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Kanrinin
Di Overlook, 2015©
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“E poi tu pendevi un fioe gigantesco e diventava la nosta casa!”.
“Ma
davvero? Beh, allora gli incubi di qualche giorno fa sono proprio
spariti, non è così?”.
“Sì mammina! Niente più
incubi!”.
L'ometto dalla zazzera scapestrata entrò nella
piccola cucina in quell'istante: “Ecco dove vi eravate
cacciate, vi
cercavo di sopra! Vieni qui, Marron, dai un bel bacio a
papà!”.
La
bimba biondissima, dalle ginocchia della madre fu prontamente fatta
issare sulle proprie paffute gambette e, con qualche indugio,
percorse i pochi passi che la distanziavano dall'obbiettivo, per
finirgli teneramente tra le braccia, coccolata e protetta.
Crilin
alle volte ancora stentava a crederlo; l'androide numero 18, alla
fine, era divenuta la sua compagna ed insieme condividevano un amore
sì impacciato, ma del tutto sincero ed incondizionato. Quasi
nessuno, senza cattiveria alcuna, aveva puntato sul loro lieto fine,
anzi, i cari amici più volte l'avevano avvertito, che
avrebbe potuto
concludersi non troppo bene, quella sua trafila di tentativi di
conquista del cuore della bella biondina dagli occhi di ghiaccio,
come più volte l'aveva definita Yamcha. D'altronde era pur
vero che,
proprio lei, s'era resa quasi insopportabile a tutti loro, anche
volendo lasciar da parte la terribile sciagura di Cell e tutto
ciò
che quella aveva comportato, compresa la dipartita proprio del
migliore amico di Crilin; le pochissime parole, per giunta arroganti,
rivolte al gruppo in qualunque occasione, il continuo estraniarsi e
pretendere di starsene in disparte rispetto a chiunque altro, avevano
sortito un effetto simile a quello che molti anni prima s'era
trascinato dietro il principe dei Saiyan, ora inseparabile compagno
di Bulma e padre di un giovane guerriero. A ben pensarci, spesso
Crilin aveva alternato momenti di euforica insonnia ad altrettanti di
grigia resa, al solo pensiero, del tutto fuori strada, che C18
potesse in qualche modo essere interessata a quell'alieno
così più
affine a lei nei difetti del carattere.
Si era sbagliato, ma è
facile a dirsi, col senno di poi. Si era sbagliato tanto su Vegeta
quanto sul conto della bella androide e il tempo gli aveva
fortunatamente concesso d'avvedersene in entrambi i casi.
In
quella che a lui adesso pareva la durata di un battito di cuore e
ciglia, lei s'era lasciata convincere a parlare, insieme, qualche
volta, del più e del meno; quanti imbarazzanti silenzi
s'erano
susseguiti, sino al giorno in cui, proprio durante uno di quegli
spiacevoli istanti, C18 aveva preso a ridere, di gusto, talmente
sguaiata da costringere per un secondo Crilin a pensare d'essere
nuovamente innanzi al gelido prodotto sterminatore del Dottor Gelo;
quell'agghiacciante dubbio svanì in fretta, lasciando il
posto a due
gote paonazze e a meste parole: “L-Lo so che n-non ti faresti
v-vedere con me in giro n-nemmeno tra c-cent'anni, sai...? C-come
darti t-torto...”.
L'androide dovette suo malgrado interrompersi, trasudando una sorta di scocciatura, resa indecifrabile da un sorriso accennato e da qualche passo verso il poveretto.
“Lo sai...? Sei uno sciocco. Non ridevo certo per questo... Ridevo perché l'ho notato. Stai facendo ricrescere i capelli, di' la verità! Si vede lontano un miglio, tutti quei puntini neri... Terribili!”.
In
quelle parole sbocciarono in crescendo un affetto ed una tenerezza,
che forse C18 non aveva più saputo tenere in petto. Con le
mani
aveva alzato il suo viso tondo, rivolto a terra imbarazzato, gli
aveva offerto un occhiolino complice e, a tutt'altro modo rispetto a
quella prima, funesta, ma indimenticabile volta, gli aveva donato un
bacio, a fior di labbra, lento e casto, agitato, ma fermo nelle
proprie più intime intenzioni. Il cuore di lui
mancò di uno, due,
forse mille battiti, pareva il suo sogno ad occhi aperti migliore e
le ginocchia cominciarono a farsi ballerine nel tendersi verso la sua
altezza, cercando di circondarla in un tremulo abbraccio che sapeva
d'amore.
