Bentornati a leggere le avventure
della famiglia Holmes-Watson (in stretto ordine alfabetico).
Questa storia ha un tono un po’
diverso dalle altre.
Ringrazio chi stia leggendo la
serie, chi lasci commenti (sempre bellissimi, davvero grazie) e chi si segni le
storie fra le preferite/ricordate/seguite.
Naturalmente i personaggi non
sono di mia proprietà (mi basterebbero gli attori), ma i diritti sono
degli eredi di Sir Arthur Conan Doyle, mentre quelli della serie sono di Steven
Moffat e Mark Gatiss e della BBC.
La storia non ha scopo di lucro.
Se dovesse esserci qualcosa che
ricordi qualche altra fan fiction, chiedo scusa, ma sarebbe assolutamente
involontario.
Buona lettura! J
L’attesa
Era una mattina come tutte le
altre al 221B di Baker Street.
John aveva preparato la
colazione, mentre Jane e Sherlock si preparavano per uscire.
Sherlock era perso nel proprio
palazzo mentale, seguendo le tracce di un assassino per un caso che gli aveva
sottoposto Lestrade.
Queen stava pulendo la propria
ciotola, con evidente soddisfazione.
Jane stava parlando del compito
in classe di inglese e dell’interrogazione di chimica che avrebbe affrontato a
scuola.
“Nell’intervallo fra una lezione
e l’altra stavo pensando di appartarmi nello sgabuzzino dei bidelli con Chris e
farmi una bella scopata. – disse Jane, fissando il padre – Sei d’accordo papà?”
“Sì, va bene.” rispose John.
Persino Sherlock si era reso
conto di cosa avesse detto Jane, quindi si voltò preoccupato verso John.
Jane aveva allungato una mano e
ne aveva coperto una del padre:
“Papà stai bene?” chiese Jane,
inquieta.
John alzò gli occhi dalla tazza
di tea che aveva davanti e che non aveva toccato.
Sherlock notò che non aveva mangiato
nemmeno le fette biscottate con la marmellata.
“Va tutto bene, tesoro. – rispose
John perplesso – Perché me lo domandi?”
Jane alzò un sopracciglio, con la
tipica espressione che assumeva quando sapeva che qualcuno le stava mentendo.
John sorrise, perché gli
ricordava tanto Sherlock, quando faceva così.
Si chiese come fosse stato
possibile che sua figlia fosse cresciuta così simile all’uomo che amava, più
che a lui stesso.
“Ti ho appena finito di dire che
pensavo di farmi una bella scopata con Chris e tu mi hai detto che andava bene.
– lo informò Jane, con tono critico – Quindi direi che tu non mi stessi
ascoltando. A meno che tu non sia davvero d’accordo, allora …”
“Assolutamente no! – la
interruppe John – Scusa, tesoro, non ti stavo ascoltando.”
Jane fissò il padre, cercando di
dedurlo come avrebbe fatto Sherlock.
Il consulente investigativo stava
facendo la stessa cosa.
Persino il cane alzò gli occhi su
John, anche se Queen si stava chiedendo se l’umano biondo avrebbe messo altro
cibo delizioso nella sua ciotola.
Il dottore si sentì leggermente
osservando ed arrossì:
“Va tutto bene, davvero. –
assicurò con un sorriso – Stavo pensando ad un paziente.”
Jane decise di ritenersi
soddisfatta dalla risposta.
Sapeva quanto il padre fosse
coscienzioso come medico.
Sherlock, invece, continuò a
fissare il marito in modo sospettoso.
John se ne accorse, ma non
commentò.
“È ora che tu vada. – disse
rivolto alla figlia – Altrimenti farai tardi.”
Jane finì il proprio tea, prese i
libri e baciò il padre.
“Buona giornata, tesoro. – le
augurò John – Concentrati bene per il compito di inglese e l’interrogazione di
chimica.”
Jane sbuffò come se fosse stato
più che ovvio che sarebbe andato tutto bene.
“Come minimo prenderò otto in
entrambe le materie. – affermò con sicurezza – Anzi, mi aspetto anche di più.
Sai che nessuno è meglio di me in inglese, mentre chimica l’ho ripassata con
Sherlock. Lui ha detto che andava bene, quindi prenderò sicuramente il massimo.
