A Cassiana, per l'incoraggiamento
Questa volta quella scema di mia sorella le prende. Se la becco
a mettere le mani nelle mie cose... ah, eccolo! Sapevo di
averlo. Non sarà un po' di rossetto lucido a migliorare questo
orrore... sono mesi che devo sistemarmi i capelli. Jonas mi
starà sicuramente aspettando. Sarà stufo di aspettarmi, anzi. Ma
gli servirà per calarsi nella parte. Devo fare la fidanzatina,
no? O.K., basta restaurare... passiamo all'artiglieria. La
maledetta pistola è troppo grande, mi toccherà mettere la giacca
di similpelle che mi fa stare troppo al caldo. Ma è comoda ed è
grande abbastanza da nascondere la fondina. Va bene, sembro quasi
una persona normale: è il momento di uscire di casa.
Chiudo la porta alle mie spalle e la consueta sensazione di aver
dimenticato qualcosa mi assale, come sempre. Ormai ho
imparato a non badarci più, sono incorreggibile. Toccando il
ciondolo a forma di cuore che porto appeso al collo proietto le
cifre dell'orologio sulla porta: un giocattolo da ragazzine ma
che ci devo fare se ci sono affezionata? Cazzo com'è
tardi.
L'ascensore si fa attendere ma alla fine riesco a raggiungere
l'uscita del complesso abitativo dove ho il monolocale che divido
con quella sbullonata di mia sorella. Chissà dov'è adesso: sicuramente
a friggersi la testa con quella merda di musica che ascolta con gli
auricolari da cui non è capace di separarsi. Oppure a farsi un elettroshock
a base di cyberspazio. Mi ha pure chiesto di regalarle per il compleanno
l'impianto da avvitarsi dentro il cranio, la scema. Ma possibile che i
giovani devono avere tutte queste idee sballate?
Saltare sui nastri pedonali non è mai stato il mio sport preferito:
finisco addosso a un tipo con una valigetta rigida e il mio stinco
destro ne fa le spese. Mi guarda male, ha ragione lui. Gli sono
letteralmente saltata addosso e gli sembro di sicuro una pazza. Ho
raccolto i capelli per togliermeli dalla faccia ma per fare tutto
in fretta non sono stata a fare le cose troppo precise. Sento la coda
dietro la nuca che si è già allentata. Stessa cosa per il trucco: è
difficile per una trentaduenne passare per una ragazzina truccandosi
da sola e credo di aver ottenuto un risultato pietoso. Quello di sembrare
una trentaduenne truccata come una ragazzina, appunto.
Ecco Jonas. Non sembra particolarmente incazzato. Rispondo al suo cenno
di saluto e mi concentro per scendere dal nastro pedonale più veloce senza
fare del male a me stessa e agli altri. Credo che sul mio povero stinco
verrà un livido grande come un pugno. Meno male che metto sempre i
pantaloni.
- Era ora!
- Scusa, Jonas.
- Che hai fatto alla faccia?
Lo guardo male abbastanza da costringerlo a ripararsi dietro un sorriso
stupido.
- Heeey, stavo scherzando! - ecco, bravo: meglio per te.
- Muoviti...
Mi porta sul Tubo affollato come sempre, tre faticose fermate prima
di giungere finalmente a destinazione. Lui è alto, non ha certo i
problemi di respirazione che ho io lì dentro. Sto sudando, sto
scoppiando dal caldo. Una volta fuori dalla sottostazione la vista
del Parco di Amaterasu mi fa quasi stare meglio. Vorrei togliermi
la giacca e restare in maniche corte, ma non posso. Anche Jonas ha
la giacca: cazzo, non ci ho pensato. Sembriamo fatti con lo
stampino. Puzziamo di finzione da cento metri di distanza. Ma
ormai è fatta. Entriamo nel parco.
- Occhi aperti – bisbiglia lui. Io gli infilo una mano nella tasca
posteriore dei pantaloni. Dobbiamo o no fare i fidanzatini? Sento
la sua arma corta infilata nella fondina dietro la schiena esattamente
come la porto io. Che chiappe sode ha: le sento tendersi a ogni passo
sotto le mie dita prigioniere nella tasca stretta. Mi cinge con un
braccio e mi sfiora un seno. Gli assesto un colpo sulla pancia col
palmo della mano. Sono un po' scomoda, la mano migliore è nella sua
tasca e non ho voglia di sfilarla. Incontro addominali molli, l'ho
colto di sorpresa.
