Sconosciuti 
 

 
" Siamo figli di mondi diversi, una sola memoria.
Che cancella e disegna distratta la stessa storia."
Tiziano Ferro

 
 
 
 
 
Sono in ritardo, in estremo ritardo.
Nikki mi aveva chiamato dieci minuti prima per sapere che fine avessi fatto e per quale motivo non fossi ancora tornato a casa per la cena.
Corrugo la forte e metto le mani suoi fianchi cercando di capire da una diversa prospettiva quale sia la causa divina che ha deciso di bloccare il motore della mia auto nel bel mezzo del traffico.
Il cofano aperto sul ciglio ed io piegato su di esso.
Inutile, non sono mai stato bravo con queste cose, probabilmente mi barcamenerei anche sulla reale posizione dell'olio.
Sospiro e controllo per la terza volta il cellulare, il meccanico aveva detto che ci avrebbe messo un po', il venerdì sera a Los Angeles è davvero deleterio.
Le auto scorrono tra clacson e frenate improvvise, le persone che vanno e vengono sul marciapiede, alcuni che provano addirittura a fare jogging, altri con il cane al guinzaglio, scuoto la testa al solo pensiero che ho un’ora di ritardo per la cena con i suoceri.
Ore 8.45.
Cazzo.
Do le spalle alla mia auto, incapace di fare nulla, attorcigliando le braccia al petto. Sposto lo sguardo dall'altro lato della strada, incuriosito da quella specie di furgoncino dei gelati assalito dalle persone a qualsiasi ora del giorno e senza preavviso, il mio stomaco si attorciglia in una morsa.
È al telefono, ride, come sempre, spontanea e bella da impazzire.
Ha i capelli leggermente più scuri, sciolti sulle spalle e le si muovono, leggeri, al ritmo dei suoi passi. Punta dritta davanti a sé, senza esitazioni, senza mezzi termini, riattacca la telefonata con un ultimo saluto che leggo sulle sue labbra.
Respiro a fatica e non capisco perché tutte le volte che mi capita di rivederla l'effetto che mi fa sia sempre lo stesso. 
Continuo a osservarla, incapace di fare altro, pensando che, adesso, stretta nei suoi jeans e fasciata dalle sue canottiere fa perdere la testa a qualcun altro.
Inghiottisco un po' di saliva per bagnarmi la bocca e serro la mascella, infastidito.
Nina si ferma per rimettere il cellulare nella piccola borsa a tracolla e nel farlo alza lo sguardo, attirata da una non so quale forza invisibile, verso l'esatto punto in cui mi trovo.
Mi fissa, immobile, ignorando le persone che le passano accanto, con i suoi occhi grandi e profondi che sanno mostrarti l'universo intero.
Ci osserviamo per non so quanto tempo, minuti, ore, giorni, anni o forse, solo pochi secondi, immersi l'uno nell'altro, poi abbassa il capo e mi regala un cenno di saluto, uno dei tanti, accompagnato da un mezzo sorriso che sa immancabilmente di passato.
 Alzo la mano, ricambiando con un ghigno bonario e malcelato.
Mi guarda un'ultima volta, mostrando una sorta di pace interiore come ha dirmi che, alla fine doveva andare così, che eravamo designati a incrociare le nostre vite, in un modo o nell’altro, all’interno di un percorso che ci ha sempre predestinato a due binari completamente diversi.
E forse un giorno, per davvero, ci scorderemo di noi due, non ci sarà più quel brivido sotto la pelle che sento anche in questo momento, che se solo ne avesse il potere mi avrebbe già spinto al di là dell'asfalto, vicino a te e a quel maledetto furgoncino dei gelati.
Oppure, mi piace pensare che, da qualche parte, non so dove, staremo invecchiando insieme, perché niente è perduto.
Tu lo dicevi sempre.
“Non ci perderemo, siamo più forti di chiunque altro Ian, non accadrà mai.”
Ti voglio credere Nina, come ti credetti quella volta che me lo dicesti, dopo aver fatto l’amore tra le mie lenzuola.
Ma per ora, lasci andare i tuoi occhi lievemente spesati davanti a te, verso il resto del mondo, verso il resto di quelle vite di cui ti piace tanto contornarti e riprendi a camminare, da dove ti eri fermata.