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Autore: JCM_    17/08/2015    1 recensioni
Qual è il limite tra bene e male? Dove finisce il giorno e comincia la notte? Qual è il confine tra libertà e ribellione? Qual è il labile velo tra genio e follia? Cos'è l'oscurità?
Kassandra Herondale, la secondogenita degli eroi della Guerra Oscura, se l'è sempre domandato, non trovando mai risposta. Almeno sino a quando non incontra Jonathan Morgenstern. Lui non ha mai avuto bisogno di chiederselo. Jonathan è l'oscurità, è nato in essa ed è divenuta il suo rifugio e ideale di vita.
Cosa succederebbe se la figlia di Jace e Clary si ritrovasse sbalzata nel passato alla mercé del loro più grande rivale?
Genere: Dark, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Sebastian / Jonathan Christopher Morgenstern
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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City of Darkness
 
Oh, you think the darkness is your ally, but you merely adopted the dark. I was born in it, moulded by it. I didn’t see the light until I was already a man; by then, it was nothing to me but blinding! The shadows betray you, because they belong to me.
Ah yes, I was wondering what would break first. Your spirit, or your body.
Bane, The Dark Knight Rises





 
Capitolo 1
La prigioniera
 
Noi che viviamo in questo carcere, nella cui vita non esistono fatti ma dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza, e il ricordo dei momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare.
Oscar Wilde.