Da quel giorno, passo dopo passo, quel che dapprima
poteva esser parso come un'infatuazione a senso unico, s'era
trasformato in un solido legame, seppur contraddistinto da un sempre
vivo impaccio da parte di entrambi, senz'altro per carattere.
L'affascinante bionica aveva di buon grado accettato di trasferirsi
presso la residenza di Muten, non senza le prevedibili e a tratti,
per chi conoscesse da tempo il vecchio maestro, comiche
difficoltà
del caso.
A distanza di poco meno di un paio di mesi, C18 s'era
spontaneamente sottoposta a test e operazioni assai delicate ad opera
delle espertissime mani di Bulma e del Dottor Brief suo padre,
così
ch'ella potesse godere appieno di un'umana intimità con il
tarchiato
guerriero che a breve ne sarebbe diventato il marito. Le difficoltose
e complesse manovre tra i circuiti della scocca metallica furono
quasi divertenti, agli occhi dei due scienziati e un'ennesima volta
Crilin potè verificare coi propri occhi quanto fosse
preziosa e
speciale l'amica di sempre.
Non trascorse troppo tempo tra il
positivo esito delle operazioni e la notizia, annunciata da un Crilin
su di giri come mai prima d'allora, della dolce attesa proprio in
quel corpo apparentemente così inospitale di lei. I mesi
erano
volati come foglie secche in autunno e Marron, questo il nome dato
alla neonata, era venuta alla luce, era stata svezzata ed aveva
infine iniziato a formulare discorsi e, di recente, a muoversi sulle
proprie gambe.
Lui, trasognato, aveva riportato alla mente tutto
questo, stringendo apprensivo la sua bambina tra le braccia, quando
fu destato dalla voce della moglie.
“Beh, che ci fai ancora in pigiama, non lo vedi che noi siamo già pronte? Sbrigati, o la tua amica Bulma ce ne dirà di tutti i colori!”.
“Eh? Oh, s-sì, certo cara, hai ragione, vado subito a cambiarmi, si parte!”.
A bordo di quel mezzo così compatto, a qualunque Terrestre sarebbe sembrato i due stessero sfrecciando alla velocità della luce, o quasi. Da lassù, invece, i due adulti bofonchiavano lamentele su quanto invece sarebbe stato più comodo recarsi dalla sperduta Kame House al pieno centro di Città dell'Ovest in volo. Per non attirare l'attenzione di un'intera popolazione su di loro e per dare a Marron un'educazione di tipo tradizionalista, avevano infine optato per una Capsula Oplà contenente l'ultimissimo modello di jet privato ultra-veloce che Bulma aveva messo a punto come regalo di nozze ai due. Spazioso, sobrio ed estremamente potente per gli standard tecnologici medi, era un vero gioiellino, su cui la piccola Marron era sempre contenta di poter mettere piede, in occasione di una o dell'altra commissione.
“Sei
agitata?”.
“Non direi”.
Lo
era eccome, C18, ma non ne avrebbe fatto aperta parola, neppure col
marito, la granitica guerriera, dei suoi così umani timori e
dubbi,
quindi trincerarsi dietro una barriera di indifferenza agli
importanti avvenimenti della giornata le era sembrata la soluzione
migliore.
Non era mai stato argomento né centrale né
secondario
di alcuna delle loro conversazioni quotidiane, ma da quando la loro
bambina aveva iniziato a scandire le prime parole, il tanto comune
fardello di mostri sotto al letto, incubi e sogni strambi da
raccontare, aveva cominciato a farsi sentire in modo quasi pesante
prevalentemente sulle spalle di lei, che per palesi motivi,
benché
avesse piena facoltà di sentimenti ed emozioni, non aveva
invece mai
avuto la benchè minima chance di poter sognare, durante il
sonno. Il
buio s'ergeva davanti a quegli occhi chiusi, la notte, una sorta di
coltre l'avvolgeva facendola naufragare tra lidi vuoti e silenziosi
sino all'incedere insistente della luce di un nuovo giorno, tra le
fessure delle imposte, che la destava quasi come lei non avesse mai
avuto intenzione di riposare; e ciò mai aveva loro creato
qualche
problema, ma i racconti raffazzonati ed entusiastici della piccola di
casa avevano in un certo qual modo stuzzicato un'umana
curiosità
nell'androide, che dopo interminabili giorni di malumore e silenzi,
s'era risolta a spiegare la questione al compagno. Prontamente lui
aveva proposto un consulto in città con Bulma, solo lei
avrebbe
potuto, se possibile, aiutare l'amata a sostituire l'ennesima parte
metallica e a scambiarla con vitali impulsi, certo non elettrici.
