisa ricordò che lei era lì solo per una stupida scommessa, niente di più, niente di meno. La sua espressione improvvisamente turbata fu notata dall’altro: “Marisa, cosa c’è?”
“Niente” cercò lei di non dare a vedere il suo rimorso. Ora avrebbe dovuto mentirgli su come conosceva il ristorante. E mantenergli nascosta la verità sul perché fossero davvero usciti, come aveva appena fatto poco prima. La punse il rimorso.
“Senti Gilliam, il ristorante…”
“Era una una stupida scommessa di Joshua.” Gilliam le sorrise tristemente, mentre lei sbarrava gli occhi.
Non sapeva che dire. Era talmente rossa che si sentiva accaldata, ed avrebbe voluto semplicemente svanire. Passarono gli istanti, un’eternità per Marisa.
“Me l’ha detto Gerik.”
“… Lui sa?”
“Sì, credo che Joshua si sia portato un bel po’ di gente a godersi lo spettacolo.”
Marisa prese ad inspirare ed espirare per cercare di riprendere la calma. “Vedi Gilliam, mi dispiace.”
“Non preoccuparti. E’ stato un pranzo carino. Non ho spesso l’occasione di mangiare con una donna così bella.”
“Che si stanno dicendo?” si chiese Tethys.
“Pare che ci sia una certa complicità.” Gerik ghignava misteriosamente.
“Lei vuole il suo pene” disse Tana.
Tutti gli altri abitanti del cespuglio sobbalzarono scioccati.
“Da dove sei sbucata?!” chiese con gli occhi sbarrati Joshua.
“Sono sempre stata qui.”
“Impossibile!”
“Oh, sì.”
“Non mi adulare” rispose Marisa a Gilliam cercando di nascondere un sorriso.
“Le adulazioni sono da uomini faceti.” Le accarezzò gentilmente una mano. “Marisa, il nostro appuntamento non è ancora finito. Il giorno è giovane.”
Lei fissò attentamente la sua mano sulla sua. “Vero.”
 
 
Il giorno dopo, Marisa era felice. Si alzò presto, ma non troppo. In sala comune salutò chi ci trovò, spaventandoli per la sua improvvisa socialità. Ewan fuggì dalla stanza. Fuori in strada, inspirò allegramente l’aria fresca del mattino. Sorrise. Poi venne colpita violentemente sulla nuca e fu buio.
 
