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Autore: Mikaeru    28/01/2009    3 recensioni
Ieri sera ho raccolto un gatto.
Era sotto la pioggia, tentando malamente di ripararsi con le zampe la testolina bionda. Lo so, lo so, non dovrei darmi alla filantropia quando ci manca poco che neanch’io riesca a mangiare; vabbè, mi sono detto, lo metterò a lavorare.
(shounen ai lievemente accennato. In futuro presenza di Alphonse, indi per cui più in là presenza di velato Elricest :D)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ieri sera ho raccolto un gatto.

Aveva un’espressione particolarmente triste sul volto: un misto di rabbia, rassegnazione e dolore. Non potevo lasciarlo lì da solo, assolutamente.

Era sotto la pioggia, tentando malamente di ripararsi con le zampe la testolina bionda. Lo so, lo so, non dovrei darmi alla filantropia quando ci manca poco che neanch’io riesca a mangiare; vabbè, mi sono detto, lo metterò a lavorare. Allungai una mano verso di lui e inizialmente me l’ha graffiata; c’era da aspettarselo, insomma, da un gatto randagio.

Un pregio, o un difetto, di cui mi hanno sempre lodato è la costanza, che qualcun altro tende a tradurre come testardaggine. Che dir si voglia, mi impuntai. Piegai le ginocchia e mi misi a fissarlo.

“Non credi che sarebbe meglio seguirmi, piuttosto che stare qua?”

A furia di sentire la mia voce, le mie proposte – forse per esasperazione, forse sperando di non dovermi sentire per un bel pezzo, che una volta a casa mi sarei occupato della mia vita e lo avrei lasciato stare – si alzò, rivelandosi un gatto di taglia abbastanza piccola. Cominciai a camminare e lui mi seguì, sostenendo un passo ben veloce – di certo non avevo voglia di ammalarmi, sotto quella pioggia insistente; sciocco io a uscire senza ombrello, quando il cielo grigio ben la minacciava, ma non altrettanto stupido da rimanere più del dovuto sotto l’acqua.

Entrò in casa mia dopo qualche sollecito. Si guardò per un po’ intorno, quasi timoroso; ancora pareva che non si fidasse: mi guardava, con espressione corrucciata, come a chiedersi ancora se si poteva fidare di me. Mi fissava, mi fissava, quasi inconsapevole di quanto fosse penetrante il suo sguardo.

Sospirai, osservando quanto ancora rimanesse sulla difensiva, nonostante gli avessi dato da mangiare – e cibo sano, ovviamente, mica avvelenato, o avariato, o chissà mai scaduto. Ingurgitò tutto con fretta, masticando a lungo ma velocemente; sicuramente non metteva qualcosa sotto i denti da giorni – e dallo stesso tempo non vedeva acqua pulita e sapone; bastava dare una seconda occhiata al pelo, biondo ma ben poco lucente.

“Una doccia?”, gli proposi e lui annuì, filando velocemente in bagno, trovandolo ad intuito. Non che fosse difficile, invero, considerate le dimensioni esigue del mio appartamentino. Sorrisi.

Il tempo di lavare, asciugare, riporre piatti e stoviglie, era di nuovo davanti a me, che gocciolava per terra.

“Ehi! Copriti!” – non che fosse un eccesso di pudore, in quanto del mio stesso sesso, ma un’esclamazione dovuta e naturale, in una situazione del genere. Ebbe la decenza di ascoltarmi e darmi retta. Mi guardava, senza proferire parola, con uno sguardo ancora corrucciato, quasi… chiuso, ecco. So benissimo come non si possa definire così un’occhiata, eppure è il paragone più naturale e vicino al concetto che voglio esprimere che possa dire: i suoi occhi, di quel colore così chiaro e bello, erano annebbiati, e chiusi come un cancello. Ovvio, era un gatto randagio.

Tra le zampe aveva un asciugamano – un altro, oltre quello che aveva usato per coprirsi – e se lo mise in testa, facendomi poi qualche cenno. Sbuffai.

“Devo anche asciugarti i capelli?”

Annuì.

Sbuffai di nuovo, quasi divertito dalla situazione. Devo ammettere la sua sveltezza, nel capire la mia indole.

Lo presi per le spalle e lo feci sedere sulla prima sedia che mi capitò tra le mani. Cominciai a strofinargli la testa energicamente, causando più di un lamento.

“Su, zitto, tu hai voluto che ti asciugassi!”

Non miagolò più, limitandosi a mugolare ogni tanto.

“Non parli, eh?”

Annuì.

La mia lingua la capiva. Doveva essere un problema di fondo. Beh, poco male, pensai, avevo trovato un compagno silenzioso. Non educatissimo, ma almeno silenzioso.

Acchiappai una penna e un foglio di carta (di certo non fu difficile, avendo la casa perennemente invasa da certe cose) e glieli diedi.

“Scrivimi il tuo nome, su.”

Aveva una calligrafia dura, molto maschile – nessun fronzolo, semplice, diretta, veloce.

Aveva uno strano cognome.

“Benvenuto in casa Heiderich, Edward Elric.”

 

 

Salve! Sono secoli che non scrivevo QUALSIASI COSA da sola (sì, Miedo – the last chapter, wiii! – è in fase di lavorazione, nel caso ci fosse qualche fan in ascolto!). Beh, questa è una robetta random. Decisamente random.

  
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