I personaggi non mi appartengono, non li
conosco, e spero che nella realtà siano più intelligenti di come li ho resi io.
Ho scritto questa cosa nell’arco di tre
giorni, abbastanza impulsivamente – ho anche usato un pezzo che avrei dovuto usare
nella long-fic che sto elaborando, ma qui ci stava sicuramente
meglio.
Se avete intenzione di leggere, non aspettatevi troppo.
Il titolo è ispirato da un’opera di Renè Magritte, se
non la conoscete, be’ è una pipa con la scritta Ceci n’est pas une pipe.
Leggendo capirete il perché, forse. Se ha un perché.
La citazione è presa da una canzone che con la storia non c’entra niente, ma
quelle quattro frasi ed il titolo secondo me completano la fanfiction.
Se non capite qualcosa, è per dare l’effetto
sfocato della mente di Gerard.
La fine è meno noiosa dell’inizio, lo giuro.
Buona lettura.
:)
Ceci n’est pas une romance.
So
please forgive what I have done
No you can’t stay mad at the setting sun
Cause we all get tired, I mean eventually
There is nothing left to do but sleep
No lies, just love, Bright
Eyes
La maglietta che stava indossando, era nera. Così come i
pantaloni.
E questo era un bene, perché non vedendo le proprie lacrime macchiare quella
stoffa scura poteva provare ad illudersi di stare bene, perché gli sembrava di
piangere meno. E così poteva piangere ancora di più.
La verità era che stava male, molto male. Altrimenti perché cazzo avrebbe
pianto?
Per gioia? I pianti di gioia non esistono. Solo chi è stato infinitamente male
e miracolosamente riesce a salvare la propria vita piange di gioia, e Gerard
non riusciva a salvare proprio un cazzo. Giusto i file al computer, se gli
andava bene.
E poi i pianti di gioia si fanno in compagnia, altrimenti ci si sente stupidi.
E se Gerard era solo come un cactus, su degli scalini, a piangere in silenzio
per non farsi notare – da chi, poi? – significava che tutta ‘sta gente con cui
piangere neanche ce l’aveva.
Perché sì, se nessuno avrebbe pianto per la felicità con lui, chi diavolo
avrebbe consolato un suo pianto triste?
La verità era proprio questa, stava piangendo da almeno dieci minuti, da solo,
e forse non era neanche triste.
Va bene, non scherziamo. Triste lo era, tanto. Ma più che altro era confuso.
Insomma, dopo cinque anni di relazione in cui all’improvviso scopri che la
persona con cui sei stato per una cosa come, appunto, sessantatré mesi non ti
ha mai amato, un po’ male ci stai.
In dieci minuti aveva pensato alle cose più strane, cose che in cinque anni non
avrebbe mai pensato di poter pensare.
Sicuramente, la prima cosa che si chiese fu per qualche cazzo di motivo una
persona che non ti ama dovrebbe mai baciarti una notte contro il muro di un
bar, senza essere ubriaca, senza avere l’intento di scoparti più tardi, senza
che tu sia un bel ragazzo o particolarmente simpatico; se poi cinque anni dopo
salta fuori dicendo che non ti ha mai amato e, per carità, mica è colpa tua. Che
sei solo un povero idiota che – evidentemente – per cinque anni ha ascoltato
solo bugie.
E sì, aveva detto proprio così: “Non ti ho mai amato, Gerard. Lo vuoi capire?
Mai.”
E mai significa che quel bacio, che aveva fatto iniziare tutto – prima
erano solo buoni amici –, non aveva avuto un motivo sensato.
Un’altra cosa rilevante, era che Gerard neanche era sicuro di amarla, quella
persona.
Una piccola cotta l’aveva sempre avuta, e qualche fantasia ogni tanto si era
anche messa a saltare nella sua testa – colpa degli ormoni magari –, ma era da
quando aveva dodici anni che temeva di essersi innamorato di qualcun altro.
Quando sei innamorato di qualcuno da più di dieci anni, capisci che le cotte
sono veramente inutili, e più che altro si tratta solo del tuo cervello che è
stanco di vedere la tua vita sociale morta, sepolta, e già divorata dai vermi.
E fu così che iniziò a piangere un altro po’, e rischiò di singhiozzare più
forte di quello che sarebbe stato opportuno – opportuno? Era su dei cazzo di
scalini, di una casa che neanche era sua, dovevano essere le due di notte e la
luce dei lampioni gli avrebbe difficilmente permesso di riconoscere il corpo di
persone potenzialmente pericolose in avvicinamento.
Pianse perché in realtà dei potenziali assassini non gliene fregava un cazzo, 'ché
tanto pensava di essere morto pochi anni dopo essere nato. E per cinque anni
aveva sprecato il proprio tempo con una persona che non lo amava, e tutti quei
giorni erano stati riempiti solo da bugie. Forse, l’aveva anche tradita un paio
di volte. Magari, nella propria testa – o nel cuore, lo stomaco, quello che
volete – l’aveva tradita anche più di un paio di volte al mese.
