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Autore: Tourmaline    19/08/2015    0 recensioni
Colin Smith, giovane avvocato licenziato da pochissimo, assiste all'omicidio di un uomo coinvolto in un grosso giro di droga di cui si sta occupando l'FBI. Durante la fuga dagli assalitori, cade e dimentica tutto ciò che è accaduto quella sera, a partire dall'inizio. E' dunque costretto ad essere inserito nel programma di protezione testimoni, in modo tale che possa essere al sicuro fin quando non torni la memoria. Sarà compito dell'agente Kate Jones supervisionare l'operazione. Come andrà a finire, sapendo quanto potenti sono gli uomini contro cui Colin si sta mettendo?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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 Prologo 
 
Seduto su una delle poltroncine di una delle tantissime stanze dell’FBI, Colin non riusciva a pensare ad una parola che descrivesse omogeneamente la sua giornata.  La flebile luce di una lampada faceva capolino tra le dita delle sue mani, pressate sul suo volto. D'improvviso, sentì il peso di tutti gli avvenimenti gravare sulle sue spalle, come se il bernoccolo dietro la nuca non bastasse. Passandosi le mani tra i capelli, alla flebile luce della stanza, ricominciò a scorrere gli avvenimenti di quel giorno.
 
La sveglia del telefono era terribile. Un suono insistente e fastidioso che aumentava il volume man mano che i secondi scorrevano. La mano di Colin arrivò giusto in tempo a bloccarla, prima che il cervello decidesse di scaraventare il telefono il più lontano possibile da lui. Con un mugolio, si era alzato dal letto e si era diretto in bagno. Per un attimo, si rimirò allo specchio. L’immagine che venne riflessa era quella di un uomo sulla trentina d’anni, con i capelli scuri e le occhiaie che gli solcavano il viso. Prese un gran respiro e pensò a quello che era diventato. Ricordò le parole di suo padre a quel pensiero.
“E diventare cosa? Avvocato delle cause perse?”
Ironia della sorte, era proprio quello che Colin era adesso. Un avvocato sull’orlo del licenziamento. Aveva sentito girare delle voci secondo cui lo studio voleva fare alcuni tagli, motivo delle sue occhiaie. Aveva lavorato duramente giorno e notte per vincere l’ultima causa, ma l’accusa, grazie a chissà quali metodi illegali, aveva ottenuto prove della colpevolezza del suo cliente, cosa giurata e spergiurata non fosse vera da quest’ultimo.
Quel giorno decise di non prendere la macchina. Avrebbe fatto una passeggiata e l’aria frizzantina di aprile avrebbe migliorato il suo aspetto, ne era certo. Prese un caffè lungo la strada, nel quale il telefono cadde, nello stesso momento in cui rispondeva ad una chiamata di sua madre. Inveì un paio di volte, prima di riprendere il marchingegno dal bicchiere e tentare di asciugarlo nel miglior modo possibile. Provò anche ad accenderlo, ma non ci fu verso di rianimarlo.
Una giornata cominciata male può solo migliorare, pensò tra sé e sé. Non aveva nemmeno idea di quanto si sbagliasse.
Conseguenza del telefono nel caffè fu un ritardo al lavoro e, immancabile negli ultimi due mesi, i saluti mielosi di quella gatta morta della segretaria di Anderson. Lo schema di Allyson era molto semplice: primo punto, invito a una festa, evento o sagra di cui venisse a sapere.
“Pike sta dando una festa a cui ha invitato tutto lo studio. Andiamo insieme, magari?”
Colin le mostrava un sorriso, sempre più tirato negli ultimi tempi, e declinava l’invito. Secondo punto, rimarcare quanto fossero belli i suoi occhi.
“Le occhiaie fanno risaltare il colore dei tuoi occhi, lo sapevi?” Disse lei, nell’ennesimo tentativo. Colin sentiva martellare nella testa ogni ticchettio dei tacchi di Allyson, che faceva fatica a stargli dietro.
“Davvero?” Rispondeva puntualmente lui, come se non avesse pensato quella mattina di convertirsi al fondotinta di sua sorella per coprirle.
“Certo!” Lei, nonostante i continui rifiuti, era entusiasta come il primo giorno. Lui, come il primo giorno, aveva la testa da tutt'altra parte.
Terzo punto, salutare.
“Allora ci vediamo in giro, Colin.”
Lui le faceva un cenno e andava dall’altra parte dell’edificio. Alla sua passeggiata si unì Alex, che rideva sommessamente della scenetta che si ripeteva ogni mattina.
Finalmente, si sedette sulla sua sedia ergonomica, dove abbandonò la testa. Tentando di riprendersi, accese il computer, pronto a revisionare gli ultimi file.
La finestra su cui dava il suo ufficio mostrava il sole calante quando Colin controllò l’orario. Le quattro meno un quarto. Lasciò andare un respiro. Anche per quel giorno non era stato licenziato. Chissà, magari qualcuno credeva in lui, ai vertici dello studio.
Ma mai pensare di averla scampata, prima di essere davvero al sicuro. Charles, uno dei vertici, appunto, lo chiamò nel suo ufficio dieci minuti prima di chiudere l’ufficio.
“Il suo lavoro è stato importante per il nostro studio, ma…” Charles iniziò a giustificarsi con la faccenda dei tagli e delle ultime cinque cause perse da Colin, chiudendo con un: “Mi spiace, Colin. E' stato un piacere lavorare con te.”
Colin deglutì a vuoto e strinse la mano che il suo capo gli stava offrendo. Prese una scatola dallo stanzino del custode e iniziò a svuotare il più velocemente possibile la sua scrivania.
Con la giacca appesa alla spalla, Colin ripensò agli effetti benefici di quella cosa. Avrebbe potuto dormire di più, magari si farebbe fatto fare quel massaggio cui agognava da tempo, non avrebbe dovuto mettere su quel teatrino ogni volta che Allyson appariva.
Aveva osservato il tramonto dalla panchina di una collinetta e, in quel momento, vide, nel calare del sole, la sua stessa discesa. Splendente fin quasi ad accecare fino ad un certo punto, per poi affievolire lentamente, senza che la gente quasi se ne accorgesse.
Poi, stanco, decise di fermarsi ad un pub dall’aria malandata. L'aria, carica di fumo e sudore, tentava di essere alleggerita da un ragazzo che strimpellava qualcosa con la chitarra. Solo alcune anime dannate di quel pub lo ascoltavano seriamente. Dal momento che non aveva macchina e che il telefono lo aveva abbandonato quella mattina, decise di non eccedere. Ricordava fin troppo bene cosa gli accadeva quando era ubriaco. La sua andatura altalenante e l’atteggiamento strafottente non gli avrebbero sicuramente migliorato la giornata, specialmente se avesse incontrato gente non tanto raccomandabile. Decise, dunque, di arrivare a quel livello in cui si è molto vicini all’essere ubriachi, ma ancora non lo si è del tutto. Quella sensazione ovattata gli fece vedere la situazione dalle migliori delle prospettive e il cantante strampalato di quella serata gli sembrava quasi gradevole. Verso le dieci, salutò il barista e si incamminò verso casa sua. Se non fosse stato che qualcosa attirò la sua attenzione da un vicolo. Un litigio, una rissa, forse. Ligio alla legge, e anche un po’ brillo, invece di continuare dritto per la sua strada, imboccò il vicoletto.
Era una stradina squallida, con le pareti delle case fatte da mattoni molto vecchi e i panni distesi ad impedire la visione del cielo. C’era una patina di fango per terra e, in fondo, premuto contro un bidone della spazzatura, un uomo, piccolo e grassottello, livido in volto, con alcune gocce di sudore che circondavano i suoi pingui lineamenti.
“Non dirò niente, lo giuro!” Li implorava, in ginocchio. Il completo chiaro faceva intuire una posizione sociale abbastanza elevata. Doveva anche essere fatto su misura, perché negli outlet che frequentava non aveva mai visto un completo così eleggante andare bene ad un uomo della sua taglia.
L’uomo che lo fronteggiava, invece, aveva le spalle molto larghe e l’aria non tanto intelligente. Era affiancato, alla sua destra, da un uomo più mingherlino, ma con un completo della stessa qualità di quello della vittima. Colin avrebbe pensato ad una rissa scatenata per un nonnulla e avrebbe girato i tacchi, se non fosse che, improvvisamente, l’aria si riempì del rumore di un proiettile sparato e il corpo dell’uomo, ormai privo di vita, si accasciò in mezzo al fango. Una striscia di sangue si creò lungo la fronte dell’uomo sconosciuto, mentre quello di Colin, freddo quasi come quello della vittima, si gelò nelle vene. L’uomo che aveva sparato si girò, con la stessa calma di una persona che va a fare una passeggiata, verso di lui e sgranò gli occhi.
“Cosa hai visto?”
Sebbene l’alcool in corpo rallentasse notevolmente i suoi movimenti, in quell'attimo, il suo cervello lavorò come mai prima d’allora. Senza nemmeno voltarsi, cominciò a correre. E quello era tutto ciò che ricordava.
 