A stasera.”
“A stasera.” ribatté John con un
brivido.
Gli faceva ancora effetto che, da
qualche tempo, la figlia avesse smesso di chiamare Sherlock zio, ma si
limitasse al nome.
Jane non aveva dato molte
spiegazioni su questo cambiamento, a parte il fatto che non fosse più una
bambina e che Sherlock fosse il marito di suo padre, quindi non certo uno zio.
John si era detto che avrebbe indagato
meglio su questa cosa, ma, poi la situazione si era fatta complicata.
Le avrebbe, comunque, parlato
presto.
Immerso nei propri pensieri, non
si era reso conto che Sherlock si fosse avvicinato a lui.
Quando il consulente
investigativo gli prese il polso, il dottore sussultò.
John alzò gli occhi in quelli
azzurri trasparenti del marito.
Poteva leggervi una profonda
preoccupazione.
“Cosa c’è che non va?” chiese
Sherlock, con quel tono di voce basso e profondo che faceva sempre rabbrividire
John.
Il dottore annuì.
Era giunto il momento di parlare
con il marito.
“Possiamo sederci?” domandò con
un sorriso.
“Non stai bene.” era una
constatazione, non una domanda.
Il cuore di Sherlock mancò un
colpo.
Se John non gli aveva parlato
prima, doveva essere qualcosa di grave.
Il dottore sospirò:
“Mi hanno diagnosticato un
tumore. – sussurrò – Fra due giorni mi sottoporranno ad una biopsia per
stabilirne il tipo e la gravità. A seconda di quello che vedranno, potrebbero
procedere anche con un piccolo intervento.”
Sherlock strinse le labbra,
cercando di mantenere il controllo e di non farsi prendere dal panico.
Non poteva dimostrare di avere
paura.
Non doveva.
Non davanti a John.
“Da quanto sai questa cosa?”
chiese Sherlock con una traccia di rabbia nella voce profonda.
“Sai che mi sottopongo a regolari
checkup. – rispose John, ignorando la rabbia del marito – Circa quindici giorni
fa ho ricevuto gli esiti di un normale controllo che ha evidenziato delle
anomalie ai polmoni. Ho fatto esami più approfonditi e sembra che ci sia qualcosa.”
“Perché non me ne hai parlato
prima?” stavolta l’ira di Sherlock era salita più in superficie.
John scosse la testa, come per
scusarsi:
“Speravo che non fosse nulla di
serio.” rispose.
Sherlock si rese conto che gli
stava stringendo il polso con una forza tale che gli stava facendo male, ma
John non si era lamentato, perché capiva la rabbia e la paura che il marito
stava provando.
Al suo posto, si sarebbe sentito
nello stesso modo.
“Mi dispiace.” sussurrò John.
Sherlock lo abbracciò:
“Andrà tutto bene. – disse,
stringendo forte John – Andrà tutto bene.”
Rimasero così per un tempo
indefinito, in silenzio, con la paura che aleggiava fra di loro.
Sherlock fece il suo ingresso al
Diogene’s senza preannunciarsi al fratello.
Mycroft stava leggendo dei documenti,
ma non fece commenti, avendo notato l’espressione del fratellino:
“Cosa è successo?” chiese
preoccupato.
“Hanno diagnosticato un tumore a
John e dopodomani gli faranno una biopsia.” la risposta di Sherlock era stata
secca, ma Mycroft aveva sentito in essa tutta l’angoscia e la paura che il
fratello sentiva nel profondo del cuore.
“Fammi fare qualche telefonata. –
rispose il maggiore degli Holmes – Mi farò dire quale sia il tipo di problema e
farò arrivare il miglior specialista che ci sia sulla piazza.”
“John ha detto che il medico che
ha consultato è bravo.” ribatté Sherlock.
“Non lo metto in dubbio. –
concordò Mycroft – Avere subito un secondo consulto non farà male. Non
succederà nulla a John.”
Mycroft fece alcune telefonate,
ma Sherlock non era andato via, era rimasto ad aspettare.
“Fra un’ora al massimo avremo il
nostro esperto.” Mycroft cercò di rassicurare il fratello.
