Questa storia è tutto ciò che una
mente malata (in fase di influenza) può partorire.
Doveva essere una
one-shot, ma alla fine ho deciso di dividerla in tre capitoletti. Mi auguro che
vogliate leggere fino alla fine.
Sperando che vi piaccia… Buona
lettura.
Il Regalo
Più Grande
Dedicato a mia sorella Valeria
Perché le voglio un bene enorme
E Perché in questa storia c’è molto anche di
lei
1. Il Mio Dolore
Voglio farti un regalo
Qualcosa di dolce
Qualcosa di raro
Non un comune regalo
Di quelli che hai perso
O mai aperto O lasciato in treno
O mai accettato
Di quelli che apri e poi piangi
Che sei contenta e non fingi
In questo giorno di metà settembre
Ti dedicherò
Il regalo mio più grande
-Al!-
Il grido di Edward risuonò
per la casa, infiltrandosi nella cucina e raggiungendo le orecchie del fratello
intento a preparare uno dei suoi manicaretti.
-Che c’è, fratellone?-
domandò quello, con aria innocente.
Edward spuntò dalla porta
con uno sguardo omicida che indirizzò senza incertezza al fratello minore,
voltatosi per chiarire quella situazione.
-Al-, sillabò Edward,
costringendosi ad abbassare il tono della voce, -E questo cosa significa?!-
Fallendo miseramente nel
suo intento di calmarsi, sventolò sul viso del fratello un bigliettino rosa
confetto decorato da due righe in inchiostro nero di una elegante calligrafia
minuta.
Alphonse prese il
foglietto dalle mani del fratello maggiore e lo guardò con un sopracciglio
alzato, visibilmente contrariato.
-Cosa c’è che non va in un
biglietto d’auguri?-, chiese.
Edward aggrottò le
sopracciglia, sbattendo i piedi come faceva quando era incapace di esprimere a
parole la sua rabbia.
-E’ da parte di una ragazza!-,
esclamò.
Alphonse sorrise,
inarcando maggiormente il sopracciglio già alzato.
-E allora?-
-Smettila di giocare,
Al!-, ringhiò il fratello, -Perché una ragazza ti manda gli auguri?!-
Alphonse scosse la testa,
come davanti ad un malato di mente incapace di capire la parola casa.
-Magari perché è
innamorata di me?-, suppose ironicamente.
Edward sentì come una lama
penetrargli nel petto. Boccheggiò un secondo, incapace di prendere fiato, ma
Alphonse non lo vide, girato nuovamente verso il pranzo che stava preparando.
Abbassò le spalle
minacciosamente alzate già da un po’ e rimase con occhi spalancati a fissare la
schiena del fratellino adorato, osservando le sue braccia muoversi abilmente
sul cibo.
Innamorata?
Quella parola gli
infiltrava uno strano senso di inquietudine alla bocca dello stomaco. Ma in
fondo, perché era stato così sorpreso di sentire che qualcuno poteva essersi
innamorato di suo fratello? Forse perché per tutto quel tempo era stato l’unico
ad amarlo senza limiti?
Probabilmente, ora che
aveva ripreso il corpo, non avrebbe più avuto bisogno del suo affetto.
Ci sarebbe stato qualcun
altro.
Un’ennesima fitta allo
stomaco lo costrinse a serrare gli occhi. Percepì le lacrime minacciarlo di
scendere senza ritegno e si affrettò a voltarsi. Di corsa, raggiunse la porta e
si lanciò su per le scale.
Alphonse si girò
allarmato. Ma ebbe solo il tempo di vedere la sua schiena sparire oltre lo
stipite.
Abbassò lo sguardo,
sentendosi ingiustamente colpevole.
Edward si coricò sul
letto, puntando gli occhi dorati al soffitto intonacato.
Lentamente mise un braccio
di fronte al viso, osservandosi il dorso della mano, e si chiese per quanto
tempo avrebbe avuto tutte e due le braccia di carne pulsante. Il suo istinto lo
metteva all’erta, lo spronava a non lasciarsi andare alla pace che aveva
vissuto in quegli ultimi mesi. Perché una nuova difficoltà poteva essere dietro
l’angolo.