La cella era priva di finestre e inferriate, scavata totalmente nella roccia vulcanica, un immenso buco nero pronto ad inghiottire nelle sue fauci l'umanità intera. Le pareti erano un ammasso di cristalli di onice tagliati male, così aguzzi che ferivano le carni quasi quanto le catene che mi aveva assicurato ai polsi e alle caviglie.
Ero abbandonata contro di esse, immobile come una moribonda che aspettava l'ultimo istante invocandolo nella propria mente, le gambe lunghe rannicchiate contro un pavimento così sporco da sembrare unto, un misto di fango, sangue rappreso e altro che non intendevo identificare meglio.
Dovevo mantenere il contatto con il mio corpo logorato dalla prigionia. Non dovevo cedere all'oblio. Era l'unico martellante pensiero in quell'eterno istante di dolore e umiliazione che era diventata la mia vita.
Se avessi permesso all'irrealtà di sfiorarmi con le sue invitanti e crudeli braccia, un amante che celava un coltello dietro la maschera di dolcezza, avrei ceduto alla follia e avrei dimenticato tutto.
Avrei scordato il mio nome, il mio ruolo nel mondo, la missione che era stata affidata alla mia gente secoli e secoli prima, l'ingegno che era stato il mio vanto e la mia rovina.
I volti di chi avevo amato in una vita precedente alle catene, quando ancora avevo un'identità e dei sentimenti, sarebbero divenuti ombre.
Mia madre, mio padre, Max, il mio caro Max, la dolce Joss e il piccolo Will.
La mia famiglia.
Il mio tutto.
Il solo pensiero mi spronava a sopravvivere per inerzia, a combattere e ricacciare le tenebre che volevano avvolgermi.
Non mi era rimasto più nulla se non il pensiero dei miei cari. Il Conclave mi aveva portato via tutto ciò che avevo tranne quello, tranne l'amore che ancora nutrivo per i pochi che mi avevano vista e non solo guardata.
Ero una fuorilegge secondo il Console, l'Inquisitore e quella massa di pecore belanti e ignoranti che mi aveva giudicata colpevole per acclamazione, un coro che seguiva il proprio pastore corrotto.
Mi ero macchiata di un crimine atroce altresì definito come capacità di astrazione e creazione.
Strinsi i denti nel ripensare a come avessero declassato le mie scoperte e le mie invenzioni definendole abomini, e repressi a stento un mugolio quando un respiro più prolungato degli altri mi bruciò i polmoni. L'aria era così stantia che respirarla dava un senso di capogiro.
Dopotutto ero in un sotterraneo nei pressi di un canale di scolo del lago Lyn. Le esalazioni sulfuree erano all'ordine del giorno.
Le urla di dolore, frustrazione e immenso amore di mia madre risuonavano sempre nella mia testa. Le scacciai scuotendo il capo e abbandonandolo contro la pietra, attenta a non ferirmi da sola. Non ero ancora entrata nella modalità suicida, ma ben presto ci sarei arrivata se la mia mente non fosse stata stimolata da qualcosa, qualsiasi cosa.
Risi tra me, quasi irritata per quei biechi istinti umani che un tempo mi avevano distolta dal mio lavoro, quando sentii lo stomaco gorgogliare contratto da quelle lunghe ore di digiuno. Per un inventore non esisteva nulla di peggio che essere interrotti nel bel mezzo di un esperimento per dover andare in bagno.
Quella poltiglia disgustosa e marrone che assomigliava a qualche prodotto di scarto veniva servita due volte al giorno, all'alba e al tramonto a sentire quanto mi aveva detto l'ultimo compagno di cella, un signore attempato che possedeva un meraviglioso orologio da taschino d'oro, di quei modelli ottocenteschi che gli uomini indossavano nel panciotto. Delizioso. Sospirai nel ricordare che i carcerieri l'avevano buttato nel braciere insieme al suo cadavere quando era morto di stenti, consumato dalla malattia.
Ripensandoci quelle due guardie erano state proprio sgarbate. Mi sarebbe piaciuto avere un oggetto da studiare in quel luogo così noioso.
Come richiamato dai suoni imbarazzanti del mio corpo qualcuno apparve dietro le grate di adamas ricoperto di ferro nero, un tocco di classe per ricordarci che eravamo simili a demoni per il Conclave.
Un sorrisetto stizzito fece capolino sulle mie labbra secche e screpolate, rotte per la sete, una battuta sarcastica sulla lingua sempre svelta. Avevo sempre avuto una certa verve, tipica della mia famiglia, e la prigione per fortuna non mi aveva fiaccata.
Adoravo insultare il Console e farlo dinanzi a un essere pensante era diventata la più alta aspirazione della mia miserevole esistenza.
Un'abbagliante ondata di luce investì la cella e mi ritrovai a socchiudere gli occhi per abituarmi a tutta quella magnificenza.
Sentii dei passi lievi e felpati avvicinarsi e poi un leggero flettersi delle ginocchia, come se volesse trovarsi alla mia altezza. Stavo per dirgli che poteva risparmiarsi il pessimo spettacolo quando riaprii gli occhi e mi ritrovai a sgranarli.
Dinanzi a me c'era un ragazzo, non uno dei soliti carcerieri vecchi e bitorzoluti dinanzi ai quali quasi veniva voglia di tirarsi in piedi e aiutarli facendo loro da bastone improvvisato.
Poteva essere un mio coetaneo e sembrava un angelo caduto, troppo bello per appartenere a quel mondo di morte.
Siccome era la prima presenza gradevole che osservavo da parecchio tempo, mi soffermai a lungo sul suo viso, studiandolo con la cura dell'artista.
Era un volto di luci e ombre, la pelle pallida e tirata sugli zigomi alti contrastava le labbra rosse e carnose, una digitalis purpurea, mentre i capelli biondi come il sale sembravano fare a pugni con gli occhi verdi dai riflessi neri come fondali marini.
Posò la stregaluce sul pavimento e notai che aveva il fisico scattante di un Nephilim, la linea del collo decisa che scompariva dentro una polo a maniche corte celando spalle larghe e muscolose quanto quelle di un nuotatore. Le braccia erano coperte di marchi e terminavano con mani dalle dita affusolate adatte a impugnare un carboncino o una sanguigna e non delle armi. Al polso destro brillava un bracciale d'argento con una scritta che non riuscivo a identificare con tutta quella luce.
Il ragazzo sembrava bearsi di quelle attenzioni e non accennava a rivolgermi la parola come se attendesse un mio cenno. Molto cortese da parte sua tranne che per il fatto che non aveva portato cibo con sé. Mi imbronciai per un istante prima di scuotere il capo dandomi della sciocca. Se non era un carceriere, allora avevo due possibilità di indovinare cosa fosse. O un assassino e in quel caso potevo incominciare a declamare i sommi versi del Catullo. O un liberatore e in quel caso il mio broncio sarebbe stato totalmente fuori luogo.
“ Adesso il Console mi manda una statua greca? Gentile da parte sua. Almeno avrò qualcosa di bello da guardare,” esclamai con voce arrochita dal non utilizzo. Avevo le corde vocali graffiate per quella maledetta aria e di certo non apparivo al meglio nella mia mise, ma il ragazzo doveva accontentarsi di ciò che vedeva.
“ Sei Kassandra Herondale?” domandò avvicinando la destra e posandola sulla mia guancia incavata per scostare un ricciolo rosso. Avevo davvero bisogno di un paio di forbici, constatai nel vedere quanto fossero diventati lunghi e intricati come rovi quei capelli fulvi che erano da sempre il segno distintivo dei Fairchild.
Quel pigro gesto mi permise di vedere meglio le lettere incise nell'argento lucente.
Acheronta Movebo
Che ragazzo pretenzioso.
“ L'unica e inimitabile,” confermai tentando di darmi un tono, qualcosa che sorprendentemente si rivelò impossibile per la presenza delle catene e anche per il fatto che non vedessi una vasca da bagno da molti, molti mesi. A volte qualche anima misericordiosa ci concedeva una secchiata di acqua gelida, ma era molto raro trovare una persona così caritatevole.
Il ragazzo sorrise rivelando due fossette d'angelo ai lati delle labbra. Dovetti trattenere un'esclamazione di stupore dinanzi a quello spettacolo. Era così bello da far male al cuore. Il sorriso, però, si limitava soltanto alle labbra senza raggiungere gli occhi scuri che restavano asettici, quasi velati da una patina impalpabile.
“ E tu chi sei, chiaroscuro?” domandai curiosa. L'affamata di conoscenza che era in me tornò a ruggire. Avevo un nuovo mistero da svelare. Il vecchio sorriso da predatrice pronta a tutto riaffiorò sul volto di porcellana mentre i motori del mio cervello tornavano a muoversi come gli ingranaggi di una macchina perfetta.
Con un movimento fulmineo che non colsi appieno il giovane estrasse una spada angelica tra dalla cintura delle armi e la chiamò Haziel. La luce che sprigionò fu un balsamo che sembrò cancellare gli orrori di quella prigionia ripugnante.
“ Puoi definirmi il tuo migliore alleato,” mormorò con voce suadente prima di calare la spada sulle catene.
Chiusi gli occhi, assaporando quel suono, quel momento di libertà a lungo agognata e finalmente ottenuta, e mossi le braccia libere.
Solo che non lo erano affatto.
Le palpebre si spalancarono quando sentii le catene attorcigliate ai polsi e un urlo ferino di pura rabbia mi sfuggii dalle labbra, ardendomi la gola e scuotendomi sin dentro le ossa.
Il ragazzo era scomparso.
La luce era stata inghiottita dal buio.
E io ero ancora prigioniera.
   
 
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