-Non assicuro nulla, purtroppo, sai, parliamo quasi di
fantascienza, ci vorranno ancora anni, credo!-, aveva
anticipato
loro al telefono la scienziata dai capelli turchesi, più
incuriosita
dalla opportunità offertale che dalla concreta
possibilità
d'aiutare l'androide.
S'erano accordati proprio per quella
mattina; appuntamento alla Capsule Corporation verso l'ora di pranzo.
Era trascorso del tempo, dall'ultima volta che i due amici di lunga
data s'erano incontrati, ricordava che Marron aveva appena compiuto
il suo terzo mese di vita. Le braccia di Bulma avevano accolto con
una sapienza sorprendente il piccolo fagottino, C18, più
defilata,
era sembrato avesse voluto catturare quegli istanti e farne bagaglio,
trarne insegnamento; era abbastanza evidente che alla turchina, in
fondo, mancasse ormai da tempo l'adorabile sensazione d'avere al
petto il sangue del proprio sangue, tutto il giorno, tutti i giorni,
in un legame di dipendenza da lei; ogni madre subisce questa
nostalgia. Soltanto, Crilin, se qualcuno glielo avesse chiesto anni
ed anni ancora addietro, avrebbe giurato che l'affascinante
scienziata sarebbe divenuta qualsiasi cosa, ma non certo una madre,
per di più tanto attaccata al proprio ruolo, né
tanto meno la
fedele compagna di vita di un vero principe, poco importava se non
esattamente azzurro.
Atterravano adesso sulla terrazza appositamente adibita, i tre. Bulma s'era trasformata da uno sfocato puntino vago e urlante, ad una sagoma ben definita e a dir poco splendente, pareva essere tornata la ragazzina dei lontani tempi andati.
“Ehilà,
ciao, ragazzi, bentornati!”. La
voce di Bulma era stata squillante come non mai.
Crilin, sceso dal
mezzo, era corso ad abbracciare l'amica, mentre C18, con un sorriso
seppur accennato, le aveva rivolto soltanto un Ciao
a cui
Bulma s'era di buon grado abituata da tempo.
Marron, barcollando
più di una volta, aveva raggiunto entusiasta la scienziata
che,
presa dall'euforia del momento, l'aveva sollevata tra le braccia
estremamente contenta e sorpresa, la bimba non aveva che qualche
anno, ma già articolava discorsi e non si nascondeva dietro
le gambe
dei genitori. -Proprio vero che i figli dei guerrieri, sono di
tutt'altra specie!-, s'era trovata a proferire gioiosamente
mentre s'incamminava con gli altri verso l'ingresso secondario della
dimora.
“Beh,
hai proprio tirato a lucido questo posto, Bulma,
complimenti!”.
Non
poté fare a meno, il giovane guerriero, di notare il
completo
restauro subìto dall'edificio in quel lasso di tempo in cui
s'erano
persi di vista: i mobili erano quasi tutti nuovi di zecca, di un
colore scuro ed elegante che ben contrastava con la
luminosità di
ogni stanza. I muri di un bianco vivo, il caratteristico disordine
della scienziata apparentemente svanito nel nulla, sostituito da
un'essenziale arredamento lussuoso, ma sobrio che rendeva quella casa
un vero gioiello.
“Già, i miei non abitano più in questa parte della casa, sai? Si sono trasferiti nell'ala sul retro, per esser più a diretto contatto coi loro adorati animali e con le piantine ed i fiori di mia madre, figurati... Così io ho pensato bene, qualche tempo fa, di rimettere in sesto tutta questa porzione e di trasformarla un pochino!”.
“E-e
dimmi, Trunks e V-Vegeta... Che ne pensano?”.
La domanda gli era uscita di bocca adombrata di una sorta di dubbio, come gli fosse ancora ostico riconoscere che il principe dei Saiyan non aveva affatto abbandonato né lei né tanto meno il figlio di sei anni. Bulma però sapeva leggere tra le righe di quelle parole e non v'era traccia di dubbi o incertezze, ma solo di atavico timore per quel guerriero d'acciaio dal passato ben più che biasimabile.
“Trunks
non credo neppure si sia mai accorto dei cambiamenti, a parte quelli
in camera sua, ovviamente! Sai com'è, è pur
sempre un bambino, ha
così tanto altro, per la testa! Vegeta invece temo sia
sempre stato
molto più interessato ed entusiasta dei miei continui passi
avanti
con la sua stanza gravitazionale, che per il resto della
casa...”.
