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Autore: Blacket    08/08/2015    6 recensioni
[...]Gli dissi che pioveva e la mia voce strinò, lo chiamai fratello e Impero, e dalla cattedrale giunse tetro il mio respiro morso dalla bile.
Alzai le mani, non lo toccai più.
Mi sarebbe piaciuto farti riposare fra i boschi, aggiunsi, là dove il verde avrebbe coperto il tuo volto livido e l’espressione sofferente, il corpo tempestato di piaghe e malattia. Ricordai il volto teso ed il biondo del grano maturo, il sapore del sangue che aveva sempre fra le labbra- se ne lamentava.
Non lo toccai più. [...]
"Dove vai? Di nuovo la bruma?"
|COMPLETA|
Genere: Angst, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In quei dì di bruma Note: la fanfiction è composta da due capitoli. Era una OneShot, in origine, ma ho deciso di spaccarla in due per un motivo molto semplice. Volevo dare due sensazioni diverse -molto diverse, e volevo che fossero opposte. Mi è parso opportuno, quindi, separare i pezzi.
Pensavo di scrivere qualcosa a proposito della nascita di Ludwig da un po', specie vedendo le vignette dell'autore, e tengo particolarmente a questa fic: fatemi sapere che ne pensate, e nel caso, lasciate un commentino! Mi farebbe davvero piacere.
Tutto ciò che potete notare, come il distacco fra descrizione e dialogo, è assolutamente voluto. Inoltre ho sempre pensato che la Germania e il Sacro Romano Impero non fossero la stessa persona, sono più propensa a credere in una "reincarnazione"- detto ciò, sottolineo solo le scelte dell'autore. 
Buona lettura e grazie in anticipo al lettore paziente che seguirà la storia o la leggerà soltanto, un abbraccio!



In quei dì di bruma


“Latrai come una bestia carica di percosse sino a che il cielo non rispose con la pioggia.
Il male e l’impotenza mi strappavano le membra, e fui così penoso nel distendermi e trattenendo il cadavere di mio fratello in grembo.
Non lo guardavo e avevo ribrezzo e paura, tremavo tentando di scostagli i capelli, ed il suo corpo era infinitamente molle e abbandonato alla morte. L’avevo sulle gambe, ed evitai poi di toccarlo ancora.
Pensai quanto fosse più simile a della legna, e mi rimproverai reprimendo un conato sofferto e prolungato dal troppo tremare e scuotersi e lasciarsi andare a lamenti strozzati ed interrotti dall’affanno.
Gli dissi che pioveva e la mia voce strinò, lo chiamai fratello e Impero, e dalla cattedrale giunse tetro il mio respiro morso dalla bile.
Alzai le mani, non lo toccai più.
Mi sarebbe piaciuto farti riposare fra i boschi, aggiunsi, là dove il verde avrebbe coperto il tuo volto livido e l’espressione sofferente, il corpo tempestato di piaghe e malattia. Ricordai il volto teso ed il biondo del grano maturo, il sapore del sangue che aveva sempre fra le labbra- se ne lamentava.
Non lo toccai più.”


