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Autore: Bolide Everdeen    20/08/2015    2 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 11, Serena Hamilton.]
Perciò da quel giorno, esternò la sua ricerca in ogni sua azione, rendendo ognuna di essa frizzante, esplosiva, fragrante; così da donarsi all'attenzione della gente e, soprattutto, a quella di suo padre. Ridendo quando non era necessario ridere, intervenendo quando il silenzio si poteva rivelare vitale, irrompendo nella furia delle persone con un sorriso naturalmente appuntato sulle labbra, impazzendo quando i limiti parevano asfissiarla. Nessuno mai la notava, però lei avvertiva gli occhi di suo padre aggirarsi per la folla, tentando di scrutare fino al momento in cui una luce sarebbe risaltata dinnanzi ad essi. Lei, un probabile faro all'interno della sua fantasia, aveva l'obiettivo di scorgere un bagliore. E tentava in ogni maniera, strutturando ipotesi strettamente collegate con i suoi sogni.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Father's eyes

«Secondo te, se andassi su una stella, mio padre mi vedrebbe?»

Le parole di Serena fuoriuscirono impetuose, illuminate dalla prospettiva della possibile verità racchiusa in esse, concitate da quando il concetto era affiorato alla sua mente. Matt, rannicchiato accanto a lei nel prato del distretto 11, la squadrò per un momento con un'aria stupefatta da quella vanità domandata, da quella follia posta da una bocca abituata a tali colori, quasi avesse obliato l'abitudine con cui quelle questioni venivano interpretate dalle sue orecchie, e replicò con un placido e funebre:«Non potresti mai arrivare su una stella, lo sai.»

Il sorriso sul volto della ragazza vacillò per un momento, ed anche il suo umore. Perciò, anche il suo migliore amico si stava fossilizzando sulla vita come un adulto, stava lievemente evadendo dalla loro dimensione, l'abbandonava nella sua autonomia durante la sua fitta e fervida opera di ricerca del padre. Lui era una personalità onnipresente ed inesistente, un'ombra persistente nel sole che affollava i campi, come ogni giorno accadeva. C'era, e non c'era. Era strano; tutti quelli che si potevano classificare come suoi genitori di genere maschile si erano dissipati, l'avevano costretta a fronteggiare quella totale mancanza di sporgenze sotto le quali porsi in solitudine. Ed ora, pareva evadere anche Matt. Trovò che fosse impossibile biasimarla per la sua carenza d'animo, e poi rimbeccò:«Non ti ho chiesto se per te potrei arrivare su una stella. Perché devi metterti a pensare come un adulto? Ti ho domandato se mio padre mi vedrebbe se andassi su una stella.»

Impostò varie e variegate intonazioni su quest'ultima interferenza: una conclusione, un'esclamazione, un'ulteriore questione. Nell'oscurità della sera, fu il turno del ragazzo per redarguire l'amica, e qualcosa di lancinante le squarciò il petto, una volta di più, quella sera. Forse, era davvero giunto il momento in cui l'avrebbero lasciata da sola con le sue fantasie. Aveva sempre notato l'attitudine delle persone con più esperienza di radere ogni sogno, ogni immaginazione con una breve frase, così da permettere alla superficie dei satelliti radicati sulla sua mente di collidere contro un terreno, quello su cui lei lievitava. La Terra. Era un posto talmente sgradevole, però. Adoperava quell'espressione, così tendente a semplificare e infantile, per poter debellare le vere tonalità del mondo da lei sofferte, quelle le cui capacità consistevano nel ferire, e nel concedere di risorgere a nuove attitudini. A nuovi desideri. Un modo alternativo di reagire, a lei sola appartenente, mai esitante.

Quando aveva otto anni, suo padre adottivo, Gevanni, era scomparso. Dissipato. Morto, lo definiva la comune gente. E lei non pensò mai che il posto in cui si era trasferito era un ade di fiamme, di tortura, o peggio, di oscurità, ma che rispecchiasse il merito instaurato nelle sue spalle durante la sua vita. Gevanni aveva mantenuto il più carezzevole, paterno, protettivo comportamento con lei, un comportamento il quale non poteva essere destinato all'oblio e alla negazione di una cera pace. E perciò Serena gli aveva dedicato, nella sua fantasia, una sorte tanto splendente, convincendosi che l'unico fallo di suo padre consisteva nell'averla privata della sua cautela, della sua dolcezza, della sua attenzione. Sensazioni spesso manifestate in lei come folate di gelido vento, come nostalgia e mancanza. Però, s'illudeva che Gevanni stesse bene. Però, una delle prime cose che la ragazza apprese dopo la sua morte, fu il nascondiglio di alcune verità, svelate da colei sempre denominata “mamma”, Sarah.