Cazzo, un po’ avrebbe potuto provare a sentirsi meno in colpa per non essere
stato l’unico stronzo della relazione, ma era anche arrabbiato perché per tutto
quel tempo si era sentito in colpa a fare certi pensieri, quando la sua
relazione era solo una bugia – perché le cose fatte di bugie sono bugie, no?
Si pulì gli occhi con la maglietta, si asciugò anche la faccia e davvero, non
gli interessava sapere che chiunque, passeggiando alle due e mezza di notte, avrebbe potuto vedere
tutti quei peli scuri che aveva sulla pancia, o gli occhi che brillavano anche
se non per la felicità.
Insomma, la dignità l’aveva persa molto tempo prima – più recentemente,
piangendo sulle scale della casa di Frank.
Sicuramente quell’idiota stava dormendo.
Poi ricominciò a piangere, chiedendosi quale ragione spingerebbe mai qualcuno a
fingere così bene da farti sentire il cazzo di amore che però non prova davvero.
All’improvviso, come in un flash-mob mentale, sbucò
un ricordo, poi un altro, e altri mille, e diventarono millenovecentoventuno
– uno per ogni cazzo di giorno falso.
Un po’ sorrise pensando a quella volta in cui erano andati a pattinare, e lui
era completamente negato per quel genere di cose – anche se aveva delle belle
gambe, e i pattini gli stavano divinamente. Poi sorridendo gli venne da
piangere: quel giorno, cazzo, pensava davvero di essere felice. Anche con il
culo a terra, perché quando hai qualcuno che ti tira su puoi sempre sperare di
alzarti, e la notte non pensi ai lividi sul sedere se hai qualcuno da
abbracciare nel sonno.
In quel momento, seduto lì, si sentiva svuotato, apatico. Non aveva senso
sorridere di un ricordo felice, se non l’avrebbe mai più vissuto, se non
avrebbe mai dovuto viverlo, se si era trattato solo di illusione.
Quasi duemila ricordi che ballavano al ritmo di una canzone che probabilmente
serviva a deriderlo, e in quasi ognuno di quei ricordi erano presenti un paio
di occhi castani che brillavano, e lo scrutavano. E secondo lui brillavano un
po’ troppo per essere disonesti, perché ogni volta che li aveva guardati
sentiva che il proprio sguardo – che quello sì che mentiva – veniva assorbito
da quel marrone, e tutto ciò che riceveva era serenità. Aveva sempre creduto di
essere la causa di quella sensazione – l’amore riesce a fare strane magie.
Era questo che l’aveva fatto resistere cinque anni, dandogli l’illusione che la
bellezza delle proprie menzogne, riflessa in quegli occhi stupendi, in realtà
fosse amore – o potenziale amore. Non si spiegava come, se il proprio sguardo
mentiva, e lo specchio in cui si affacciava non lo distorceva, plasmandolo in
qualcosa di migliore, quei cazzo di occhi castani facessero a guardarlo
trasmettendogli cose belle.
Forse esisteva un principio per cui, ad esempio, un oggetto brutto davanti ad
uno specchio rotto si vedesse bello.
Aveva davvero creduto che i progetti iniziati a fare negli ultimi mesi,
sarebbero poi diventate cose tangibili, traguardi raggiunti.
Aveva davvero creduto di poter dimenticare l’amore per Frank, cambiare i ricordi
del tempo trascorso al suo fianco per illudersi che invece di amore, aveva
provato solo immenso affetto. E che avrebbe provato “solo” immenso affetto –
non tenendo conto del fatto che talvolta l’affetto sincero è più potente
dell’amore fasullo.
Ormai aveva smesso di piangere, ma sentiva di avere il viso umido ed
appiccicaticcio. Si chiese quanto sarebbe sembrato patetico a suonare il
campanello che si trovava a pochi metri da lui, alle tre di notte, con gli
occhi quasi in fiamme. Ma almeno, i pantaloni e la maglietta nera – con la
stampa bianca di una band, non ricordava quale – sarebbero sembrati a posto. Un
po’ sgualciti, forse, ma sicuramente Frank avrebbe notato solamente i suoi
occhi distrutti.
In un’ora aveva provato a cercare tutte le farfalle che avrebbe voluto nel
proprio stomaco per cinque anni, e i sorrisi immotivati di Lyn-Z,
i giorni e le notti passate a credere di amarla e di essere amato.
Ma che senso aveva avuto ricambiare il bacio, cinque anni prima?
Che senso aveva avuto dichiararle un amore spacciato per sincero e sapere di
essere amati?
Che senso aveva avuto costruire un impero di carta insieme, un impero in cui
alla fine nessuno dei due era interessato? Un impero bruciato dalla scia di
fuoco che univa i sentieri di Gerard e di Frank.