In quei dì di bruma, Gilbert rispettava il silenzio.
Seguiva rituali artificiosi mordendosi le guance, perché lo sguardo di Ludwig pungeva più di una folgore e viaggiava sulla velocità della stessa- con la mente fina che gli avevano donato assorbiva il quotidiano e si stupiva del cambiamento. L’uomo bianco lo sapeva, e fintamente abbracciava sicurezza.
Non che le domande fossero tanto anguste, Gilbert aveva risposto con facilità e forse astenendosi dal mentire; “dove vai? Di nuovo la bruma?”, e il tono di Ludwig lo schiaffeggiava senza rimorso, contento di vederne gli occhi lucidi.
In quei dì di bruma, Gilbert usciva di casa quando ancora l’alba tirava le membra per aggrapparsi alla volta, e spariva nella nebbia col suo silenzio e una mesta bottiglia di Augustiner . La teneva sottobracico e ogni tanto la tastava come incuriosito dalle sue forme, e nulla più. Voltava l’angolo e il fratello lo osservava sparire- avrebbe preferito che gli occhi chiari fossero più acuti per poter seguire la forma rattrappita e il volto accartocciato e animale, avrebbe voluto che trapassassero la nebbia tanto densa da poterla spostare con gesti bruschi della mano.
Eppure non vi era alcuno scontro se non l’insinuazione che quel quotidiano si fosse rotto di nuovo e in maniera tanto insolita, ma non era mai giunta voce, se non un ringhio di bassi toni e frustrazione.
- Gilbert, dimmi dove stai andando.-
Il prussiano strinse i denti e respirò forte, era il cinque novembre del ’93 e la mattina s’annunciava fioca sulle guglie gotiche della periferia.
-Dimmelo. Ora.-
La provincia a sud – giù, nei pressi della Schwartzwald- era verde e fresca; le piante avevano la pretesa di risuonare forti fra i mattoncini del selciato, sui muri dei vicoli e tamburellare più potenti quando divenivano tanto fitte e brune da sembrare nere.
Vicino all’edera serpentina e al muschio poroso, Gilbert tremò tanto da indispettirsi- fu la prima volta che venne bloccato sull’uscio quando novembre aveva già capitolato e in cuor suo quel momento era stato segretamente atteso.
L’uomo bianco decorò il proprio tremore con un sorriso, impugnando con forza la bottiglia di birra, saggiandone il collo con le dita e dondolandola con falsa gaiezza davanti a Ludwig.
-Vado fuori. Un giro.-
“Non è così sciocco”, e sorrise davvero, ed era triste, “Se mi lascia andare è solo perché ha di nuovo forza di chiudere un occhio”.
Strisciò le scarpe pesanti sul pavimento, osservandole e pentendosi di mascherare il proprio disagio tanto malamente, subito disegnando sul volto un broncio d’attesa e nervosismo- piaceva poco a lui e ancor meno al fratello, che stava sfilandosi gli occhiali ed affilando lo sguardo.
-Un giro dove, esattamente?-
Puntò i piedi e gonfiò il petto di tutta la propria testardaggine taurina, presagio nefasto per Gilbert quanto vicini e stretti conoscenti: l’insofferenza li avrebbe portati a respingersi come se fossero coperti d’ortiche e le parole avrebbero avuto la lama acuminata e rovente. Roderich avrebbe sentito l’eco del litigo fra la rete metallica d’una cornetta e a Vash sarebbe bastato drizzar l’udito- Feliciano ne avrebbe osservato gli occhi “tanto scuri, Ludwig, tanto scuri”, e la bella Elizaveta avrebbe fermato le sue mani tremanti.
-Ti ricordavo più riservato, fratellino!- volle un ghigno nodoso ad increspargli le labbra, e la sua lingua biforcuta continuò a galoppare sospinta dagli occhi stanchi ma voraci.
- Non si tratta di nulla di importante, puoi tornare alle tue faccende. So che hai molto da fare-…- e avrebbe continuato, se Ludwig non si fosse alzato e quei suoi vent’anni non avessero preso lo stesso peso che aveva scorto con paura nelle pupille di Vati quando ancora il tempo pareva scandirsi con giusta lentezza. Osservò il taglio del viso “e sarebbe morbido, se non fosse tanto rigido”, la postura affaccendata e la stele fredda che bloccava il passaggio ad occhi tanto malinconici, dai quali avrebbe voluto bere come l’assetato fa al pozzo.
-Gilbert, voglio sapere il perché del tuo comportamento. Credo di averti lasciato abbastanza tempo per farti capire che mi turbi.-
Il suono secco della lingua stridette più del dovuto, venne sputato con l’inquietante pazienza che Ludwig amava tanto accarezzare e rigirare fra le dita, e che perdeva valore se diretta al gracchiare scoordinato del maggiore. L’albino gli serbava spesso amare scoperte festeggiandole con sguardo affettuoso e incomprensibile e talvolta imbarazzante quanto vecchio- pareva aver preso polvere e perso funzionalità.
-Sono affari miei, brüder. – tenne il sospiro a mezz’aria, poiché non sapeva dove altro andare. La bocca si mosse come a voler strinare nuovamente parole più adatte s’un viso comunque storto; si pentì di aver ostentato una difesa tanto asciutta, ma già il legno scricchiolava placido sotto ai suoi piedi e all’espressione cupa, e abbandonò lo sguardo serio di Ludwig.
Ebbe poi le mani sulla porta, fra le pieghe della giacca ed il freddo sulla pelle e le guance rosse dal panico e dalla vergogna- rise di quella sua orribile risata, pensando che le sue gambe lo portavano più alla fuga che alla libertà, si diede dello sciocco per aver voltato le spalle al fratello in modo tanto vile “delle più orribili figure!”, e già la nebbia lo strinse sorniona.
Ghignò e masticò l’aria umida, e sentì bruciare là dove il ferro lo aveva marchiato: immaginò gli occhi di Ludwig puntati alla schiena al fine di trafiggerla, e nelle sue orecchie rimbombava il suono del cannoni d’assalto. Sospirò divertito, ed era nervoso, le mani ebbero un tremito quando si portò la Augustiner alle labbra con l’intento di cavare il tappo coi denti- si tagliò la lingua, e dove vi fu il sospiro s’infranse un fastidioso borbottare.
L’aria era bagnata, e aveva con sé il respiro pesante dell’inverno. La sentì Ludwig fermo sulla soglia di casa, lo sentirono i boccioli dei pini ancora in letargo- si fece udire dal passo scoordinato dell’uomo bianco, dalla Foresta Nera che uggiolava a proposito di burrasca e pioggia.
La Schwartzwald gemette sul sinistro canto dei corvi e mosse imperiosa le radici profonde e spesse- mugolò sofferente, prima di tornare a dormire.