Aveva sempre creduto allo
scambio equivalente e per qualche motivo lui e suo fratello non avevano dovuto
sacrificare nulla per tornare normali. Ma allora cosa voleva indietro? Che cosa
desiderava, la Verità, in cambio di quella grazia?
Lasciò andare stancamente
il braccio e quello si afflosciò sul letto, accanto a lui.
Perché prima si era tanto
stupito della possibilità che una ragazza si innamorasse di suo fratello? Non
era forse un bel ragazzo, biondo, con un sorriso magnifico?
Si vergognò di quei
pensieri. Certo che Al era un bellissimo ragazzo. Ed era sicuro che avesse il
diritto di farsi una vita sua, di trovarsi una ragazza, o addirittura una
moglie, di avere dei figli.
Probabilmente non era
quello che lo aveva tanto sconvolto. Era più la consapevolezza che Al, il suo
fratellino, potesse innamorarsi di qualcun altro. Era stato quello a fargli
paura.
Ma non era giusto che
interferisse con la sua vita solo perché era assurdamente geloso. Era
geloso perché erano stati insieme fin da piccoli e lo aveva sempre protetto con
la sua forza e ora non voleva che andasse via. Forse però accadeva a tutti i
fratelli, prima o poi, di provare quei sentimenti.
Sospirò e si alzò in
piedi. Infilò le ciabatte ai piedi del letto e uscì dalla stanza per farsi una
doccia.
Quando spalancò la porta
sentì un profumo invitante provenire dalla cucina: Al si era davvero impegnato
per preparare un pranzo coi fiocchi. Ecco un’altra sua dote; ecco un’altra cosa
di lui a cui avrebbe dovuto rinunciare.
Entrò nel bagno
trascinando i piedi. Si scompigliò i capelli con una mano e si tolse i vestiti
con calma, appoggiandoli al bordo della vasca. Quando fu completamente nudo si
fermò a guardarsi nello specchio.
Il suo riflesso gli lanciò
un’occhiata perplessa. Era un ragazzo di diciassette anni, quello che vedeva in
piedi nel bagno. Magro, muscoloso, con un viso perfettamente ovale dagli occhi
dorati un po’ troppo grandi e le labbra sottili; i capelli arruffati stretti in
una pinza che utilizzava solo per farsi la doccia, quando nessuno poteva
vederlo, biondi, dello stesso colore degli occhi. E poi c’era quella sua
dannata caratteristica che odiava ammettere: sì, era un po’… basso.
Il riflesso aggrottò le
sopracciglia, infastidito dal commento inopportuno. Poi l’espressione si
sciolse, i lineamenti tornarono di una pacata distensione e Edward sospirò,
allontanandosi dallo specchio.
Lasciò le ciabatte davanti
al cubicolo e vi entrò con un sorriso di piacere: amava farsi la doccia. Il suo
inconscio aveva sempre ammesso, senza il suo consenso, che gli piaceva perché
sembrava quasi una purificazione.
E il suo animo aveva avuto
sempre bisogno di purificarsi.
Aprì l’acqua, lasciandola
venire più calda possibile, scottandosi la pelle che cominciò a diventare rossa
per il contatto. Il fumo confortante che rilasciava l’acqua lo avvolse
totalmente, stordendolo e allietandolo insieme.
Rimase con gli occhi
chiusi, immobile, a godersi il getto sul viso e sulle spalle, respirando a
tratti, quando gli era possibile. I suoi pensieri tornarono a quel biglietto
trovato davanti alla porta, in cui una certa Rose augurava un buon
compleanno ad Alphonse. Pensò che era di certo uno scherzo del destino che
quella ragazza si chiamasse proprio Rose, come la giovane immatura che avevano
salvato dall’illusione della resurrezione molto tempo prima, a Reole.
Ma si sbagliava.
Tornò al piano di sotto
solo mezz’ora dopo, vestito di un unico asciugamano legato attorno alla vita.
Alphonse lo aspettava
seduto a tavola, con uno sguardo contrariato, di quelli che amava lanciargli
prima di una sonora ramanzina. Ma quando vide il fratello maggiore venire giù
dalla scala con solo un asciugamano addosso, tutti i suoi propositi svanirono
in un sospiro rassegnato.