Sherlock non lo stava guardando,
sembrava perso dietro a qualche pensiero:
“Se dovesse succedere qualcosa a
John, perderei anche Jane? – domandò con un sussurro – In fin dei conti, io non
ho mai potuto adottarla, perché avremmo dovuto avere il permesso di Mary. Non
ho legami con Jane. Esiste il contratto prematrimoniale in cui John mi designa
come tutore di sua figlia, ma potrebbe essere impugnato. Potrebbero affidarla a
Harry o Mary potrebbe tornare. – si fermò, tornando a fissare gli occhi in quelli
del fratello – Se li perdessi entrambi, non lo potrei sopportare.”
Mycroft si alzò dalla poltrona e
andò dal fratello, appoggiandogli, con un gesto inconsueto, una mano sulla
spalla.
“Non perderai né John né Jane. –
lo rassicurò in tono deciso – Lotteremo insieme contro tutto e contro tutti,
affinché nessuno vi possa separare. Te lo prometto, Sherlock.”
Sherlock, con una mossa
altrettanto inusuale, prese la mano del fratello e la strinse, in segno di
gratitudine.
Erano trascorse alcune ore, da
quando Sherlock era andato da Mycroft, che al Diogene’s si presentò John.
Quando lo vide entrare, Mycroft
si alzò e gli andò incontro:
“Quanto è grave la situazione?”
chiese preoccupato.
John non si mostrò sorpreso.
Sapeva che il legame fra i due
fratelli era molto più profondo di quello che loro stessi volessero ed
avrebbero mai ammesso.
“Discretamente grave.” rispose
John.
Mycroft cercò di mostrarsi fiducioso:
“Ho contattato il Professor
Bertrand Clarke. – lo informò – Ha già in mano la tua cartella clinica e sarà
presente alla biopsia.”
John non si arrabbiò per il fatto
che Mycroft fosse riuscito a procurarsi la sua cartella clinica e che avesse
convocato un luminare nel campo della sua malattia.
Questo era il tipico modo di
agire del cognato, che si prendeva cura degli altri senza chiedere se fossero
d’accordo sul suo modo di agire o meno.
“Avrei bisogno di chiederti
qualche favore.” disse, invece, John.
Mycroft gli indicò la poltrona,
perché si accomodasse:
“Dimmi pure. – lo invitò, sedendosi
a sua volta – Farò qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno.”
“Visto quello che sta succedendo
e quello che potrebbe accadere, ho bisogno di un avvocato che sistemi alcune
cose. – disse John – Tu sai che la situazione di Jane è molto complicata. Devo
trovare un modo per assicurare che Jane resti con Sherlock, nel caso in cui le
cose volgano al peggio. Ho pensato che forse tu …”
John non finì nemmeno la frase
che Mycroft aveva già in mano il telefono.
Parlò per qualche minuto con
qualcuno e fissò un appuntamento per John per qualche ora più tardi.
“Vengo con te. – lo informò
Mycroft – In questo modo saremo in due a parlare con l’avvocato e saremo sicuri
che faccia tutto quello che gli chiediamo.”
John guardò Mycroft con
gratitudine:
“Grazie per quello che fai per
noi.” disse con un sorriso.
Mycroft ricambiò il sorriso:
“Il modo migliore che hai per
ringraziarmi è fare sì che vada tutto bene.”
“Farò tutto quello che è in mio potere per far
andare bene le cose, ma temo di avere poca voce in capitolo. – sospirò John –
Un’altra cosa. Promettimi che starai vicino a Sherlock, se mi dovesse succedere
qualcosa, e che farai di tutto per aiutarlo a tenere Jane con sé.”
“Te lo prometto, John. – assicurò
Mycroft in tono deciso – Noi siamo una famiglia. Strana e caotica, certo, ma
non lascerò mai solo né mio fratello né mia nipote.”
“Grazie.”
I due giorni seguenti trascorsero
lenti, per Sherlock e John.
I due uomini riuscirono a non
fare a capire a Jane che ci fosse un dolore immenso che incombeva sulla loro
famiglia.
John non aveva voluto dire nulla
a Jane, perché non si preoccupasse ed avesse paura di perdere l’unico genitore
che aveva sempre avuto al proprio fianco.
Sherlock non era d’accordo,
perché sapeva che Jane era una ragazzina molto più matura dei suoi quindici
anni e che si sarebbe arrabbiata per essere stata tenuta all’oscuro di tutto.