Una sana risata li pervase entrambi, di rimando anche la piccola Marron, seduta sulle ginocchia di lei, prese a ridacchiare gioiosa. Frattanto C18, come di consueto, aveva preso a girovagare per la stanza, silenziosa e felpata, guardandosi attorno, attenta osservatrice, non fosse altro che per umana curiosità. Non erano numerose, le foto appese alle pareti, ma quelle che vi stavano si potevano definire adorabili: solo tre o quattro scatti, di un Trunks in fasce, di uno a gattoni ed infine d'un giovane guerriero vestito della sua prima divisa da combattimento, in posa vittoriosa, trasudavano una solidità familiare che, specialmente da quel Vegeta, proprio non si sarebbe aspettata; non che vi avesse mai riflettuto più d'una manciata di istanti, distrattamente.
“Ma adesso... Dove sono? Avrei voluto vederlo, Trunks, chissà che giovanotto!”.
“Oh,
sì, è cresciuto molto, è tutto suo
padre, appena possono se ne
vanno ad allenarsi chissà dove, quel piccoletto non vede
l'ora di
entrare nella stanza gravitazionale a tutte le ore del giorno e della
notte e per quanto debba ammettere Vegeta sia un padre esemplare per
la disciplina che gli impone, pure lui alla fine cede sempre al loro
istinto condiviso e finisce che li ritrovo, al mattino, sfiniti e
barcollanti in bagno, a medicarsi e ripulirsi! Non ci crederai, ma se
i progressi di Trunks nel combattimento lo soddisfano, Vegeta lo
accompagna di buon grado al parco giochi e al Luna Park. Proprio una
bella coppietta, sì sì!”.
Non
poté fare a meno di ridacchiare appena anche la bionda
cyborg,
decisasi infine ad accomodarsi sull'ampio divano in pelle accanto al
marito.
ʒ
Dovevano
essere davvero gelide, quelle pareti metalliche che la ingabbiavano,
perchè un corpo robotico come il suo ne avvertisse la
temperatura
rigida. C18 era già stata parzialmente sedata da Bulma, poco
prima
che quest'ultima la introducesse in una sorta di stretta cella di
forma cilindrica, dove ora l'androide giaceva addormentata, sorretta
in piedi da bracci metallici, coperta di elettrodi su tutto il
perimetro del capo. All'esterno v'erano Crilin, in apprensione e la
scienziata, che agli occhi inesperti di lui da qualche minuto pareva
aver preso a premere in maniera convulsa praticamente tutti i bottoni
dell'ampia tastiera del computer, secondo una logica che solo
l'addetto ai lavori troverebbe lampante, se non addirittura ovvia.
Le
luci al neon sovrastanti l'immenso laboratorio s'erano d'un tratto
spente, facendo spazio solo al fioco lampeggiare di un piccolo
schermo verde accanto alla cella ospitante l'androide, era una sorta
di avanzato encefalografo: registratore di impulsi elettrici
trasmessi dal cervello ai pads applicati sul capo; quand'essi si
fossero intensificati oltre una certa soglia, si sarebbe potuto
affermare l'inizio di un'attività onirica; in caso
contrario, dopo
molteplici tentativi di stimolazione dell'attività, si
sarebbe
dovuta dichiarare l'impossibilità fisiologica dell'androide
di poter
sognare durante il riposo.
Benché
Crilin l'avesse scongiurata più e più volte di
continuare a
tentare, di verificare che tutti gli elettrodi e che ogni singolo
cavo funzionassero alla perfezione -e lei lo avesse sempre di buon
grado accontentato, intristita dal palesarsi dei risultati-, infine
anch'egli aveva dovuto arrendersi, sconfortato per il limite imposto
all'amata da una natura ormai a lei estranea. Attesero qualche
momento, dopo la riattivazione delle luci e lo spegnimento del
marchingegno, perchè C18 si ridestasse completamente; ancora
intontita, aveva chiesto per prima cosa dove fosse la figlia, con
tono quasi agitato; Crilin, immediatamente pronto ad accogliere il
suo risveglio con un amorevole sorriso, le aveva comunicato che la
bambina era rimasta per tutto il tempo nella stanza di Trunks, libera
di giocare e divertirsi con la miriade di pupazzi che campeggiavano
sul letto fresco di rassetto.
Lo sguardo basso e concentrato, si
passò una mano tra i biondissimi capelli lisci per liberarsi
dell'ultima traccia di adesivo.
“Allora...
Nulla da fare, non è vero?”.
La
causticità di quella domanda che aveva già saputo
incassare l'unica
possibile risposta tramortì Crilin, che invece s'era imposto
di
sorriderle e di minimizzare l'intera faccenda al solo scopo di non
creare un peso ancor maggiore alla propria moglie.