-Fratellone-, esclamò, -Ti
sembra il caso di girare per casa in quello stato a metà ottobre?-
Edward gli rispose con
un’occhiata annoiata, sedendosi al proprio posto, di fronte a lui.
-Mi sono appena fatto la
doccia-.
Alphonse sbuffò.
-E questo cosa c’entra? La
tua pelle ha paura dei vestiti, appena lavata?-
Edward lo incenerì,
infastidito.
-No, solo dei vestiti
sporchi-.
Alphonse chiuse gli occhi.
-Mettitene dei puliti,
allora-.
-Non li ho, visto che non
li hai lavati!-
Edward portò una mano alla
bocca, pentendosi di quello che aveva appena detto, stupito persino di se
stesso.
Gli occhi di Alphonse si
riempirono di lacrime, mentre lo guardava con risentimento.
-Al, scusa, io…-
-Vaffanculo! I tuoi
vestiti sono nel tuo cassetto, come sempre! Se non ti soddisfa il modo in cui
li lavo io, lavateli da solo!-, gridò.
Cercò di portare via le
lacrime con una mano, ma quelle continuavano a scorrere senza ritegno.
Si alzò con uno scatto,
facendo cadere la sedia con un tonfo che assordò entrambi. Si fissarono senza
trovare le parole, poi Alphonse singhiozzò e corse via, correndo mentre saliva
le scale.
Edward rimase a guardare
il posto vuoto davanti a sé, con gli occhi spalancati per lo stupore di quello
che era successo, di quello che lui aveva fatto succedere. Come aveva
potuto dire delle cose del genere a suo fratello? Ad Al? Da quando quell’assurdo
risentimento era rinchiuso nel suo cuore, pronto a trovare la prima occasione
per uscire?
Appoggiò un gomito sul
tavolo, nascondendo la fronte e gli occhi nel palmo della mano, sospirando.
In quel momento si odiò
più di quanto avesse mai fatto.
-Al-.
Edward bussò alla porta
una volta, facendosi coraggio.
Da dentro la stanza non
provenne alcun segno che Alphonse avesse sentito.
Sospirò, quasi sul punto
di arrendersi, poi cambiò idea. Bussò di nuovo.
-Al, per favore…-, tentò,
-Mi dispiace, io…-
Io cosa?
Avrebbe voluto dire che
non era colpa sua se reagiva così: era la paura che lo costringeva a dire cose
che lo ferivano; era quella: la sua terrificante paura di perderlo per sempre.
Bussò ancora,
appoggiandosi con tutto il corpo alla porta, porgendo una guancia al legno
liscio e freddo.
-Al-, insisté, -Ti prego,
mi dispiace-.
Non sentì alcun rumore, ma
ebbe la sensazione che suo fratello si fosse appoggiato alla porta, dall’altra
parte, esattamente come stava facendo lui. Con tutto il coraggio che aveva,
premette ancora di più contro il piano di legno, tentando di raggiungere con il
pensiero il corpo di Al, di abbracciarlo.
-Al…-, sussurrò, -Mi
dispiace tantissimo-.
Ripeté quelle parole
ancora una volta e rimase in silenzio. Era certo che quel silenzio, quel
respiro che Al poteva ascoltare di là dalla porta, valessero molto più di ogni
parola di scusa. Era certo che il suo perdono potesse arrivare.
Infatti bastò un minuto,
anche se a Edward parve fin troppo lungo per durare sessanta secondi, e la porta
si socchiuse, lasciandogli lo spazio per entrare. Ci si infilò cautamente e
richiuse il battente dietro di sé.
Al era poco più
all’interno della stanza. Stava in piedi, con le braccia lunghe accanto al
corpo e i pugni chiusi, il viso abbassato e gli occhi arrossati.
Edward gli si avvicinò e
Al non fece nulla per impedirglielo. Lo accarezzò sulla fronte con una mano,
delicatamente, come se si fosse trattato di un oggetto raro che poteva
sbriciolarsi in un istante. Lo guardò con affetto, sorridendo, osservando quel
suo corpo che aveva fatto tanta fatica a conquistare. E poi lo abbracciò, lo
strinse a sé con tutta la forza che aveva in corpo, sperando che capisse da
quel suo abbraccio quanto era grande il suo senso di colpa.