Malgrado ciò, rispettò il
desiderio di John e non disse nulla a Jane.
In quei due giorni, cercarono di
ridere e scherzare come avevano sempre fatto, malgrado il loro cuore fosse
pieno di dubbi e paure.
La notte prima dell’intervento,
Sherlock e John andarono a letto abbastanza presto, ma fecero fatica a prendere
sonno.
Sherlock tenne stretto a sé John,
circondandolo con le proprie braccia e mettendo una gamba sulle sue.
Avvolgendolo in questo caldo
abbraccio, era come se tentasse di proteggerlo dal male che stava cercando di
distruggerlo dall’interno.
Arrivò il giorno della biopsia.
John avrebbe dovuto trascorrere
qualche giorno in ospedale, quindi informò Jane che sarebbe partito per un
convegno, nel pomeriggio, e che si sarebbero rivesti due giorni dopo:
“Mi raccomando, fai a modo ed
ubbidisci a Sherlock come se fossi io.” disse prima di uscire.
“Uffa papà! – sbuffò Jane – Non
hai bisogno di dirmi queste cose, non sono più una bambina!”
“Hai ragione. – sorrise John,
dandole un bacio sulla testa – Fai a modo lo stesso.”
Jane uscì.
John guardò Sherlock:
“Andiamo?” chiese il dottore al
marito.
“Andiamo.” rispose Sherlock.
Durante il tragitto, né John né
Sherlock parlarono, persi nei loro pensieri.
Arrivati in ospedale, John venne
ricoverato, mentre Sherlock lo aiutava a sistemare la sua roba, entrarono
Mycroft e i due medici che si sarebbero occupati della biopsia, per spiegare
come avrebbero proceduto.
Pochi minuti dopo, John venne
portato via e sorrise a Sherlock, rassicurante.
Sherlock si sedette in una
poltrona, in attesa, mentre Mycroft si accomodava su un’altra.
I medici avevano spiegato che
sarebbe stato un intervento lungo.
Jane era arrivata a scuola e si
era dimenticata di far firmare al padre un’autorizzazione per una gita.
Dato che il padre sarebbe partito
solo al pomeriggio per il convegno, durante la pausa mensa, decise di andare in
ospedale da John per fargliela firmare e poterla presentare agli insegnanti.
Quando arrivò in ospedale,
sorridente, venne accolta da un’infermiera che si comportò in modo strano.
La donna sembrava quasi
imbarazzata, come se non sapesse cosa dire.
Jane rimase perplessa.
Cominciò a preoccuparsi quando le
venne incontro Sarah Saweyr.
“Ciao Jane. – la salutò la donna
– Cosa ci fai qui?”
“Sto cercando mio padre. –
rispose Jane, in tono secco – Cosa sta succedendo?”
“Nulla …” cercò di rassicurarla
Sarah, ma Jane non le diede retta e corse verso lo studio del padre.
Lo trovò vuoto, come se quella
mattina non fosse stato usato:
“Dove è mio padre?” domando
cominciando a preoccuparsi.
Sarah sospirò. Ormai il danno era
fatto:
“Vieni con me.”
Jane seguì Sarah fino ad una
stanza, dentro la quale c’erano Sherlock e Mycroft in attesa.
La ragazza li guardò sorpresa:
“Che cosa sta succedendo? –
chiese in tono secco – Perché siete in questa stanza? Dove è mio padre?”
“Cosa ci fai qui? – domandò
Sherlock di rimando – Dovresti essere a scuola!”
Jane aveva capito che le avevano
tenuto nascosto qualcosa che riguardava suo padre.
Si sentì trattata come una
bambina ed iniziò ad arrabbiarsi:
“Non rispondere ad una domanda
con una domanda! – sbottò – Dove. È. Mio. Padre!”
Sherlock valutò che non fosse più
il caso di negare l’evidenza:
“Lo stanno operando.” rispose.
Jane spalancò la bocca, senza
riuscire a dire nulla.
Provava un misto di sentimenti
contrastanti.
Si sentiva preoccupata,
arrabbiata, spaventata e tradita.
“Per cosa?” mormorò.
“È una biopsia. – rispose
Sherlock – Gli hanno diagnosticato un tumore.”