Accadde il giorno successivo alla scomparsa di Gevanni, il giorno in cui Serena tentava di interpretare nel cielo la posizione della persona volatilizzata, quale corrente seguisse per potersi congiungere con il suo obiettivo. Allora Sarah si era accomodata accanto a lei, distogliendola da quello che sarebbe potuto essere l'ultimo saluto a suo padre, con una breve frase:«Serena, ti devo rivelare delle cose importanti. Sarebbe bene che tu mi ascoltassi, per favore.»

Restia, lei decise di dedicare la sua attenzione alle persone presenti sulla Terra, e, perciò, lontane dai luoghi idilliaci in cui Gevanni viaggiava. Era sicura che lui l'avrebbe compresa. Con la serietà concessa ad una bambina di otto anni, s'incentrò sulla voce di sua madre, per smentire ogni certezza instaurata fino a quel momento nella sua mente, per discostarsi dal dolore che la morte di suo padre a lungo termine avrebbe potuto generare:«Serena, tu non sei nata da me e da Gevanni. Sei stata adottata. Eri rimasta sola; tua madre era morta di malattia, mentre tuo padre... se n'era andato a Capitol City. Non sapevo la ragione, però conoscevo la tua vera madre, ed io non potevo lasciare una bambina piccola in mano a una persona in quelle condizioni. Abbiamo iniziato ad allevarti, e quando lei è scomparsa... non saremmo riusciti a portarti all'orfanotrofio. Abbiamo cercato di darti ciò che i tuoi veri genitori non ti potevano dare il meglio possibile, e speriamo di non averti mai delusa. Anche se ora... ora sarà difficile per me, senza Gevanni.»

Qualcosa era sgorgato dagli occhi di Sarah, gli occhi tanto differenti da quelli della bambina, gli occhi che nessuno aveva mai comparato per lasciare fluire una fierezza famigliare, per ottenere un sangue che brillava contemporaneamente d'orgoglio in differenti vene. Non esisteva quella fierezza famigliare che si tramandava per generazioni, come il maggiore trofeo di un popolo, anche se Serena non aveva mai notato la sua assenza, né questo aveva scaturito fonti di dispiacere. No, erano i valori che scorrevano nella sua circolazione, e non l'aspetto fisico. Ora se n'era accorta. Ora si era accorta di tutto quanto, e di nulla nel solito istante, ora si manifestava la sua confusione, ora le viste si duplicavano nelle sue orbite.

Quindi, non era stata sua madre a partorirla, ma a crescerla, ad amarla e mai ripudiarla sì. Per una colpa che non le apparteneva, e mai avrebbe dovuto scontare. Per la sua azione, anche se si fosse trattata di una fredda, rigida azione di coltivazione di una bambina, senza affetto o attenzione impulsiva, si sarebbe classificato come un merito magnificente, splendente, qualcosa da imitare. In più, Sarah e Gevanni avevano frapposto anche nei loro gesti amore. Gli occhi di Serena si dilatarono, lasciando trapelare in loro l'ammirazione provata nei confronti di quella donna che, nonostante tutto, era ancora sua madre. E l'abbracciò, semplicemente. L'abbracciò, e non le permise di andare fino a quando le lacrime non si seccarono sulla soglia della sua pelle, e la bambina avvertì di aver restituito solo un minimo di polvere di quella emessa da sua madre nell'assumere quel compito. Un compito a cui nessuno l'aveva mai addetta. Rimasero così, fino a quando le ombre del suo presente non si manifestarono.