Che senso aveva avuto andare a casa sua, quella sera, con del cibo cinese in
una sportina?
Se invece di coccole e discorsi sconnessi aveva ottenuto solo parole
inaspettate, intrise di accecante indifferenza che in fin dei conti serviva
solo a creare ombre che celavano il dispiacere.
E Gerard l’aveva visto, il dispiacere, perché a vivere nell’oscurità come aveva
imparato a fare da tempo, ormai si era abituato a vedere al buio, a scovare le
cose nascoste.
Aveva associato quel sentimento al fatto che chiunque sarebbe stato
dispiaciuto, dopo aver ingannato qualcuno per così tanto tempo.
Una persona egoista sarebbe stata dispiaciuta di aver sprecato così tanto
tempo; una premurosa di averlo fatto sprecare a Gerard.
Ma una egoista non avrebbe mai fatto una cazzata, e una dolce non avrebbe
ingannato nessuno.
E Lyn-Z non era egoista – su questo non c’erano
dubbi, perché poteva anche avergli distrutto un pezzo di vita, ma egoista non
lo era mai stata – ma neanche dolce, e a lui piaceva anche perché era una
ragazza romantica a modo suo.
Quando Gerard nuotava troppo tra le nuvole, lei gli afferrava i piedi e lo
scaraventava sulla Terra. E per questo le sarebbe sempre stato grato.
L’aveva sempre vista come un’amica, in effetti. Non erano fatti per essere una
coppia, non come entrambi avrebbero voluto.
Non tornava, non tornava proprio un cazzo. Altro che conti, era tutta la vita
di Gerard a non tornare.
Aveva passato cinque anni al fianco di una donna che non lo amava, e che
sperava di riuscire ad amare, un giorno. Cinque anni a non capire nulla di sé,
con una donna che avrebbe preferito considerare solo un’amica, cinque anni a pensare
a Frank.
E c’erano stati anche i momenti in cui era riuscito a pensare solo a lei, in
cui si era impegnato ad amarla con lealtà.
Aveva provato ad essere un buon ragazzo, e in realtà spesso c’era anche
riuscito. Ma dimenticando la cosa più importante: amarla.
Un sentimento non si può forzare.
Si tirò i capelli indietro con una mano, e cercò la felpa con lo sguardo solo
perché non fumava da troppe ore, ed il fumo avrebbe potuto smuovere qualche
pensiero nella sua testa, offuscarne un po’, incastrarne altri.
Il fumo prodotto dalla combustione del tabacco rimase sospeso sopra la sua
testa, e più che pericolosamente grigio i lampioni lo facevano sembrare
pericolosamente arancione, come il fuoco.
Voleva riuscire a capire cosa avesse spinto Lyn-Z a
mentire così tanto, e così bene.
Inizialmente considerò il fatto che, come lui, stesse provando a dimenticare
un’altra persona. Magari era lesbica, oppure era da sempre innamorata di un
uomo sposato.
Tenne per buona l’ipotesi dell’omosessualità, ma non era ancora convinto.
Passò una cosa come venti minuti ad immaginare i pensieri di Lindsey, e arrivò a pensare che lei lavorasse per il
Governo – o che fosse un alieno – e che il suo compito fosse stato quello di
scoprire cose sulla sua vita.
Ma anche così, non capiva perché l’avesse lasciato in quel modo, confessando di
non averlo mai amato.
Che poi, erano ancora amici?
Lui le voleva bene comunque. Le aveva sempre voluto bene.
Iniziava a sentirsi meglio, forse aveva capito di essere sollevato.
Cazzo, finalmente non doveva più fingere. L’aveva ascoltata parlare, sentendosi
chiamare “deficiente” più e più volte. Aveva sentito le sue scuse.
E aveva sostenuto il suo sguardo vuoto.
Anche se, ovviamente, nella discussione di quella sera non le aveva detto di
aver sempre amato Frank
Ed eccolo, il senso di colpa, che tornava a galla come una pallina piena d’aria
in piscina.
Però, pensò, il giorno seguente gliel’avrebbe raccontato, e magari avrebbe riso
con lei sulla loro stupidità.
Frank.
Iniziava ad avere molto sonno, e tanto non sarebbe riuscito a produrre pensieri
più sensati.
Si alzò, stiracchiandosi un po’. Prese la felpa per puro caso e si sistemò i
capelli, poi suonò al campanello.
Nel luogo dove si trovava la casa di Frank, era un orario compreso tra le tre e
le quattro del mattino, o di notte. E Gerard pensò solo dopo il terzo
starnazzare del campanello che forse – forse – Frank non aveva ancora
aperto perché aveva il sonno più pesante di sette cazzo di macigni e sì, ecco,
stava dormendo.
Rimase lì comunque, a fissare la porta come considerandola alquanto intrigante.