“E NON MI HAI DETTO NULLA! – urlò
con tutto il fiato che aveva in corpo – COME TI SEI PERMESSO DI TENERMI
NASCOSTA UNA COSA DEL GENERE!”
Sherlock non reagì.
Capiva la rabbia e la paura di
Jane.
Erano le stesse che provava lui:
“Tuo padre non voleva che ti
preoccupassi. – rispose con calma – Io ho solo rispettato un suo desiderio.”
“E da quando fai quello che ti
chiede mio padre? – sibilò Jane – Si tratta di MIO padre. Io ho il diritto di
sapere cosa stia succedendo.”
“Ed è mio marito. – ribatté
Sherlock – Mi ha chiesto di non dirti nulla. Non ero d’accordo con lui, ma ho
rispettato la sua volontà, perché volevo che affrontasse questa giornata in
modo sereno.”
“Potevi dirmelo lo stesso. –
insisté Jane caparbiamente – Non gli avrei fatto capire che sapevo tutto.”
Sherlock le si avvicinò, ma non
la toccò.
“Tuo padre è il peggior bugiardo
che io conosca. – mormorò Sherlock – In certi casi, questo è un difetto, ma in
lui, è uno dei suoi maggiori pregi: la sincerità e la palese dimostrazione dei
propri sentimenti. Tu sei come lui, Jane. Sei solare, aperta, sincera e
naturale. Basta guardarti in faccia e negli occhi per capire cosa provi. Se ti
avessi detto qualcosa, persino tuo padre se ne sarebbe accorto. Fra la tua
rabbia e la sua tranquillità, ho deciso di dare la prevalenza a quest’ultima.
Puoi essere arrabbiata con me, ma non cambierà le cose.”
Jane strinse i pugni, respirando
rumorosamente.
Come faceva John quando era
furioso.
Sherlock avrebbe voluto
abbracciarla, ma valutò che non fosse ancora il momento.
Gli occhi di Jane si stavano
riempiendo di lacrime, ma lei le ricacciò indietro.
“Quanto è grave la situazione?”
domandò.
“Ce lo diranno alla fine
dell’intervento. – rispose Sherlock – Dobbiamo aspettare.”
“Io resto qui.” disse Jane, con
un tono che non ammetteva repliche.
I suoi occhi, il suo volto e la
posa del suo corpo dicevano che non sarebbero riusciti a mandarla via di lì, se
non portandola via di peso.
“Naturalmente.” rispose Sherlock.
Passò quasi mezz’ora prima che
Jane dicesse qualcosa.
“Mi dispiace. – mormorò senza
alzare gli occhi – Non volevo urlare con te. Hai fatto bene a rispettare i
desideri di papà. È solo che …”
Si interruppe perché si era
accorta che, se avesse continuato a parlare, le avrebbe tremato la voce e non
voleva che il marito del padre si accorgesse di quanto fosse spaventata.
“Anche io sono terrorizzato. – le
confidò Sherlock – Non so come reagirei se le cose non andassero bene.”
Jane si stava tormentando le
dita.
“Se papà non dovesse farcela, –
chiese titubante – tu mi terrai con te?”
Jane alzò gli occhi blu e li
fissò in quelli azzurri di Sherlock.
In quello sguardo disperato,
Sherlock rivide gli occhi di John e, per un attimo, gli mancò il respiro.
Si alzò, si avvicinò a Jane e si
accucciò davanti a lei:
“Premesso che tuo padre starà
benissimo, – rispose con dolcezza – nessuno ti porterà via da me.”
Jane, finalmente, si lasciò
andare e buttò le braccia al collo di Sherlock, che le accarezzò i lunghi
capelli biondi.
Le ore trascorrevano lente, nella
stanza di John.
Nessuno veniva a riferire qualcosa
su come stesse procedendo l’operazione.
Jane e Sherlock si tenevano per
mano, come per darsi conforto e forza l’uno con l’altra.
“Vuoi sapere perché non ti chiamo
più zio?” chiese Jane, improvvisamente.
Sherlock la guardò, senza
lasciarle la mano:
“Se vuoi.” rispose.