Bulma invece si
fece seria e costernata: “No, purtroppo non c'è
proprio niente che
si possa fare per fornirti l'abilità di sognare. Come vedi
siamo
riusciti a sostituire gran parte dei tuoi circuiti con degli
equivalenti umani, ma per quanto riguarda il cervello e la sua
completa gamma di possibilità, finora nessuna scienza
è riuscita a
trovare alternative soddisfacenti...”.
Le
ultime parole di quell'amara ammissione le erano uscite di bocca
terribilmente rabbuiate, trasudavano l'evidenza che sarebbe stata una
questione di parecchi anni, prima che finalmente si potesse
restituire ad un cervello modificato la totale capacità di
ogni
singola sua funzione.
“...Mphf,
come immaginavo...”.
Con
ritrovata noncuranza, l'androide, in quel che parvero pochi istanti,
si mosse in direzione della stanza in cui era stata lasciata la sua
bambina, la prese con sé senza troppo garbo né
proferendo parola
alcuna e s'alzò in volo proprio dinanzi ai loro occhi,
presumibilmente verso la piccola dimora sperduta tra le acque marine
così lontane.
“M-ma...
Dove vai? A-aspetta, C18! Cara, non fare così!”.
Bulma e Crilin fissavano frastornati il punto ormai minuscolo che l'androide era divenuta nell'azzurro cielo, intristiti ed impotenti entrambi di fronte ad una questione tanto delicata.
“Ah...
Scusala, Bulma, io proprio non capisco, sono sicuro però non
volesse
mancarti di rispetto, credimi...”.
“Non
devi, amico mio, sta' tranquillo, so com'è fatta C18 e non
immagini
quanto mi dispiaccia. Avanti, seguimi, ti preparo qualcosa da mettere
sotto i denti, lasciamola in pace, per ora. Dev'essere molto dura,
per lei, non poter vedere che con gli occhi soltanto...”.
Ʒ
Le
parole dell'amica ancora gli rimbombavano come tamburi a festa nella
mente. Poteva davvero essere che C18 tenesse molto più di
quanto lui
aveva compreso, all'opportunità di, semplicemente, sognare
durante
il riposo? Non riusciva a capacitarsi fino in fondo di come potesse
essere tanto preziosa quella chance ormai inevitabilmente sfumata.
Il
solo forte rombo scaturito dal suo stesso librarsi in aria alla volta
della casetta sull'isola, era il suono che lo teneva desto nella
realtà, senza rimuginare troppo su cosa mai fosse preso alla
moglie.
S'era congedato quasi un'ora prima da Bulma, imbarazzato ed affranto,
del tutto colto alla sprovvista dalla reazione di C18; lui aveva
ingenuamente immaginato che, in caso sia positivo che negativo, la
sua famiglia avrebbe cordialmente ringraziato l'amica adorata o
entusiasticamente fatto i salti di gioia insieme, offrendole pure
quanto a loro possibile come compenso, seppur ben consci lei non
avrebbe mai accettato; piuttosto, vi avrebbe scommesso, lei avrebbe
preferito l'invito a trascorrere un'intera giornata sull'isola, da
sola, per dedicarsi ai vecchi amici e soprattutto a sé
stessa, come
sin dalla loro adolescenza le aveva visto fare.
L'isola di Muten
iniziava a stagliarsi davanti a sè come un neo sulla nivea
pelle
oceanica e Crilin, teso come una corda di violino, cominciò
a
scendere di quota, restituendo infine al suolo un rumore di passo
felpato, subito avvertito dall'anziano maestro.
“Oh,
eccoti qui, ciao, Crilin. Tua moglie mi è parsa
più strana del
solito, aveva uno sguardo che... Ah, lascia stare, sono solo i deliri
di un povero vecchio, eh eh!”.
Questa
volta però Crilin voleva vederci più chiaro:
“No, Genio, ti
prego, continua, come ti è parsa C18?
Triste, arrabbiata...? Come?”.
L'attempato ometto calvo allora, sistemandosi meglio le lenti scure sul ponte dell'adunco naso, gli confidò: "Mh, beh... Credo che inizialmente fosse un po' arrabbiata, sì... Non ne conosco la causa, ma il fatto che non abbia nemmeno tenuto la mano alla piccola per accompagnarla sino alla porta di casa, mi ha dato da pensare... Poi però sono stato distratto da quel bellissimo corpo e le ho chiesto un bacetto, solo uno, in amicizia, eh! E a quel punto... Non ricordo più nulla, mi sono ritrovato con la faccia nella sabbia!”, facendo istantaneamente cascare Crilin in un sol tonfo all'indietro.