Era curioso il fatto che dopo la discussione con Lyn-Z
– che era stata veloce, lui non aveva voglia di parlare, basito e senza palle
com’era, e lei non aveva molto da dire – avesse cercato rifugio sugli scalini
di Frank, non a casa propria. E come non l’avesse neanche disturbato,
aspettando l’orario più sconveniente per farlo.
Era lì. A chilometri dalla propria casa, in attesa di vedere apparire quasi per
magia la faccia incazzata del ragazzo per cui provava cose indescrivibili.
Non fu neanche sorpreso quando la porta si aprì, l’unica cosa che lo sorprese
fu la mancanza di fumo e di luci colorate – le apparizioni magiche hanno sempre
le luci colorate ed il fumo.
Si chiese se fosse stato il campanello a svegliarlo, o se Frank semplicemente
sapesse della sua presenza. A volte erano allarmanti, loro due. Più di una
volta avevano palesato casi di telepatia involontaria, si erano incontrati in
luoghi improbabili o si erano chiamati al momento giusto.
“Ehi Frankie. Non è che potrei dormire sul tuo divano? È… complicato, domani ti
racconto.” Chiese Gerard, quasi in un unico sussurro, provando a guardarlo
negli occhi. Si accorse di essere più stanco di quello che avrebbe immaginato,
e non notò i capelli spettinati di Frank, le calze azzurre e la maglietta
arancione.
“Hai pianto.” Rispose l’altro, anche se come risposta non era poi molto
attinente alla domanda.
“Già, non è una cosa molto strana.” Gerard si stropicciò l’occhio sinistro ed
entrò in casa, dirigendosi sul divano senza dover accendere nessuna luce.
Conosceva quella casa quanto la propria, e credo di aver già parlato delle sue
capacità di vedere al buio. “Buona notte Frank.” Si accovacciò sul divano.
“Non devi dormire lì per forza, se vieni su stai più comodo.”
“No, grazie. Ho bisogno di stare da solo. A domani.”
Frank si avviò verso le scale sussurrando “Notte” al nulla, o a Gerard, che si
sentiva come il nulla.
Pensò a Lyn-Z, sapeva che quella notte Gerard
l’avrebbe passata a casa di lei, e aveva avuto difficoltà ad addormentarsi
proprio per quel motivo. Poi, intorno alle tre si era svegliato con i capelli
attaccati al cuscino ed alla faccia, le gambe attaccate tra loro, la maglietta
attaccata al petto. Tutto attaccato da sudore nervoso.
E gli era sembrato di sentire qualcuno piangere, e conosceva bene i pianti di
Gerard.
Aveva creduto si fosse trattato di un’allucinazione, ed era rimasto a rigirarsi
tra le lenzuola fino a quando il campanello non suonò. Le prime due volte gli erano
sembrate un’allucinazione.
Era andato ad aprire la porta con calma, sapeva che Gerard non se ne sarebbe
andato, non si era stupito trovandolo ancora davanti alla porta, non si era
stupito neanche delle linee rosse che deturpavano il bianco intorno a quelle
iridi mutevoli, e non si era stupito quando Gerard era andato sul divano come
se ogni giorno, alle quattro del mattino, bussasse alla porta di un amico per
poi occupargli il divano senza neanche vederlo prima di stendercisi sopra.
Aveva sempre saputo della mancanza di interesse di Gerard nella distinzione tra
cose opportune ed inopportune, e che spesso aveva anche dato l’impressione di possedere
qualche superpotere.
Frank si era addormentato poco tempo dopo l’arrivo di Gerard, forse perché
averlo in casa lo rendeva più tranquillo.
E avrebbe ringraziato Dio, se solo non avesse perso la fede anni prima, perché
Gerard era arrivato alle quattro di una domenica mattina – non doveva
preoccuparsi di lasciarlo solo in casa per andare a lavoro, o di svegliarlo e
portarlo a lavoro.
Frank si svegliò alle dieci e sapeva che Gerard stava ancora
dormendo: in tal caso se lo sarebbe ritrovato nel letto, o la questione doveva
essere parecchio seria.
Si lavò solo la faccia e i denti, dopo aver fatto la pipì. Scese le scale con
volontà pari a quella di uno zombi e alla propria destra vide il divano su cui
dormiva Gerard – lo stesso divano che gli impediva di vedere Gerard.
Lo raggirò e lo vide, a pancia in su, con le mani incrociate sul ventre coperto
da una felpa rossa. Sapeva della presenza di Frank nella stanza, ma ancora non
si era degnato di guardarlo o salutarlo.
Intanto, Frank osservava i suoi capelli scompigliati e la gamba piegata, che
aderiva allo schienale. Fu sollevato vedendo i suoi occhi più limpidi e meno
umidi di qualche ora prima. Si chiese se fosse o meno il caso di spostare la
tenda per illuminare di più la casa, ma evitò.
