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Autore: Bolide Everdeen    12/08/2015    2 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 10, Eaves Isinthaw.]
Evan continuò a parlare:«Senti, Eaves... se io ti raccontassi che stamattina a scuola mi hanno preso in giro perché ho la pelle scura, tu che cosa diresti?»
«Ti direi che tu non hai colpa per avere la pelle scura, e che a dire la verità non è neanche un difetto, e perciò quello a cui le persone ti sottopongono non è un'offesa, ma un pregiudizio. E, se si tratta di persone con un pregiudizio, tu le devi semplicemente evitare e trovare chi ti vuole bene, chi ti accetta come sei.»
«Perché ci sono sempre persone che ti accettano come sei. Me lo hai detto tu, Eaves. E io penso che tu abbia ragione. Non sei solo. Ci sono io, qui con te. E forse vale la pena di affrontare tutte quelle persone per riuscire ad avere anche una sola persona con cui condividere i propri sentimenti, oppure da non ferire, no?»
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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The sunset

La sera calava sul distretto 10. Calava un'altra giornata, calavano di nuovo le occasioni della Terra di rivoltarsi contro di Eaves, verificate in quei giorni in cui il mondo pareva solamente sfumature di odio per una differenza di cui lui non era affatto colpevole. Quello era uno dei tempi in cui gli sembrava che la Terra lo avesse provocato di nuovo, lo avesse schernito contro l'opportunità di avere un futuro, avesse estirpato la sensazione di fortuna nella propria vita. Quello era uno dei tempi in cui l'unica visione concessa dal cielo era un tramonto, senza alcuna emozione ed alcuna speranza, solo un accordarsi ed un discordarsi di colori. Non significava nulla, eppure era tanto ammirato. Per Eaves Isinthaw, seduto in quel momento sulla veranda della sua casa, a tentare di comprendere la ragione di quella riconosciuta “bellezza”, non significava nulla, e ciò che generava la sua rabbia era il fatto che fosse mira di tante lodi, mentre altri dettagli insignificanti, i quali però si sarebbero potuti destare dalle loro ceneri, miseramente, crollavano. Sotto quale peso? Per quale motivazione?

Forse non c'era. Forse era destino. Forse, avrebbe dovuto schivare ogni seguente possibilità di attesa rinchiudendosi nella sua casa, rendendo la sua unica conoscenza del mondo i riflessi delle strade casualmente piombati nello specchio.

Osservò le sue mani, per un momento, per poi ritrarre lo sguardo inorridito dalla sua visione. Eppure, era il suo corpo. Il suo corpo distorto e depistato da ogni probabilità di normalità era il dettaglio del mondo che traeva più divertimento dal raggirarlo. Gambe che lo distanziavano dal mondo, con un'altezza quasi doppia dall'ordinario, uno delle sue braccia più lungo dell'altro, per riuscire ad afferrare un numero maggiore di offese. E dita infinite, tunnel percorsi dalle sue ossa, scavati in quel pallore che costellava la sua pelle. Che schifo. Come mai gli era stato donato questo? E, come mai, nonostante tutto, nonostante lui non avesse mai desiderato quella condizione, la gente continuava ad offenderlo con la loro diffidenza, con le loro smorfie al suo passaggio? Se era per il ripugno provocato dalla sua visione, lui avrebbe contribuito scomparendo, nascondendosi, evadendo dalla sua natura di spirito malvagio che infesta le strade, accrescendo l'orrore in loro.

Così, tentò di localizzare un metodo per riuscire a debellare il suo volto orripilante da quel mondo che, in ogni suo movimento, era nato solamente per manifestare il suo disprezzo. Ce n'era uno, semplice, immediato, efferato. Forse... si sarebbe dovuto adeguare. Proprio in quell'attimo, dalla porta, come un messo del destino, spuntò fuori sua sorella, Evan, trascinando la vivacità delle sue treccine nere e dei suoi profondi occhi color caramello, rilucenti sulla sua pelle scura. Anche lei era stata ripudiata dai suoi genitori, anche lei era stata salvata dalle acque da Deimo Isinthaw, il vincitore di una passata edizione degli Hunger Games, il quale dedicava la sua vita a ripescare gli sventurati figli di parenti separati da ogni affetto ed a insegnargli come riemergere anche in autonomia, in caso di nuova caduta nel fiume. Il suo compito era quello di addestrare lui e i suoi fratelli adottivi per i Giochi, ad affrontare l'ennesima crudeltà che la vita aveva offerto a loro. Eaves non aveva mai compreso con esattezza il motivo delle sue gesta, dato che nessuno dei suoi fratelli maggiori né era stato estratto per gli Hunger Games né si era offerto volontario, però, adesso che concentrava i suoi pensieri su questa luce sfocata... sarebbe stato un modo per ricevere l'apprezzamento di tutto il distretto e dell'intera Capitale, vincere. E perdere... sarebbe stato un modo per non essere mira né della simpatia né del disprezzo. Sorrise, un momento, per la sua idea. Poi, Evan lo trasse dai suoi ragionamenti, con uno dei suoi soliti, frizzanti saluti:«Che cosa stai facendo?»