“E tu? Sei forse tu, la Germania?”
Aveva un corpo minuto e camminava sorretto dai suoi fratelli- era biondo ed il volto bianco diveniva rosso, incideva sul marmo come fosse fatto di piume, tanto che nessuno dei presenti avrebbe presentato stupore nel vederlo a camminare a mezz’aria, coi piedi nudi ed il corpo magro già plagiato dal freddo. Era d’oro e di porcellana, e Gilbert si tese verso di lui con stupore e meraviglia, trattenendo il suo cuore furioso.
“Sono io. E tu chi sei?” cinguettava, eppure era etereo e forte, ed il fratello ebbe un dolce moto di commozione nell’udirlo chiaramente; pareva sano e non v’erano piaghe sulle membra nude, al che la Prussia, mesta, sospirò gioiosa.
“Faccio di me lo stato della Prussia”, tuonò con fermezza e togliendosi il giaccone della divisa s’avvicinò gaio al bimbo dagli occhi silvani, temendo di trovarli simili a quelli d’un defunto e tremante impero, “…e tu hai il sangue dei nostri padri, il coraggio e la forza del Reiks.”
Agguantò le pupille chiare con coraggio, coprendolo dalla nudità che pareva imbarazzarlo, trovandole vispe e intelligenti- ruggivano e brontolavano, e già le amava.
“Puoi chiamarmi fratello.” aggiunse, sorridendo tronfio della propria figura, negli occhi e sulle labbra una felicità che sapeva di birra e delle bacche rosse delle sue foreste.
Lo strinse nel cappotto, ascoltando l’ingenua risposta di ciò che era solo un infante, che giunse come poteva farlo il trillo dei campanelli e il pigolare delle rondini.
“Io non so chi tu sia, Gilbert.”

“Mi sarebbe piaciuto farti riposare fra i boschi, aggiunsi, là dove il verde avrebbe coperto il tuo volto livido e l’espressione sofferente, il corpo tempestato di piaghe e malattia.”
  
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