Ʒ
“E' sempre il solito, povera C18, dovrei cominciare a pensare di trasferirci...”.
Parlottava Crilin disilluso, tra sé e sé; al suo maestro doveva tanto, forse tutto, i vizi e le debolezze che da sempre l'avevano caratterizzato erano marchiate di un intento troppo involontario, per pensare fossero malignità ed interessi torbidi. Poi comunque, né lui né la moglie avevano mai lavorato, come avrebbero mai potuto permettersi il trasloco e la vita altrove? Troppi impensierimenti gli segnavano il piccolo volto sudato, si risolse a scacciare ogni altra trovata e, sbuffando rumorosamente, ad avvicinarsi alla camera da letto dove l'androide giaceva, sdraiata svogliatamente sul ciglio del letto ancora sfatto, ad occhi aperti e distratti verso le porzioni di cielo terso prossimo al tramonto che s'intravedevano tra le fessure delle imposte socchiuse.
Si spinse la porta alle spalle e si avvicinò silenzioso alla parte opposta del materasso, sedendovisi appena e con lo sguardo intenerito rivolto alla sua amata.
“E dai, cara, non c'era bisogno facessi così, non ti pare? Io stesso ero insieme a Bulma in laboratorio, ha fatto tutto il possibile per aiutarti, le ha provate davvero tutte...”.
“Taci”.
“M-m-ma
come, 'Taci', scusa?! I-io proprio non ti capisco,
non sarai
adirata per gli soliti scherzetti di Genio, spero! È
incorreggibile
lo sai, non lo fa per cattiv-”.
“Sbaglio, o ti ho detto di
stare zitto?! Tu... Tu non capisci, per te sono solo sciocchezze,
questioni di poco conto...”.
“Tesoro,
io voglio che tu sia felice, non c'è bisogno io te lo dica.
Solo,
non riesco a capire perchè, come mai ti sia tanto
fondamentale poter
sognare, non sai quanta invidia susciteresti, in generale... A volte
i sogni sono così strani o così brutti che dal
risveglio sino alla
notte successiva uno non riesce neppure a concentrarsi, a vivere
serenamente la propria giornata...”.
“Come
puoi non
esserci ancora arrivato... Hai parlato di sogni tanto brutti... Beh,
caro mio, una volta tanto nella vita mi piacerebbe moltissimo, poter
affermare che qualcosa di orribile ed immondo si sia trattato di un
semplice incubo e non di una realtà che non posso cancellare
dalla
mia testa nemmeno con l'aiuto di Shenron!”.
Lo sguardo di Crilin si fece d'un tratto tremante e cogitabondo, ma certo, ora era tutto chiaro, come aveva potuto essere, proprio lui, tanto insensibile da non afferrare immediatamente, quel concetto tanto delicato, ma tanto palese!
“Crilin, mio fratello C17 ed io, un tempo, eravamo esseri umani, proprio come te. Anzi, per la verità noi non eravamo dotati di alcun potere né abilità, tutto ciò che ancor oggi conserviamo è solo il frutto delle modificazioni genetiche a cui quel bastardo del Dottor Gelo ci ha sottoposti... I nostri genitori non avevano i mezzi per mantenerci, si sono fatti abbindolare come due allocchi dalle parole di quel pazzo. Fummo costretti a seguirlo tra quelle rocce dove si nascondeva il laboratorio e poi con l'inganno fummo rinchiusi in capsule piene di fumi dall'odore nauseante. E poi... Poi non ricordo più nulla, solo che, al nostro risveglio, i nostri occhi già chiari erano diventati color del ghiaccio; dai nostri lobi, pendevano piccoli orecchini circolari e dentro di noi, non v'era più alcun sentore, non l'appetito, non il freddo, non la paura. Solo l'istinto di distruggere, con quanta più forza potessimo utilizzare. Ci accorgemmo sin da subito che l'energia in noi era divenuta immensa ed inesauribile, che dalle nostre mani potevano crearsi lampi e sfere di pura potenza e che nulla era né sarebbe stato più come prima. Solo un punto, riuscivo ad avvertire come non mio, sebbene già gran parte del mio corpo fosse stata del tutto modificata: qui, guarda”.
La mano nivea della donna prese delicata quella di lui, avvicinandola al proprio basso ventre, sul lato sinistro.