Quindi, aveva un padre ancora vivo, a Capitol City. Perché aveva deciso di porre la sua vita in una città sconosciuta, maledetta da ogni cittadino del distretto 11, inconcepibile, mentre sua moglie e la sua piccola erano immerse nell'immondizia, nello sconforto e nell'inadeguatezza di vita di quel posto? Serena non riuscì a condannare per quel passato lui, l'uomo a cui Sarah si era riferita con una stizza naturalmente impostata nella voce, e lo aveva schedato semplicemente come... incompreso. Capitol City era, secondo i suoi studi scolastici, il luogo più ricco di Panem. Era certa che un lavoro, dei medicinali, del cibo lì sarebbero stati reperibili in modo migliore. Si era comportato in questo modo per loro. Ma aveva smarrito la via, per colpa della scomparsa di sua madre. E quindi, era lei a dover ristabilire la direzione. Perciò da quel giorno, esternò la sua ricerca in ogni sua azione, rendendo ognuna di esse frizzante, esplosiva, fragrante; così da donarsi all'attenzione della gente. Ridendo quando non era necessario ridere, intervenendo quando il silenzio si poteva rivelare vitale, irrompendo nella furia delle persone con un sorriso naturalmente appuntato sulle labbra, impazzendo quando i limiti parevano asfissiarla. Nessuno mai la notava, però lei avvertiva gli occhi di suo padre aggirarsi per la folla, tentando di scrutare fino al momento in cui una luce sarebbe risaltata dinnanzi ad essi. Lei, un probabile faro all'interno della sua fantasia, aveva l'obiettivo di scorgere un bagliore. E tentava in ogni maniera, strutturando ipotesi strettamente collegate con i suoi sogni.

Ecco perché quel giorno domandò:«Secondo te, se andassi su una stella, mio padre mi vedrebbe?» E perché la congestione di Matt aveva offerto sul suo corpo ulteriore gelo. Il silenzio si protrasse fino a quando non diventò funestamente eloquente, e il ragazzo trovò il coraggio finale di esalare:«No. O almeno, non credo. Le stelle sono così grandi, eppure da qui si vedono come dei puntini. Insomma, se vogliamo metterci a confrontare...»

A quel punto, la sensazione di freddo si convertì in fervido e nevrotico fastidio, per lei. Era illogico, nel suo universo.«Come puoi sapere che le stelle in realtà sono così grandi? Ci sei mai stato? O ti fidi di quello che ha detto la prima persona che passa, così, per fare una scoperta, osservando da lontano? Sono simulazioni. E, la cosa più stupida, è che tu diverti con queste simulazioni scientifiche, e appena io penso una cosa, anche una piccola frase, un metodo per qualcosa che per me è realmente importante (altro che la grandezza delle stelle, per me potrebbero essere grandi dieci volte la Terra), ti diverti a smentirla. Sembra che il mondo funzioni così. E perché questo metodo non mi piace per niente?»

Gesticolava, infuriava; sfogava la sua tristezza in quel modo. E, mentre implicava la sua rabbia in quelle esclamazioni, rideva. Perché, in quei brevi tratti di parole, si trovava qualcosa di seriamente assurdo. Almeno per lei. Almeno per la sua visione, quella che contava, quella che desiderava un'ulteriore visione. E disquisire sull'immensità dei colpi celesti non avrebbe portato lei a dilatarsi, ad essere visibile.

Matt sembrò riflettere un attimo su quelle parole, su quelle imprecazioni allegre, come se Serena avesse rischiarato qualche nuvola presente anche nella sua mente, o districato qualche nodo, con l'abilità della creatività. Della sua determinazione. Del non rendere nulla banale, scontato, di non porre fiducia nell'oggettivo. E congedò queste impressioni in un placido e divertito:«Serena, tu sei diversa. Tu sei diversa da tutto ciò che conosco. Rimani così.»

Lei lo squadrò un attimo. Lui pareva fissarla. E quindi...

Aveva trovato il metodo per riuscire a catalizzare gli occhi.

Essere se stessa, con le follie che comprendeva.

E capì che la grandezza nelle stelle era quella di essere la medesima sia da quel campo, nel distretto 11, sia ovunque il padre dei suoi desideri si trovava, ad osservare il cielo, condividendo a chilometri di distanza un pensiero con lei.

 

Spazio autrice

Ok. Decima fan fiction della serie “500 – Behind the scenes”, che narra episodi del passato dei tributi dell'edizione straordinaria degli Hunger Games organizzata per l'anniversario dei cinquecento anni di Panem. Qui si parla di Serena Hamilton, distretto 11, e spero di essere stata abbastanza eloquente nell'attività di narrare la sua storia, le sue caratteristiche, un breve scorcio della sua vita che forse avrei potuto ampliare. Comunque, auguro che non abbia deluso i “seguaci” di questa storia (che ringrazio per la loro esistenza) e non abbia annoiato altri occasionali visitatori. Anche se a questo punto probabilmente avrete chiuso la scheda. Va be'.

Non mi sembra di avere nulla da aggiungere. Ci leggiamo all'undicesima fan fiction, quindi... fra poco saremo giunti al giro di boa.

C'è ancora tempo.

Alla prossima,

Bolide

P.S.: indovinate quando ho indovinato il titolo? Adesso.

 
  
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