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Autore: Briciole_di_Biscotto    15/08/2015    3 recensioni
E sì, America doveva essere proprio un grandissimo infame, se aveva scelto una giornata così incantevole per un’azione così orribile. Era come se il mondo intero li prendesse in giro, ridendo della loro sofferenza. Come poteva il cielo essere così bello mentre intorno loro c’era soltanto morte e desolazione?
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Piccolo tributo (un po' in ritardo) sul 6 agosto 1945, quando venne sganciata la seconda bomba atomica su Nagasaki. Nichu / no!pairing
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cina/Yao Wang, Giappone/Kiku Honda
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Cina camminava senza sosta da diverse ore, in quella landa desolata che fino a poche ore fa era stata la bellissima città di Nagasaki. Si avvicinò cautamente ad un edificio crollato, di cui rimanevano solo i sostegni di ferro e alcune travi di legno carbonizzate. Prese una trave, ignorando le schegge che andavano a conficcarsi nel palmo, e cercò di spostarla. Sussultò quando vide una mano annerita spuntare da sotto un cumulo di detriti.
Cominciò a scavare più velocemente, e dopo una manciata di minuti riuscì a spostare anche l’ultima trave, scoprendo i corpi semi-carbonizzati di due bambini, probabilmente fratelli. Si tenevano ancora per mano, e il cadavere più piccolo – probabilmente la sorella minore – stringeva a sé quella che con tutte le probabilità doveva essere stata una bambola.
Cina, pur sentendosi in colpa, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo nel constatare che la mano non apparteneva a colui che stava cercando. Aveva visto centinaia di cadaveri in quelle poche ore, ed ogni volta il cuore gli era saltato in gola per paura di poter riconoscere lui in mezzo a tutti quei morti. Sapeva che era una paura irrazionale – del resto loro non potevano morire così facilmente – ma non poteva ignorarla.
Si portò una mano alla tasca superiore sinistra della giacca verde militare della divisa cinese – era partito così di fretta che non aveva avuto neanche il tempo di cambiarsi – quella vicino al cuore, e ne estrasse un minuscolo sacchetto di stoffa, grande più o meno la metà del palmo della sua mano. Lo osservò attentamente: la stoffa era ricamata ad arte, creando un piccolo paesaggio. Sulla parte superiore si potevano notare delle nuvole grigie portatrici di tempesta e delle vette innevate. Mano a mano che si scendeva a valle, però, i colori cominciavano a passare dal grigio e dall’azzurro invernali al verde e il rosa degli alberi di ciliegio in fiore, in una tipica rappresentazione primaverile.
Sul retro del sacchetto, in grandi kanji dorati, vi era ricamata la parola “ritrovo”.
Cina avvicinò il portafortuna alle labbra e vi depositò un leggero bacio, pregando affinché gli dei lo aiutassero nel ritrovare lui, poi lo rimise al sicuro nella tasca della giacca e riprese a camminare.
Più si avvicinava al centro della città, più i detriti andavano diminuendo, completamente mangiati dalle fiamme, come se lì non avesse mai abitato nessuno. Il paesaggio andava a farsi mano a mano sempre più desolato: un immenso deserto di cenere e polvere si distendeva a perdita d’occhio di fronte a lui, mentre i gemiti dei sopravvissuti si facevano sempre più lontani, lasciando che un silenzio innaturale ne prendesse il posto, facendolo rabbrividire.
Si portò una mano al cuore, accarezzando da sopra la stoffa il portafortuna.
Ti prego, ti prego. Fa’ che sia vivo.
Continuò a camminare. Sapeva che lui doveva essere da quelle parti , del resto giusto il giorno prima si erano sentiti al telefono, e lui gli aveva detto di essere a Nagasaki per questioni burocratiche legate alla situazione di Hiroshima e che vi sarebbe rimasto per una settimana come minimo. In cuor suo, però, sperava di starsi sbagliando. Pregava con tutto sé stesso che per qualche motivo – una chiamata urgente dal Senato, una riunione di guerra a Tokyo o un problema al palazzo Imperiale, non era importante – avesse interrotto il suo soggiorno a Nagasaki.
Ad un tratto, qualcosa andò ad occupare il suo campo visivo. Si bloccò di colpo, sentendo il cervello andare in panne non riuscendo a metabolizzare razionalmente la scena che aveva di fronte.
Intorno, solo quel deserto di cenere e detriti, mentre l’aria si faceva carica di un silenzio assordante – come se centinaia di voci si fossero messe tutte contemporaneamente a bisbigliare nel suo orecchio – e, difronte a Cina, riverso a terra come senza vita, lui.
Giappone.
Il tempo sembrò ricominciare a scorrere quando i piedi di Cina ripresero a muoversi. Prima un passo lento, esitante, seguito da uno leggermente più deciso. E mano a mano che si avvicinava, il suo passo diventava sempre più veloce, fino a che non si ritrovò a correre. Si fermò accanto al corpo inerme di Giappone, e si lasciò cadere in ginocchio.