“Questo
è il punto in cui stava l'ordigno autodistruttivo, quello
che tu hai
disattivato per salvarmi. Era la sola cosa che riusciva a farmi
sentire in trappola, in un corpo non mio, in una natura oscena,
invivibile. Eppure c'ero, c'eravamo dentro fino al collo, io e il mio
adorato fratello gemello! A poco servì fare letteralmente a
pezzi
Gelo e tutto il laboratorio, ormai i nuovi impulsi nelle nostre
membra, azzeccati ai nostri più inconsci pensieri, s'erano
impadroniti della nostra volontà di agire e ormai eravamo
soltanto
gelide macchine da guerra, incapaci di provare debolezza alcuna. Ho
cominciato ad avvertire nuovamente quel terribile brivido lungo la
schiena durante gli scontri con Cell. È stato in quel
momento che ho
capito, ho capito di non essere altro che una pedina, una marionetta
dei terribili piani altrui e... E noi, ed io... Io non avrei permesso
a nessuno, di farmi questo, a niente e nessuno...”.
La
voce
iniziò ad infrangersi in gola, impregnata delle lacrime che
stillavano da quegli occhi iracondi.
“Sai quali sono le uniche cose che non ho mai scordato, della mia vita di bambina? Beh, che tu ci creda o no, Crilin, sono i sogni. Sono le notti in cui faceva un freddo cane, ma i miei genitori non avevano soldi abbastanza per permettersi né il riscaldamento, né qualche coperta in più, così mia madre ci si sdraiava accanto sino al momento in cui chiudevamo gli occhi e poi mi sussurrava 'Fai bei sogni, tesoro, esplora mondi lontani e sii felice, la mamma è qui con te'. Per la verità non riesco a riportare alla memoria nessuno di quegli episodi in particolare, non so se ho fatto più incubi o più bei sogni... Ricordo solo che quelli, solo quelli, erano i momenti in cui io non sentivo più il freddo, non sentivo più i morsi della fame, non sentivo più la fatica che incatenava le nostre gambe dopo un giorno intero trascorso a lavorare duramente nelle più brulle terre, per un tozzo di pane. Ero libera. Avevo chiesto solo questo, oggi, anche se Bulma non ne ha colpa. Di poter tornare ad essere, almeno durante la notte, un essere umano”.
La
bocca socchiusa ed asciutta di Crilin avvertiva il sapore amarognolo
delle lacrime che gli avevano rigato le gote arrossate, la sua mano
ruvida ancora avvolta nella presa salda, ma delicata di lei, tremava
impercettibilmente in un palpito d'emozione talmente terribile,
talmente intimo.
Le
ombre allungate dei suppellettili nella stanza avevano già
smesso di
danzare cullate dagli ultimi raggi del sole ed un velo più
scuro
aveva ammantato il cielo riflettendo la nivea aura di una luna
splendente e piena.
S'era adagiato su un fianco, il capo poggiato
sulle loro mani strette l'una all'altra, ancora giunte su quel punto
del corpo di lei. Avevano entrambi smesso di parlare, i solchi delle
lacrime avevano lasciato sulle loro gote striature traslucide e
secche ed i loro respiri parevano essersi sincronizzati in un unico
soltanto, profondo.
“C18... Non mi hai mai detto il tuo nome, come ti chiamavi, prima...”.
“Io...
Non... Non lo ricordo più”.
Ʒ
“Coraggio, basta saltellare sul letto, Trunks! Non ti sei già divertito abbastanza, oggi? A me pare proprio di sì...”.
Rivolgendogli
un occhiolino complice, Bulma porgeva il pigiama al proprio figlio
visibilmente eccitato. Il principe dei Saiyan, quel pomeriggio, gli
aveva insegnato a riconoscere le auree combattive alleate e nemiche,
oltre ad avergli fatto muovere i primi lenti passi verso la tecnica
di azzeramento parziale o totale della propria forza combattiva.
Più
che soddisfatto dell'assoluta concentrazione, attenzione e
performance ottenute, Vegeta aveva di propria iniziativa concluso i
duri allenamenti con una capatina al parco giochi preferito del
figlioletto, senza imporgli sguardi eccessivamente severi né
orari
rigidi. Così, a sera inoltrata, erano tornati a casa,
sfiniti e
lerci, affamati come non mai. Durante la sostanziosa cena preparata
da Bulma, Trunks aveva accusato inevitabilmente gli effetti di un
sonno attanagliante, a cui dovette suo malgrado cedere ad appena
mezz'ora dalla fine del pasto; aveva raccontato ogni dettaglio di
quell'emozionante giornata alla madre soltanto una volta sicuro che
il padre fosse sotto la doccia: di lui aveva ereditato uno spiccato
orgoglio personale che lo rendeva poco incline ad esternare troppe
emozioni in generale e soprattutto in sua presenza, in un commovente
istinto di emulazione che in qualche ben rara occasione gli aveva
fatto guadagnare un'ombra accennata di sorriso da parte di
Vegeta.