In un attimo, era seduta accanto a lui. Eaves la squadrò, con una domanda dipinta sul volto: per quale ragione lei non scappava? Eppure, era lì. Tentò di radunare delle repliche accettabili, e rispose:«Guardo il tramonto, Evan.» E poi, lasciò ricadere il suo sguardo verso il terreno.

La bambina, che tale pareva nonostante i suoi dodici anni, annuì, e riparò verso i suoi pensieri per generare altre irriverenze, le quali sfociarono in un semplice:«Cosa c'è che non va?»

Eaves volse il suo viso nella sua direzione, ancora, e decise di pietrificarlo in quella posa, dato che lei gli avrebbe ancora posto domande. C'era qualcosa che non andava? Evidentemente. Però, avrebbe trovato estremamente impertinente manifestare i suoi problemi, in quel momento, soprattutto su Evan, la quale sembrava esente da ogni colpa. Vanificò tutti i suoi pensieri in un ordinario «Nulla» e decise di concentrarsi di nuovo sul tramonto. Che utilità aveva?

«No, c'è qualcosa che non va» replicò lei, provando ad afferrare con il suo breve braccio la spalla del fratello, per poter consolidare la sua attenzione verso di lei.«Spesso, a quest'ora, sei dentro a dare la mano a tutti gli altri per preparare la cena. Invece, ora, te ne stai qui seduto a guardare il tramonto. Cosa c'è che non va, Eaves?»

Il ragazzo non riusciva a comprendere per quale ragione lui non riuscisse a provare irritazione nella forma d'invadenza della bambina, nella sua opera di ferreo convincimento. In ogni caso, era quasi divertito dai suoi tentativi, e forse addirittura lusingato. Perciò, la premiò con una spiegazione concisa della sua condizione, una spiegazione che una ragazzina di una simile età avrebbe potuto comprendere:«Niente, Evan. È che... mi sento un poco inadeguato. Oggi, di ritorno da scuola... mi sembrava che la gente mi fissasse. E mi fissasse in modo piuttosto torvo. Anche sconosciuti, gente contro la quale io non ho fatto nulla. E... ci sono rimasto male, ecco tutto. Non ti devi preoccupare, non è colpa tua.»

«Però è un tuo problema» replicò sveltamente lei, agganciandosi con prontezza alle sue parole, afferrando il suo sguardo prima che si dedicasse nuovamente al tramonto.«È un tuo problema, e tu sei il mio fratellone, e non ti posso lasciare qui a vegetare lamentandoti perché la gente ti guarda male. Accade, e basta. Su, ora andiamo a fare cena!» Accompagnò queste parole con un improvviso scatto in piedi, verso il quale però Eaves si sentì totalmente indifferente. Non sentiva particolare bisogno, per quale ragione si sarebbe dovuto sprecare del cibo donandolo a lui, un essere infimo, un mostro ripiegato nella figura di un ragazzo? «Non ho fame» semplificò il tutto, e rimase lì, a sedere. Dopo un attimo di tentennamento, anche Evan si gettò accanto a lui, tentando di estirpare di nuovo la sua sensibilità. Eaves non poté evitare di classificare la faccenda come totalmente irrilevante. “Accade, e basta.” Ma non accadeva a tutti quanti, era una maledizione scagliata su di lui. E qualche ragione probabilmente c'era. Se era una piaga solamente la sua vista, non avrebbe potuto rimediare nulla.

Evan continuò a parlare:«Senti, Eaves... se io ti raccontassi che stamattina a scuola mi hanno preso in giro perché ho la pelle scura, tu che cosa diresti?»