Jane si morse il labbro
inferiore, prima di iniziare a parlare:
“Ho cominciato a chiamarti zio da
quando ho imparato a parlare e tu non eri sposato con papà. – disse – Per me
eravate tutti zii della stessa importanza, quindi non era strano chiamarti
così. Quando tu e papà vi siete sposati, ero troppo piccola per capire che
avrei potuto chiamarti in modo diverso. A me sembrava che tutto fosse rimasto
come prima, quindi non ho pensato che la nostra relazione fosse cambiata. Con
il tempo, chiamarti zio è diventata un’abitudine, fino a quando non ho
realizzato che, in realtà, tu non sei uno zio.”
Jane fece una pausa, come se
stesse cercando le parole per spiegare qualcosa di complicato:
“Tu capisci che papà è papà,
vero? – chiese incerta – Lui è unico, per me. Non potrei mai chiamare papà un
altro uomo perché c’è lui, capisci? Se non avessi lui, tu saresti il padre che
vorrei avere. Io ti voglio bene come se tu fossi un mio altro padre, però se ti
chiamassi papà mi sembrerebbe di fare un torto a lui.”
“Né io lo vorrei. – le venne in
aiuto Sherlock – John è tuo padre ed io non mi aspetto che tu mi chiami papà.”
Jane sembrò leggermente
sollevata, come se la parte difficile fosse stata superata:
“Eppure, per me, tu sei di poco
inferiore a lui. – continuò – Quindi, chiamarti zio era come ridurre il tuo
ruolo nella mia vita, ma, allo stesso tempo, non posso chiamarti papà.
Bisognerebbe che inventassero una parola per definirti, ma, dato che non
esiste, ho pensato che chiamarti per nome andasse bene lo stesso.”
“Va benissimo se mi chiami per
nome. – le sorrise Sherlock – Io so quanto sia profondo il nostro legame e non
ho bisogno di epiteti per avere delle conferme. Basta che non mi chiami mamma.”
Sherlock e Jane si fissarono seri
per qualche secondo, poi scoppiarono a ridere di gusto, allontanando la
tensione dai loro corpi per qualche minuto.
Mycroft li osservava, con un
sorriso soddisfatto sul volto.
Vederli insieme così uniti, era
una gioia anche per il suo cuore di ghiaccio.
Jane era felice di avere chiarito
questa cosa con Sherlock.
Però il momento di serenità passò
in fretta.
L’attesa si stava facendo sempre
più lunga.
Jane appoggiò la testa alla spalla
di Sherlock, sempre tenendogli la mano.
“È normale che ci mettano tanto?”
domandò cercando di non sembrare spaventata.
“Certo. – le rispose subito
Sherlock – Ci hanno detto che ci sarebbe potuto volere tanto tempo, ma che non
dovevamo preoccuparci perché è una questione di sicurezza per il paziente.”
Jane annuì, rassicurata, ma
Sherlock si stava chiedendo la stessa cosa.
All’improvviso, Jane aggrottò
leggermente la fronte, come se le fosse venuto in mente un dubbio:
“Papà ci sta facendo prendere un
bello spavento, giusto?” chiese.
“Sì.” concordò Sherlock con una
mezza risata.
“Dobbiamo trovare una punizione,
che ne dici?” propose Jane.
Sherlock rifletté per qualche
minuto:
“Potremmo costringerlo a farci le
coccole per dieci minuti a testa tutti i giorni per i prossimi due mesi. Che ne
dici?”
Jane annuì:
“Sono assolutamente d’accordo. –
disse – Glielo comunicheremo appena si sveglierà.”
Jane e Sherlock si strinsero
forte la mano, in segno di conferma del patto appena stipulato.
Il tempo sembrava essersi fermato.
Sherlock stava diventando sempre
più impaziente, ma rimaneva seduto al fianco di Jane, tenendole la mano, per
non farle capire quanto si stesse preoccupando.
Finalmente la porta si aprì e due
medici, ancora in tenuta da sala operatoria, entrarono nella stanza.
“Signor Holmes, potremmo
parlarle?” chiese il più anziano dei due.
Era il luminare convocato da
Mycroft.
Sherlock si voltò verso Jane:
“Vado fuori a parlare con questi
signori. – le disse – Quando tornerò, non ti terrò nascosto nulla. Ti fidi?”
Jane lo studiò per qualche
secondo:
“Papà si fida di te. – rispose
Jane – Quindi anche io mi fido di te. Come sempre.”