Anche dopo essersi schiarito la voce, le parole uscirono un po’ roche: “Hai
dormito?”
Gerard voltò piano la testa, come per riconoscere la fonte di quelle parole dal
volto e non dal tono. Rispose con un singolo hm.
Allora si avvicinò al divano, e si inginocchiò vicino alla testa di Gerard,
che allungò una mano per appoggiarla sulla guancia di Frank.
Frank gli toccò i capelli, iniziò a sistemarglieli senza guardarli, perché lo
stava guardando negli occhi. Morivano dalla voglia di baciarsi, non c’era
dubbio, ma prima – forse per la stanchezza – pensarono bene di contemplarsi un
po’ a vicenda.
Frank non osava, perché ancora non sapeva.
Gerard non osava e basta, invece.
Passarono quasi un minuto a guardarsi negli occhi, come dei cretini, e in quei
sessanta secondi scarsi Gerard vide qualcosa negli occhi di Frank, che vedeva
sempre negli occhi di Lyn-Z.
E gli venne in mente che Frank non gli aveva mai detto di amarlo, ma come Lindsey gliel’aveva dimostrato più di una volta in diversi
modi.
E forse, per tutto quel tempo, in realtà nessuno l’aveva amato.
Aveva senso, no? In fondo chi cazzo si innamorerebbe di un disastro come lui?
Stava per girarsi e ricominciare a piangere, ma Frank parlò appena in tempo.
“Perché hai pianto, ieri?” Chiese.
E non c’erano dubbi, Frank era troppo premuroso, troppo vicino, troppo
dispiaciuto e quasi arrabbiato per essere solo un amico.
Finalmente, dopo saghe di film mentali inutili, insensati, capì che l’unico
bugiardo, era lui.
Che l’unica cosa falsa detta da Lyn-Z era stata la
confessione della notte prima.
Se prima si era sentito idiota, confuso, completamente solo… be’ in quel
momento si sentì molto peggio. Ma proprio un fottio.
Possibile che fosse nato nell’unico universo in cui esisteva una persona come Lindsey? Che ti ama così tanto, da lasciarti andare
fingendosi una gran stronza, dopo aver capito che tu sei innamorato di un
ragazzo da così tanto tempo da aver perso le palle e la speranza per averci una
cazzo di relazione.
Riuscì a stupire Frank, voltandosi. Ma non riuscì a piangere.
Frank avrebbe potuto aspettare anche un’ora la risposta di Gerard, tanto non
aveva un cazzo da fare quel giorno. Però ora che si era girato cosa stava
provando a comunicargli? Che non aveva l’intenzione di rispondergli?
“Sono un idiota, Frank.”
Aveva pianto perché era idiota?
“Hai pianto perché sei idiota?”
“No, cazzo. Sì. Certo che lo sono. Lyn mi ha lasciato
perché non mi ama, dice. Ho pianto perché non mi dispiaceva per le ragioni per
cui avrei dovuto essere triste. E dovrei piangere ora… che ho capito che, porca
puttana, mi ama troppo quella povera ragazza. Sai cosa, Frank? Mi faccio prete.
E non un fottuto prete protestante, no. Uno cattolico, così non posso sposarmi.
Non sono fatto per le relazioni.”
“La smetti di dire cazzate? Credi di non poter avere una cazzo di relazione
seria solo perché non amavi la donna con cui sei stato per anni?” La rabbia di
Frank un po’ spaventò Gerard, che provava a rifugiarsi continuando a rivolgersi
allo schienale del divano. Era rabbia che formava grosse nuvole, nere, che
minacciavano di sbrandellarsi in una pioggia furiosa, di far muovere il cielo
per produrre lampi accecanti. Tutte queste nubi, che presto si sarebbero unite
per coprire il cielo in un unico oscuro batuffolo, coprivano la luce del sole,
la paura, che bruciava e viveva di amore.
“Lo dico perché sono stanco, non si capisce?”
“Sei stanco perché è da cinque anni che agisci pensando con i gomiti, cazzo! E
pensi a me? Io non sono stanco, vero? Che non riesco neanche a dormire per
colpa tua. Sei proprio un coglione, Cristo. È da anni che non ho relazioni serie
perché spero che tu ti accorga di me, che tu faccia qualche cazzo di cosa per
stare con me. So che per te è fottutamente impossibile dire ciò che provi, e
anche dimostrarlo, e che se io fossi stato fidanzato tu avresti giustificato la
tua mancanza di palle proprio con il fatto che ero fidanzato. Ma cazzo neanche
così sei riuscito a capire di amare me, c’è voluta Lindsey.
Ha dovuto lasciarti lei, sei patetico. Sei un idiota.”
La verità in quelle parole le lasciò sospese intorno a loro; Gerard si
arrabbiò, e con uno scatto si girò, sperando di riuscire a mettere insieme
qualche argomentazione soddisfacente e qualche contestazione alle tesi di Frank
in pochi decimi di secondo.