Il dubbio si concretizzò nella mente del ragazzo, in un attimo in cui si rese conto che la sua reazione sarebbe stata totalmente differente dai consigli i quali si stava ponendo. Però, Evan era giovane, era frizzante, con le sue azioni avrebbe potuto rivoluzionare il mondo. Lui era solamente uno storpio, uno storpio inerte, senza ragione di vita e forse anche senza affetti da poter dissetare. Allora, per quale ragione sua sorella si manteneva accanto a lui? Cosa replicare? La sua coscienza, o meglio, il suo lato più docile, sfociò in un discorso dove la sua impostazione vocale saggia affiorò nuovamente:«Ti direi che tu non hai colpa per avere la pelle scura, e che a dire la verità non è neanche un difetto, e perciò quello a cui le persone ti sottopongono non è un'offesa, ma un pregiudizio. E, se si tratta di persone con un pregiudizio, tu le devi semplicemente evitare e trovare chi ti vuole bene, chi ti accetta come sei.»

«Perché ci sono sempre persone che ti accettano come sei» concluse Evan, affiancandosi ancora di più al corpo di Eaves. Al suo corpo deforme. Come ci riusciva?«Me lo hai detto tu, Eaves. E io penso che tu abbia ragione. Non sei solo. Ci sono io, qui con te. E forse vale la pena di affrontare tutte quelle persone per riuscire ad avere anche una sola persona con cui condividere i propri sentimenti, oppure da non ferire, no?»

In quelle parole, nonostante provenissero dalla bocca di Evan, risuonava il tono di voce di Eaves, i consigli donati da lui in un passato che si era manifestato altrettanto debole e doloroso, e lui si era gettato in un monologo in cui aveva giurato di accettarla, di difenderla da ogni graffio posto per puro divertimento, di insegnarle ad armarsi contro chi l'avrebbe ripudiata. Il loro padre si occupava del lato fisico, ma si sostenevano da loro su quello psicologico. Avrebbe voluto vedere Evan fallire, cadere solo per la mancanza d'istruzione? No, no, assolutamente no.

In quell'attimo, capì che la sua ragione e la sua speranza erano in Evan. Erano in lei, con la sua potente irruenza, che era riuscita persino a penetrate nel suo orrido corpo ed estirpare un sorriso per renderlo migliore, almeno un poco.«Vieni qui» sussurrò il ragazzo, avvicinando la sorella e stringendola, abbracciandola, ponendo uno scudo fra loro e quello che sarebbe potuto essere. Non era solo, e non doveva lasciare lei sola. Non doveva compiere quell'errore. Si sarebbe impegnato per essere uno scalino e non un peso sulle sue gracili spalle, si sarebbe impegnato per scacciare le sue ombre e consolidarsi in una persona migliore.

Ci sarebbe potuto riuscire.

Perché non era solo.

 

Spazio autrice

Eccoci. Nona one shot della serie “500 – Behind the scenes”, che racconta degli scorci di vita o degli avvenimenti importanti appartenenti al passato dei tributi della storia interattiva “500”, la quale racconta gli Hunger Games del 500 dal punto di vista di tutti i tributi (non creati da me, bensì da differenti autori, puntualizzo). È solo la nona volta che continuo con questa spiegazione, ma è per non farsi mancare nulla. Procediamo.

Come certamente avrete compreso, questa storia racconta di Eaves Isinthaw, tributo maschile del distretto 10 (il cui nome si pronuncia “Ivens” ed ha un cognome che mi è costato capitoli di apprendimento per scriverlo correttamente). Lui soffre di questa sindrome, che gli ha rivoluzionato l'aspetto fisico ed anche la vita; infatti lo ha portato a desistere dai suoi propositi ed offrirsi in un momento di impulsività per i suddetti giochi, a diciotto anni. Brutta storia, potrei commentare, ma non è il momento.

Ringrazio chi continua a seguirmi e consigliarmi; ho tentato di non rendere questa storia “deprimente” come le altre, perché, se si evita il vero finale (gli Hunger Games del 500), può essere persino ottimista. Meglio che mi tolga di torno, però.

Alla prossima,

Bolide

P.S.= adesso che ho trovato un titolo, “The sunset” (“Il tramonto”) mi è venuta in mente una canzone degli Imagine Dragons, “Release”, con cui avrei potuto incastonare la storia. Cavolo. Be', non importa. Un saluto.

  
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