Jane rimase nella stanza con
Mycroft.
I minuti passavano lenti, come se
fossero ore.
Jane fu tentata varie volte di
alzarsi ed andare fuori, ma sapeva che Mycroft glielo avrebbe impedito.
Quando la porta si aprì, scattò
in piedi, piantando uno sguardo ansioso negli occhi di Sherlock.
Tentò di decifrarne
l’espressione, ma la tensione le impediva di essere obiettiva.
“È andato tutto bene. – esordì
Sherlock – John sta bene. Tra qualche minuto lo porteranno in terapia
intensiva, dove trascorrerà la notte. Si tratta di una cosa più precauzionale
che necessaria. Hanno asportato una piccola massa tumorale che ora faranno
analizzare. Non c’è presenza di metastasi e non c’erano altre masse. Le macchie
evidenziate dalla TAC sembrano attribuibili ad una infezione. Dovrà sottoporsi
a delle cure ed in futuro potrebbero essere necessarie altre biopsie, ma, per
ora, sembra che tutto sia andato nel migliore dei modi.”
Sherlock smise di parlare.
Sentiva su di sé lo sguardo
scrutatore di Jane che stava valutando se stesse omettendo qualcosa.
Jane si accorse di avere
trattenuto il respiro solo quando prese fiato:
“Quando potrò vedere papà?”
domando con un sospiro di sollievo.
“Domani. – rispose Sherlock – Lo
terranno sotto anestesia per il resto della giornata.”
Jane annuì.
“Vorrei stare qui con lui. – le
disse Sherlock – Ci sarà Alex a prendersi cura di te. Va bene?”
Jane annuì ancora.
Abbracciò Sherlock con trasporto:
“Quando si sveglierà, gli dirai
che gli voglio bene?”
Sherlock ricambiò l’abbraccio
sorridendo:
“Glielo dirai tu stessa. Domani
te lo lasceranno vedere. Sono già d’accordo con i dottori.”
Jane lo lasciò andare:
“Per ogni giorno che resterà con
noi, gli faremo capire quanto lo amiamo e quanto sia importante che non ci
lasci. Ci stai?”
“Assolutamente.” rispose
Sherlock.
“La accompagno a casa io. – si
offrì Mycroft – E mi accerterò che mangi qualcosa.”
Sherlock sorrise al fratello:
“Grazie.” disse sinceramente.
Mycroft ricambiò con un ghigno
sornione sulla faccia:
“Non ringraziarmi troppo. –
sogghignò – Vedrai che troverò il modo di farmi ripagare.”
Sherlock non replicò.
Mycroft fissò gli occhi stanchi
del fratello.
Si chiese cosa avesse omesso di
dire alla figlia di John, ma non fece domande, perché lo avrebbe scoperto
comunque.
Lo salutò con un cenno del capo:
“Andiamo, signorina. – sollecitò
gentilmente Jane – Se tuo padre ti dovesse trovare sciupata, ci prenderemo
tutti una bella lavata di capo.”
Jane rise e seguì Mycroft fuori
dalla stanza.
Sherlock rimase solo.
La sua espressione mutò.
Il viso si fece scuro.
Le altre macchie erano piccole
masse tumorali non asportabili.
Le cure sarebbero state lunghe.
Solo il tempo avrebbe saputo dire
quanto sarebbero state veramente utili.
Sherlock, però, non avrebbe
permesso a John di arrendersi, di lasciare Jane e lui stesso da soli.
L’attesa non era terminata.
Era appena iniziata.
E sarebbe stata lunga.
Angolo dell’autrice
OSP!
Si vede che inizia a venire più
fresco?
Questa shot è venuta un po’
angst.
A mia discolpa, posso dire che mi
è servita per approfondire il legame fra Sherlock e Jane, spiegando l’uso del
termine “zio” da parte della figlia di John per chiamare il marito del padre
nelle scorse shot e per giustificare il fatto che non lo chiamerà più così da
ora in avanti.
Ci tengo a precisare che non so
nulla di medicina e che mi sono inventata di sana pianta la malattia di John.
Spero che la storia vi sia
piaciuta lo stesso, anche se c’è stato meno da ridere.
Con la prossima prometto di
tornare a scrivere qualcosa di più leggero!
Ogni commento, naturalmente, è
sempre ben accetto.