Frank non si mosse dopo essersi imbattuto improvvisamente nella faccia di
Gerard a neanche venti centimetri dalla propria.
Il massimo che riuscì a fare fu provare a contestare cose a caso: “Come fai a
giudicare i criteri delle mie scelte? Come fai a dire che io non mi accorga di
te? Come fai a sapere quello che provo io?”
“Davvero… Davvero vuoi provare a dirmi che servono le parole per confermare
cose come quella? Solo tu sei tanto coglione da non capire l’evidenza di alcuni
gesti.” Frank si alzò. “Se Lindsey ti ha detto di non
amarti e tu le hai creduto davvero non significa che gli altri non capiscano
certe cose.” Si allontanò dal divano, fermandosi praticamente al centro del
salotto, infine strofinò una mano contro la fronte.
Fu strano il pesante silenzio che seguì, fu ancora più strano il borbottio
dello stomaco di Frank.
“Vado a fare il caffè, tu intanto pensa alle cazzate che stai dicendo.”
“Non sono cazzate, Frank!” La voce di Gerard gli arrivò alle spalle, mentre
attraversava il buco senza porta che permetteva l’ingresso in cucina.
“No, certo, sia mai che Gerard Arthur Way abbia torto, o che ammetta i propri
sentimenti.”
“Frank-”
E Frank si voltò, ed evidentemente la rabbia con cui stava fabbricando le frasi
che avrebbe detto era quella quasi completamente repressa di una decina di
anni, perché non si soffermò ad apprezzare il viso di Gerard che sbucava dal
divano, e la sua mano che si aggrappava alla stoffa scura.
Fece finta di non notare la lucentezza dello sguardo stupito che lo stava
implorando. Implorando di fare cosa, poi, non si sa.
“Smettila di essere così fottutamente orgoglioso, cazzo! Lo so benissimo che mi
vuoi, ma non lo ammetti. Sei… come una persona che deve aprire un pacco di
pasta, ecco! Sì. Sai benissimo che potresti usare le forbici ma non hai voglia
di cercarle, così decidi di aprirlo da solo.” Frank gesticolava peggio di un
personaggio stereotipato italiano dei Griffin. “Cerchi
di fare piano e ci stai riuscendo, poi ti accorgi che hai le forbici proprio
sotto al naso ma non le vuoi usare perché ormai hai deciso che dovrai aprire
quel fottuto pacco da solo, così continui ad aprirlo e quando hai quasi finito
sei così sicuro di te e sei felice di avercela fatta che fai troppo velocemente
e boom! Pasta ovunque. Per terra, sul tavolo. E il pacco è tutto strappato e tu
sei un coglione. Come faccio ad amare qualcuno che non sa neanche aprire un
fottuto pacco di pasta? Eh? Potevi usare le forbici, ammettere almeno a te
stesso che ti servivano, che non tutto si fa meglio da soli. Ma no, tu devi
essere orgoglioso e spargere pennette per la cucina! E poi chi le deve
raccogliere? Io! Perché tu, povero coglione, fai finta che sia tutto a posto
quando invece ci sono pennette sulle sedie, nel lavandino.” Tutti, in quella
casa, finsero di non aver sentito la dichiarazione d’amore di Frank coperta di
pasta. A parole, così tanto chiaramente, Frank non l’aveva mai detto a Gerard.
“E sai una cosa? Le forbici si sono stancate. Non ci saranno più quando vorrai
aprire quel fottuto pacco di pasta. Quindi farai meglio ad abituarti ad avere
pasta anche nelle mutande.” Si girò e andò in cucina a fare il caffè. Un’uscita
proprio ad effetto. Mancava solo il fumo colorato.
Tornò con due tazze in mano, che appoggiò sul piccolo tavolo vicino al divano.
Successivamente tornò in cucina a prendere zucchero e altre cose da aggiungere
al caffè.
“Frank, a me neanche piace la pasta.” Frank lo guardò malissimo, come un cane a
cui togli il proprio giocattolino a forma di anatra, con tanto di finti versi
da anatra.
“Solo perché non la sai cucinare.”
“Appunto, tu invece sei bravissimo. E sono sicuro che riusciresti ad aprirlo
anche senza forbici il pacco. Il punto è che non me ne frega niente della pasta.”
Me ne frega di te avrebbe voluto dire, ma gli sembrò inutile
aggiungerlo. Inutile e ruffiano, poco credibile dopo tutto quello che si era
sentito dire.
“Secondo me hai ancora bisogno di pensare, ora che hai dormito e hai il tuo
fluido vitale puoi provare a mettere a posto le idee, io vado su. Se vuoi
parlarmi, pensaci tre volte prima di bussare.”
E Frank se ne andò, portandosi con sé la tazza e lo sguardo di Gerard.
In realtà erano due ragazzi abbastanza intelligenti.