Un uomo dal completo scuro arrivò nella stanza in cui Colin aveva aspettato per oltre mezz’ora. L’uomo si presentò come agente Williams e gli strinse la mano.
“La sua caduta ha sia un lato positivo che uno negativo, signor Smith. Il lato positivo è che è riuscito a sfuggire al suo assalitore. Il lato negativo è che non ricorda assolutamente nulla dell’uomo che l’ha inseguito. Ha riconosciuto qualcuno nelle foto segnaletiche?”
Colin scosse la testa, ancora dolorante.
“Abbiamo trovato il cadavere dell’uomo che ci ha indicato. Il suo nome era Kevin Wright e… Ha intenzione di testimoniare, signor Smith?" 
Colin annuì il capo, il tanto che bastava per non fargli scoppiare la testa. L'uomo di fronte a lui continuò a parlare.
"Abbiamo fonti certe che fosse implicato in un grosso giro della droga e, finché non recupererà la memoria-”
“Un momento.” Colin si rizzò a sedere, completamente lucido. “Grosso giro della droga? Sentite, sono un avvocato, so già cosa volete dire, io-”
“Lo so che è un brutto colpo per lei, signor Smith. Ma lei sa, anche meglio di me, che necessita del programma di protezione testimoni.”




Buon pomeriggio, a tutti voi lettori (incrocio le dita perché ce ne siano) che siete arrivati fino a questo punto della pagina. Per ora, questo è solo il prologo e la storia si svilupperà nei prossimi capitoli, dove avremo finalmente l'entrata in scena di Kate. 
Spero la lettura sia piaciuta e, per qualunque motivo, lasciate anche una recensione oppure potete contattarmi per messaggio. Sono sempre qui! 
A presto, 
Tourmaline
   
 
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