- Hey! - protesta lui.
- Non te ne approfittare, imbecille!
Sposta la mano sulla spalla, un posto che mi pare più
adeguato. È calda e pesante e la sento stringere un po'. Mi
piace. Camminiamo così nella nostra parte del parco. Mi piace
molto qui: viviamo in un mondo chiuso fatto di metallo e
di plastica, rumoroso, sporco, affollato, puzzolente. Sembra
che queste creature straordinarie, gli alberi del parco, possano
tenere tutto quanto fuori. L'aria è più fresca, qui. Si sentono
odori ignoti ma non spiacevoli. Perfino i rumori giungono
attenuati, quasi trasformati in qualcosa d'altro. Un bambino
che fa i capricci con la mamma, i passi faticosi di un pancione
che corre per dimagrire, ragazzine sciocche che probabilmente
hanno bigiato la scuola per stare sdraiate a ridere e spettegolare
tra loro in un piccolo praticello. Quasi non sembra
che tre incroci più in là ci sia un ingorgo stradale con decine
di persone immobilizzate dentro un caos di metallo
surriscaldato.
Chiacchieriamo del più e del meno, io e Jonas. Siamo tutti e
due nervosi e cerchiamo disperatamente di nasconderlo. Ma è
più forte di noi e scivoliamo piano insieme nelle stesse parole,
nello stesso pensiero.
- Spero solo che si faccia vedere.
Ha parlato il maschio guerriero. Forte e coraggioso, risoluto e
assetato di sangue.
- Stai calmo. Vedrai che prima o poi lo becchiamo – non ne sono
proprio sicura visto che il bastardo ci sfugge da ormai un mese e
ci ha abbondantemente preso per il culo lasciandosi dietro anche
qualche cadavere. Cosa darei per potermi togliere la giacca.
- Ho sete – cambio discorso, magari così si rilassa. Nemmeno io sono
tanto tranquilla. In fondo desidero anche io mettere le mani su quel
figlio di puttana e fargliele pagare tutte. Io, la femmina guerriera,
ho parlato.
Andiamo al gazebo del parco che in quel settore è gestito dai
giapponesi ortodossi. Hanno ottenuto una ristrettissima deroga e
possono rivolgersi ai clienti usando quel poco che è sopravvissuto
del loro dialetto originale. Riconosco un cortese saluto, ma non
so rispondere. Ce ne andiamo con una benedizione e due bibite con
la cannuccia. Finalmente, non ne potevo più; ma la soddisfazione
dura solo un momento in più della bibita. Poi una vibrazione alla
base della mascella: il mio impianto sta ricevendo una
chiamata.
- O'Malley – ho già un peso caldo sullo stomaco.
- Centrale a tutte le squadre: codice tre, codice tre. Convergere
verso...
Non sto nemmeno ad ascoltare le coordinate: sto già correndo, incito
Jonas a starmi dietro. C'è qualcosa di buono nell'avere un fisico un
po' mascolino: se c'è da correre, si corre. Jonas riesce a starmi al
fianco, è più allenato di me.
Corro a perdifiato, devo raggiungere in fretta la zona indicata. Dovrebbero
esserci gli altri lì, ma meglio intervenire prima possibile. Vedo la
fontanella, il sentiero stretto che si infila sotto una volta fitta di
vegetali in fiore, uno splendido tunnel verde e rosa. Avranno un nome
quei fiori? Supero la piccola fontana e mi infilo nell'ombra senza nemmeno
pensare che è un buon posto per un agguato. Jonas è dietro di me e mi chiama,
ma io non ho il fiato per rispondergli. A una cinquantina di metri di
distanza vedo del movimento. Sono in due in mezzo a un grande prato,
corrono. Cambio direzione, abbandono il sentiero di ghiaia e mi lancio
sull'erba. Comincio a non poterne più di correre. Il tizio davanti non
lo riconosco: che sia lui? Viene raggiunto, strattonato, trascinato
a terra. Vedo volare dei pugni, mani si alzano aperte vicino alla testa,
per difesa. Ai polsi scattano le luccicanti manette di acciaio. Ecco
cosa ho dimenticato a casa.
- Ferma, O'Malley! Ferma!