Sollevato in braccio dalla madre, s'era nuovamente
svegliato tra le mura della sua cameretta, un po' contrariato alla
vista di tutti i suoi giocattoli riposti disordinatamente agli angoli
della stanza.
“Ehi! Ma... Per caso Goten è stato qui, oggi...?”.
E, divertita, Bulma si era ritrovata a constatare non fosse solo il figlio, a mostrarsi interessato ad una risposta da parte sua, ma pure il principe dei Saiyan lì presente, che, quando si parlava di quel bimbetto così simile al defunto padre in tutto e per tutto, veniva come scosso da un brivido, inspiegabile, ma sempre ben tangibile.
“No, tesoro, è stata la piccola Marron ad usare i tuoi giocattoli, gliel'ho permesso io. Crilin e C18 sono venuti a farmi visita e così ho detto a Marron che avrebbe potuto stare qui a giocare sorvegliata dai robot”.
“Uhm, capisco. Beh okay, per questa volta va bene, ma solo perché è piccola e femmina!”.
Vegeta allora, silenziosamente, si era defilato alla volta della camera da letto, non prima d'aver accennato un saluto al figlio.
“Grazie papà, a domani!”.
Non appena la porta s'era chiusa, però, Trunks era balzato repentino in piedi sul letto, talmente elettrizzato da non aver nemmeno ancora obbedito alla madre nell'indossare il pigiama e mettere le pantofole ordinatamente accanto al comodino.
“Hai ragione, mamma, ma sono troppo felice! Tu... Tu credi che papà si sia divertito?”.
“Sono certa che si sia divertito molto più lui di te, sai?”.
Tra
qualche risata e dolci moine materne, il ragazzino s'era cambiato ed
accoccolato sotto alle lenzuola, pronto a farsi riavvolgere, questa
volta profondamente, dalle braccia di Morfeo.
“Buonanotte mamma, non dir nulla a papà, ma spero tanto di passarla presto, un'altra giornata come questa!”.
“Sta' tranquillo, lo conosco bene, non gli dirò nulla. Adesso da bravo, chiudi gli occhietti e dormi sereno. Fai bei sogni, tesoro, sii felice, la mamma e il papà sono qui con te”.
E la lampada a forma di coccinella posta sul comodino si spense.
“Mammina, potto entae?”.
Barcollante
e assai goffa, Marron aveva raggiunto pian piano la soglia della
stanza dei genitori, dopo aver consumato un'allegra cena sotto gli
occhi vigili degli “zii” Yamcha e Genio.
Fortunatamente quella
che a lei pareva un'altissima porta era rimasta socchiusa,
così
dovette solo sforzarsi di spingerla in avanti rimanendo in piedi
sulle proprie gambette paffute.
“Coraggio
cara, entra, vieni a sdraiarti accanto a mamma e
papà”, le aveva
risposto caloroso Crilin, senza muovere un solo muscolo da quella
posizione tanto intima, comoda e amorevole.
La bambina non ci mise
poi molto, a farsi avanti, socchiudere nuovamente la porta dietro di
sé su invito della madre e dunque ad arrampicarsi
letteralmente
sull'ampio letto candido.
“Vieni qui, piccola mia...”.
C18
le aveva rivolto lo sguardo, solo per lei caldo ed accogliente, al
quale Marron non esitò a rispondere con un balzo deciso
accanto a
lei, raggomitolandosi spensierata ed assonnata nell'incavo della
spalla esile della madre. Dovettero trascorrere svariati minuti,
prima che la donna fosse sicura la figlia, poi l'adorato compagno si
fossero completamente assopiti, così simili in quello
sguardo
tenero, innocente, amichevole e buono. Il braccio su cui sonnecchiava
beata la piccola creatura stava iniziando ad intorpidirsi, ma non
volle muoversi; non volle scuotere quel sottile filo di seta che li
teneva sospesi in quell'etereo momento di cui lei s'accorse d'essere
l'unica custode, la sola persona di cui la propria famiglia
ciecamente si fidava per poter serrare le palpebre e lasciarsi andare
ad altri mondi, sicura di trovare, al proprio risveglio, il porto
sicuro a cui attraccare la loro stessa vita.
D'improvviso, quelle
catene che la inchiodavano alla sola realtà, non furono
più così
strette e anche lei, con un sorriso, poté chiudere gli occhi.
-Fine-