Allungò una mano tremante verso Giappone, ma si fermò prima di riuscire anche solo a sfiorarlo: non sapeva dove toccare. Ovunque guardasse, il corpo del ragazzo era ricoperto di ustioni al limite dell’umano, e probabilmente si doveva ringraziare solo il suo essere una Nazione se il suo corpo non era sparito, divorato dalle fiamme e carbonizzato.
Cina afferrò delicatamente la giacca un tempo bianca della divisa militare giapponese per le spalline dorate, e gliela scostò dalla schiena ringraziando mentalmente l’abitudine del giapponese nell’appoggiarsela semplicemente sulle spalle, senza infilare le braccia nelle maniche.
Rimase inorridito da quello che vide.
L’intero corpo di Giappone era ricoperto da piaghe violacee e deformato dal calore, così intenso che era andato a sciogliere la pelle della nazione come se fosse cera colata. L’addome era interamente avvolto da delle fasciature, che ora erano fuse con il corpo rendendo impossibile levargliele, così come i pantaloni bianchi e dorati della divisa, sporchi di sangue e di cenere.
Con una delicatezza che non credeva possibile afferrò gentilmente il corpo di Giappone e lo voltò, facendolo stendere sulla schiena. Si lasciò sfuggire un singhiozzo quando vide il volto del ragazzo, un tempo così aggraziato e regale, divorato dalle fiamme. Strinse delicatamente a sé quel corpo inerme e nascose il volto nell’incavo della spalla di Giappone, non riuscendo più a trattenere le lacrime.
- Kiku. Kiku, ti prego…
Il suo corpo era scosso dai singhiozzi, mentre pregava con tutto se stesso che gli dei gli restituissero il fratellino.
Vi prego. Sono pronto a tutto, pagherò qualsiasi prezzo, ma vi prego…
Strinse di più a sé il corpo di Giappone, passandogli delicatamente una mano per i capelli. La fece scendere gentilmente giù per la nuca, sfiorò le spalle e seguì delicatamente il percorso della spina dorsale. Quando Giappone, da piccolo, non riusciva a dormire per via degli incubi, Cina si stendeva sempre nel letto accanto a lui e, canticchiando una ninna nanna in cinese, lo accarezzava dolcemente in quel modo.
Sollevò piano il capo e guardò Giappone. Era una Nazione, diamine! Non poteva certo morire così, giusto?
Avvicinò il volto a quello di Giappone, facendo aderire le fronti e sfiorare i nasi. Chiuse gli occhi mentre sentiva calde lacrime solcargli le guance e cadere sul volto di Giappone.
- Didi, ti prego. Torna da me.
Strinse gli occhi e si morse il labbro, cercando di non singhiozzare. Le spalle erano scosse da lievi tremiti.
Qualcosa gli sfiorò piano il viso, come un soffio di vento proveniente da antiche e dolci terre. Spalancò gli occhi, ritrovandoli riflessi in quelli socchiusi di Giappone, che gli stava carezzando piano la guancia.
- Gege…
La sua voce era roca e fievole, come se per dire quell’unica parola avesse usato tutte le sue energie, cosa probabilmente vera. 
Cina si portò una mano al volto, posandola sopra quella di Giappone e carezzandola piano, mentre piccole lacrime scivolavano andando a bagnare le mani di entrambi. Sorrise dolcemente, sollevato.
- Va tutto bene, didi. Sono qui.
Gli afferrò delicatamente la mano e se la portò alle labbra, posando sul palmo un lieve bacio.
Il sole, nel cielo, cominciò la sua lenta parabola verso l’oblio, tingendo tutto di un caldo arancione e un dolce rosa, illuminando paternamente le loro figure. Il cielo cominciò a tingersi lentamente dei colori dell’arcobaleno, mentre da lontano una bellissima luna piena faceva il suo ingresso, accompagnata dalla prima stella della sera.
Era uno spettacolo incantevole, di quando non è più giorno ma non è ancora notte, di quelli che si possono guardare all’infinito senza mai stancarsi.
E sì, America doveva essere proprio un grandissimo infame, se aveva scelto una giornata così incantevole per un’azione così orribile. Era come se il mondo intero li prendesse in giro, ridendo della loro sofferenza. Come poteva il cielo essere così bello mentre intorno  loro c’era soltanto morte e desolazione?
Giappone doveva aver avuto gli stessi pensieri, perché si aggrappò con più forza alla divisa di Cina, supplicandolo con gli occhi. Cina annuì e fece passare un braccio intorno alle sue spalle e un altro sotto le gambe, sollevandolo delicatamente. Giappone appoggiò docilmente la testa sul petto di Cina, chiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal battito del suo cuore.
Cina lo guardò e sorrise dolcemente: sembrava proprio un bambino. Il suo pensiero andò a quel piccolo portafortuna che albergava nella sua tasca, mentre il volto di una giovane donna andava formandosi nei suoi ricordi. La ringraziò mentalmente.
L’ho trovato, visto?
Si chinò a dare un altro piccolo bacio alla tempia di Giappone, e gli sussurrò piano nell’orecchio.
- Ti porto via di qui.
Alle loro spalle, il cielo andava punteggiandosi di infinite, piccole, lucenti stelle.
  
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