Senza nemmeno rendermene conto gli sono addosso e lo sto prendendo a calci
in testa. Era da un mese che aspettavo questo momento, possibile che non
riesco a fare altro che tirargli calci in testa? Jonas arriva come un
treno e mi trascina via con forza gridandomi di calmarmi, ma vedo rosso
e cerco solo di colpirlo. Sono furiosa, inefficace, scomposta, patetica,
accecata dall'ira. Jonas è più freddo e ragionatore, lo è sempre
stato. Mi sgambetta e riesco a evitare l'onta di finire bocconi
nell'erba atterrando miracolosamente sulle ginocchia. Solo adesso
che sento dolore alla gola mi rendo conto di quanto sto gridando. Sì,
credo sia giunto il momento di calmarmi: c'è già della gente che si
sta avvicinando, i soliti curiosi del cazzo. Arrivano anche i
colleghi in divisa, tonfa alla mano fanno quello che possono per
tener lontani i civili.
- O'Malley. Rispondimi, O'Malley!
Jonas. E tu lasciami le braccia, cazzo. Ma non ho il fiato per parlare,
preferisco ansimare ancora un po', grazie. Smetto di strattonare per
liberarmi, magari mi lascia davvero. Lo sento inginocchiarsi al mio
fianco. Vai via Jonas, sto piangendo di rabbia. Non voglio che tu
mi veda così.
- Ti lascio andare, O'Malley. Ma tu non fare cazzate, eh?
Guardo i fili d'erba sfuocati attraverso le lacrime che non vogliono
ancora cadermi dagli occhi. Sento un polso libero, Jonas mi abbraccia
mentre mi trattiene per il gomito. È accaldato e sudato per la corsa. Io
ho il fuoco sotto la pelle e la maglietta è fradicia, la sento che
mi si appiccica addosso dappertutto. Stringimi Jonas. Cazzo,
stringimi di più: non me ne frega se puzzi.
- È finita, O'Malley – Jonas parla come negli olofilm. No,
non è mai finita. Vedere quel pezzo di merda marcire dietro
le sbarre, se mai ci rimarrà abbastanza a lungo, non mi darà
mai soddisfazione abbastanza.
- Fammi alzare – sento la mia voce come se fosse una registrazione. Mi
aggrappo alle sue spalle e sento il suo braccio solido intorno alle
mie. Merda: ho macchiato i pantaloni col verde dell'erba e con
la terra umida e scura.
Non posso fare a meno di guardarlo. Uno come tanti. Me lo sono
immaginato mostruoso, deforme, anormale. Orrendo. Invece è
indistinguibile dagli altri. Perde sangue dal naso, tiene la
testa bassa mentre gli altri lo trattengono per le braccia
ammanettate strettamente dietro la schiena. Una vampata di
calore mi avvolge la testa ma Jonas mi si para
davanti.
- Andiamo via – Jonas mi stringe il braccio sopra il gomito,
saldamente. Io scatto e mi butto contro di lui, lo abbraccio
e me lo stringo forte contro il petto. Mi aggrappo alla sua
giacca con le mani, la afferro, la stringo, la tiro e poi la
lascio. Lui è impacciato, non se lo aspettava. Eh, no di
certo. Finalmente si decide, mi stringe come si deve, mi batte
le mani sulla schiena. Non mi serve cercare i singhiozzi:
arrivano da soli. Da sopra la sua spalla lo guardo: un mostro, ora ammansito da botte e manette. Otto stupri e tre omicidi in un mese, lì nel verde
di Amaterasu. Faccio scendere la sinistra, pensando che Jonas
non se lo aspetta di sicuro. Lo sa che non sono mancina, ma
forse una cosa del genere non gli passa nemmeno per la
testa. Mi stringo ancora di più a lui, col mio ventre cerco
il suo, lo voglio distrarre. Finalmente attraverso la giacca
sento il calcio della sua arma. È in favore del mio palmo. Guardo
quel bastardo, in piedi stretto tra due colleghi in
divisa. Aspettano il carrellino dei giardinieri: nessun
altro veicolo può entrare nel parco. Non se lo aspetta di
certo: è quasi tranquillo nella sua normalità di creatura
schifosa. Se Jonas non ha messo la sicura, in tre secondi
posso farcela. Nessuno se lo aspetta. Pezzo di merda, non
ti vanterai da dietro le sbarre di ciò che hai fatto. Anche
se ciò non mi restituirà mia sorella.