Non molto svegli per certe cose, però.
Il caffè faceva dei veri miracoli, far connettere i neuroni di quel ragazzo era
un’ardua impresa.
Gerard elaborò il fatto che non solo Lindsey lo
amava, l’aveva sempre amato e più che probabilmente l’avrebbe amato anche
morendo, ma lo aveva lasciato perché, pur amandolo, lei aveva capito che
lui non l’amava. Perché era innamorato di Frank, ovvio.
Quindi la chiamò, per dirle che in un’altra vita sarebbe stato felice di
nascere femmina, giusto perché aveva l’impressione che le donne fossero più
sveglie.
E magari per dirle di aver capito una cosa semplicissima, ringraziarla per la
comprensione e… niente, l’avrebbe abbracciata il prima possibile, poi le
avrebbe anche sussurrato all’orecchio quanto bene le volesse – forse quei
cinque anni non erano stati tanto brutti.
La chiamata non durò troppo, una decina di minuti, e fu il turno di entrambi di
essere in imbarazzo, ma alla fine rimisero il telefono in tasca con gli angoli
delle labbra leggermente orientati verso gli occhi.
Prese l’atto di Lynz – quello di lasciarlo – come una
piccola benedizione, per lui e Frank. Simile a quella che i padri danno ai
futuri generi, o gli zii, i fratelli maggiori.
Gerard bussò alla porta della camera di Frank, era arrivato lì spinto
dall’istinto.
“Ci hai pensato tre volte?”
Gerard aprì la porta. “Neanche una.”
Ciuffetti mori sfioravano il pavimento notte della stanza, e due grandi occhi
colore parquet appena lucidato erano coperti da una mano che si perdeva tra
capelli di scarsa lunghezza.
Frank era quasi a metà del letto, a pancia in su, disteso con la testa né sul
cuscino né sulla parte in cui di solito riposavano i piedi.
Vide arrivare Gerard, vide la sua mascella dal basso e anche le sue grandi
narici, il suo profilo stagliarsi contro il soffitto bianco.
Vide il viso avvicinarsi, sentì le sue mani vicino alle guance, e la
prospettiva lo rese sempre più grande mentre si avvicinava.
Poi Gerard gli diede un piccolo bacio sulla bocca, e si abbassò per
lasciargliene uno anche sulla fronte. Si abbassò ancora per appoggiarci sopra
la propria.
“Gee.” Soffiò, riuscendo in qualche scomodo modo ad accarezzare il collo – o
qualcosa lì vicino – di Gerard. “Mi sto drogando io o ti sei drogato tu?”
Sorrise, prima di dire: “Al contrario, credo di essermi disintossicato. Frank,
ho… Ho capito un sacco di cose.”
Frank annuì, poi alzò la testa e si girò, giusto per evitare di riempire la
testa di sangue ed esplodere. Piano piano i puntini colorati danzanti si
dissolsero, lasciando che il mondo prendesse forma. “Tipo?”
“Tipo…” Gerard si sedette sul letto. “Non credo di volerne parlare, non ora.”
Frank annuì. “Adesso o rimani qui o vai via, allora.”
Ed entrambi sapevano che non era riferito solo a quella stanza, ma era un
concetto che si estendeva su entrambe le loro vite. Almeno, Frank sperò di
essere stato abbastanza ambiguo, perché nella situazione in cui si trovavano
iniziava a dubitare di alcune facoltà mentali del ragazzo che lo stava
osservando.
“Se mi fai spazio, forse, posso rimanere.”
“Gee, è un fottuto letto a due piazze. Ci stiamo.”
Sorrisero e Frank gli tirò la maglietta, per farlo cadere delicatamente con la
schiena sul letto.
Si arrampicò sul suo petto fermandosi a metà strada, quel groviglio di arti
assomigliava ad un abbraccio.
Gerard posò le mani sulla schiena dell’altro, per spingerselo un altro po’
addosso e ricambiare l’abbraccio.
I loro cuori completavano l’uno il battito dell’altro, il risultato era un
brusio indefinito che faceva da colonna sonora al silenzio.
“Se ci stiamo, perché mi sei addosso?”
Frank morse, piano, il primo pezzetto di Gerard che vide. Senza rispondergli. Aveva
sopportato troppo per non godersi quel momento, si era fatto troppe domande per
poi scoprire che la risposta era semplicissima, sempre lì, alta poco più di
lui.
Si baciarono con la delicatezza di chi sa di avere abbastanza tempo, e
l’intensità di chi ha aspettato più del necessario.
Frank gli tolse la maglietta usando la scusa: “L’hai usata anche per dormire,
dopo te ne do una io.” E Gerard la tolse a lui per solidarietà, poi si
ritrovarono a fissarsi, con le tempie appoggiate ai due cuscini bianchi di
Frank.
Nessuno ricordava le esatte manovre con cui si erano spostati da una posizione
all’altra.