 
Marisa si risvegliò dolorante, la vista appannata. Percepì di essere seduta e legata. Dopo pochi secondi capì di non avere la vista appannata, ma di non vedere nulla: poteva sentire la benda sugli occhi. Ora era incazzata.
“Non urlare: nessuno può sentirti.” La voce era comicamente bassa e camuffata.
“Non ne avevo intenzione.”
Ricevette una frustata improvvisa sulle cosce. Era dura, lo schiocco secco. Probabilmente vibrata con una cinta di cuoio. Marisa non emise un suono nonostante il dolore, solo le labbra si incurvarono e i denti strinsero. Il suo aguzzino le girò lentamente attorno, come se la stesse studiando. Lo percepiva chiaramente dai passi. Dei passi leggeri e ritmati.
“Sai, quasi mi dispiace” l’aguzzino iniziò il suo discorso “ma quando ci vuole, ci vuole. Non si possono mica avere puttanelle come te fare quello che vogliono, vero?” Marisa stava a malapena ascoltando: era concentrata sul dolore e ciò che aveva attorno. “Ma a volte, si deve intervenire quando una di voi guarda troppo in alto.” Un’altra cinghiata, il bruciore le prese la schiena. Altri passi. “Sai cosa hai fatto?” Un colpo sonoro colpì una gamba della sedia. Se l’aguzzino credeva di poterla intimidire così, allora era già finita. Marisa sorrise. Ebbe appena il tempo di sentire che la cinghia tintinnava che il colpo seguente la sferzò sulla bocca, due volte più violento: doveva essere stata raddoppiata. Ora le colava il sangue dalle labbra spaccate e non sorrideva più.
“Sai cosa hai fatto?!” Questa volta la domanda fu urlata, la voce inspessita che si faceva gutturale.
Marisa non sorrideva più semplicemente perché non vedeva alcuna utilità nell’irritare il suo torturatore. Ma non poteva avere paura di qualcosa così ridicolo.
Un’altra cinghiata sulle cosce, sempre doppia, ed un’altra, e un’altra, sferzate con furia e velocità. Marisa corrugò le labbra sanguinolente in una smorfia colpo dopo colpo, sempre più rosse, come ormai doveva esserlo il punto dove era stata colpita. Bruciava dolorosamente.
“Le puttanelle come te” i passi ripresero, ritmati, pacati “non dovrebbero neppure dover pensare a cose del genere, eppure, tu l’hai fatto. Potrei quasi capire, eh. Quasi. Lui è un uomo magnifico.”
Le cinghiate furono rinnovate, sulla schiena, due. Marisa fu grata di avere il tessuto a smorzare l’impatto.
“Gilliam” disse l’aguzzino. E Marisa quasi perse la calma dalla furia. “Lui non è un uomo per puttane come te, sai. Eppure tu ci hai provato comunque. Non ti vergogni nemmeno un po’?”
Marisa non poté fare a meno di rispondere: “Ma che cazzo stai dicendo?” Sputò uno schizzo rosso.
Una nuova cinghiata, data con un grugnito appassionato, sul petto. Il dolore fu atroce.
“Non ti permettere! Non ti devi permettere! Lui è il migliore degli uomini, e tu non lo meriti! E non ti devi avvicinare!” La voce camuffata si faceva sempre più distorta e gracchiante. “Puttana!” Cinghiata. “Puttana!” Cinghiata. Sempre più violente e date con meno calma, l’aguzzino provava sempre più gusto. Poteva capirlo dalla sua voce.
“Ti troverò” disse Marisa calma. Provava dolore, ma nessuna paura.
“Parole tristi ed abusate, degne di una puttanella come te.”
Marisa udì qualcosa affilarsi.
“Ora mi diverto.”
 
 
La sera di quello stesso giorno, Marisa fu ritrovata nel suo letto. Ed in quello di Tana. E di Tethys. Anche sotto, e fuori dalla stanza.
I funerali si svolsero il giorno dopo, di pomeriggio, poco prima che l’esercito si rimettesse in marcia per la guerra. Fu un evento semplice, con i suoi commilitoni presenti e Natasha ad officiare. C’era un grande dolore in tutti; non si capacitavano di come fosse potuto accadere, la guardia cittadina aveva anche collaborato per tutta la notte precedente con dei volontari, ma nessun colpevole era stato trovato. Tra chi la conosceva bene e chi magari avrebbe voluto si scambiavano sguardi addolorati, gli occhi mesti sulla bara che veniva calata sottoterra. Gerik fece un piccolo discorso, ma verso la fine perse il filo di ciò che stava dicendo e si limitò ad andare via, in silenzio.
Eirika si era ripromessa di mostrarsi forte.
Finita la funzione, lentamente tutti iniziarono ad andarsene, tra chi doveva imballare rifornimenti e chi aveva da scrivere documenti. Tra i pochi che si soffermarono più a lungo, Gilliam. Il suo sguardo era indecifrabile, fisso sulla lapide che spuntava dalla terra fresca, spalata da poco. Non aveva alcuna remora nel piangere, e lo fece. Nascondere le proprie emozioni era da uomini fragili.
Una mano gli batté una pacca sulla spalla. “Ci si vede, eh.” Era Joshua.            Si voltò e andò via. Era pallido.
Poi un braccio si strinse attorno alle spalle di Gilliam. “Gilliam, andiamo, su.” Era Syrene. Lo sguardo profondo di quegli occhi compassionevoli lo calmava. “Non c’è più nulla da fare: lasciamo i morti ai ricordi felici.”
“Grazie, Syrene.”
La donna gli passò l’indice sulla mascella, sorridendo dolcemente.
I due, vicini, si avviarono verso l’uscita del cimitero, via da quel che restava di Marisa e di una speranza neppure attecchita. Al suo fianco, Gilliam non poteva notarlo, Syrene sorrideva.
  
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