Era strano come in un giorno tutti gli ingranaggi prima disorientati della vita
di Gerard, e di quella di Frank, si fossero finalmente uniti per far funzionare
un macchinario ancora più grande e complesso. Che funzionava.
Bastava così poco per rendere felici due persone, almeno per un po’, almeno per
un’illusione reale?
Bastava un po’ di onestà, spinta da una menzogna?
No, perché a saperlo prima, forse Gerard avrebbe delicatamente spinto
via Lindsey la notte del loro primo bacio, forse
avrebbe baciato per bene Frank molto, molto tempo prima.
Ma alla fine si riteneva fortunato anche così, perché niente gli garantiva che
se le cose fossero andate in modo diverso, in quel momento sarebbe stato lì con
Frank. Ed era proprio doveva voleva essere.
“Scusami. Lo so che mi hai già perdonato per essere un idiota.”
“In realtà, lo sei stato. Ora non lo sei, per il futuro non posso dire niente.”
Sorrisero.
“Gerard, vado a cucinare. Tu fatti una doccia e rubami i vestiti che vuoi.”
Prima di alzarsi gli spostò un po’ di capelli davanti agli occhi, solo per
infastidirlo.
Si sentì in una specie di film porno a cucinare senza maglietta.
Evitò la pasta per non far venire a Gerard strani pensieri in testa. Prese gli
hamburger vegetariani dal freezer, e mentre questi facevano scoppiettare l’olio
nella padella pensò a Lindsey, a cui doveva molto.
Anche se per colpa sua non aveva mai avuto la possibilità di stare con Gerard.
Ma non riusciva ad odiarla per aver creduto in un amore improbabile, almeno lei
si era resa conto della situazione e aveva provveduto a tirare Gerard fuori dal
proprio mondo, schiaffeggiarlo verbalmente e dargli la possibilità di vivere
quello che avrebbe realmente voluto.
Lindsey non
era abituata a sentire il telefono squillare, ma in quella giornata era già la
seconda volta che succedeva.
E la chiamata era da Frank Iero. Cosa ancora più
strana.
Rispose, incuriosita.
“Hm, ciao. Volevo parlare di Gerard.” Gerard.
L’aveva lasciato andare da appena un giorno, neanche, cazzo. Non poteva
mettersi a pensare a lui così presto.
Non se n’era pentita, però. Non l’avrebbe mai fatto.
E non perché era la cosa giusta da fare – le cose giuste non esistono, ciò che
è giusto per qualcuno non lo è per qualcun altro – ma perché Gerard non sarebbe
stato felice, reale, con lei. E di conseguenza neanche lei lo sarebbe stata,
perché dipendeva da lui.
Presto si sarebbe abituata all’idea di rimanere da sola, per un tempo indefinito.
Che poi, le persone sono sempre da sole. Anche in due, si è soli.
A lei non dispiaceva stare sola, le sarebbe giusto mancato Gerard, ma sapeva
sarebbe arrivato il momento. Lo sapeva senza saperlo. Era preparata.
Poi, sapeva di essere una ragazza eccezionale, non le mancava praticamente
nulla.
“Grazie.”
Lindsey sorrise, un sorriso fatto di lacrime. “Di
che? Non l’ho fatto per te. Non voglio dire che non ti voglia bene, ma… capisci
quello che intendo.”
“Certo, grazie. Spero solo che ora riesca ad essere felice.”
“Anche io. Prima non lo era.”
“Ehi, Lyn-Z… Non è colpa tua. Anzi,” Frank rise “penso che ci abbia messo tanto
a capirlo perché tu sei troppo fantastica.”
Lyn-Z sorrise, un sospiro arrivò fino al telefono di
Frank. “Già, forse hai ragione. Fammi solo un favore: fai... hm, fai in modo che la smetta
di fare cazzate.”
Non avevano bisogno di dirsi troppe parole, i concetti erano chiari: Gerard
aveva bisogno di Frank.
Di qualcuno che oltre a destabilizzarlo con secchiate di acqua gelida in
faccia, lo aiutasse ad asciugarsi.
E qualcuno che lo facesse sentire se stesso, così magari si sarebbe capito più
facilmente.
“Ci proverò.”
Ho messo il rating giallo solo per le
parolacce – colpa di Gerard. E di Frank.
Ma sono sempre incerta su queste cose quindi se avete obiezioni, fate pure.
Spero che a qualcuno sia rimasto qualcosa da questa storia, anche solo qualche risata.
Più che altro, ho scritto questa OS per me stessa e non mi aspetto che a
qualcuno piaccia, ma se succede mi fa piacere.
Ascolterò volentieri le vostre perplessità, o opinioni.
In privato, nelle recensioni, o – se qualcuno è capace – può inviarmi qualche
segnale telepaticamente.
Good vibes a tutti!
xoxo Coffee_Time