Al si lasciò stringere,
permettendo che solo due lacrime ancora cadessero sulle spalle nude del
fratello.
Edward ascoltò il calore
di quelle lacrime sulla pelle.
Gli sembrò che bruciassero
la sua carne più delle fiamme dell’inferno.
Quella notte non riuscì a
dormire.
Alphonse riposava accoccolato
contro il suo petto, tentando di trovare il calore che non aveva in sé.
Edward lo guardò con
affetto, come aveva fatto poche ore prima, nella stessa stanza. Dopo un tempo
infinito si erano separati e Al gli aveva chiesto di rimanere a dormire con
lui, solo per quella notte.
Edward aveva mascherato la
sua felicità dietro ad un sorriso che poteva essere di scherno, ma la gioia
sincera che aveva intravisto negli occhi di Al aveva spento ogni sua
possibilità di prenderlo in giro.
Aveva accettato.
Ed ora si trovava lì,
stretto a suo fratello, come era successo molti anni addietro, quando ancora
erano bambini. Al si spaventava per tutto: era un bambino davvero sensibile, e
correva sempre da lui se aveva un incubo o qualcosa del genere. Le prime volte
aveva pianto sommessamente, sperando di non farsi sentire, finché Edward aveva
dovuto alzarsi e infilarsi di sua spontanea volontà nel letto del fratellino
per calmarlo. Ma dopo due o tre volte, le notti di paura si erano fatte più
frequenti e Al aveva iniziato a correre e buttarsi nelle lenzuola del fratello,
stringendosi a lui tutto tremante.
Edward non gli aveva mai
chiesto cosa riguardassero i suoi incubi: era sempre stato un argomento tabù.
Probabilmente era l’unica cosa che non sapesse di suo fratello, ma non gli
aveva mai dato fastidio. Se ad Al non andava di parlarne, di certo non lo
avrebbe forzato a farlo. Sapeva bene cosa volesse dire essere obbligati a fare
delle scelte e non aveva la minima voglia di farlo capire anche a suo fratello.
Sospirando, in preda ai
ricordi di quelle notti, si mosse lentamente nel letto, mettendosi a pancia in
su. Al scivolò dal suo petto, restando un po’ distante, raggomitolato su se
stesso come un feto.
Edward cercò di
addormentarsi, mentre osservava l’espressione distesa del fratello, e
incredibilmente crollò dopo pochi secondi.
Fu svegliato dalla stretta
violenta che sentiva sul braccio sinistro.
Aprì gli occhi, allarmato,
e vide Al afferrare convulsamente la sua carne, scosso dai tremiti e dai
singhiozzi. Le lacrime si erano già lasciate andare sul viso e sulle lenzuola,
bagnando anche il pigiama di Edward.
Lui cercò di districarsi
da quella stretta, ma ci riuscì solo dopo diversi tentativi. Prese il fratello
per le spalle e lo scosse violentemente, cercando di svegliarlo.
-Al! Svegliati, Al!-
Alphonse continuava a
piangere e a tremare, anche tra le braccia di Edward. Solamente dopo alcuni
minuti e tutti gli sforzi del fratello, riuscì a svegliarsi. Spalancò gli occhi
offuscati dalle lacrime e, quando riconobbe il volto di Edward, si gettò sul
suo petto, affondando il viso nei suoi capelli lasciati liberi, piangendo senza
controllo.
-Al…-, mormorò Edward,
-Al… Dai, calmati… Non è niente, è tutto finito…-
Alphonse singhiozzava
ancora, con il volto nascosto nel suo petto, tremando, anche se di meno.
Edward lo tenne stretto,
circondandolo con le sue braccia, aspettando che si calmasse. A poco a poco
Alphonse smise di tremare, poi anche i singhiozzi sparirono e infine le
lacrime; il respiro si fece regolare.
-Fratellone-, sussurrò,
con voce roca per il troppo piangere.
-Dimmi, Al-.
-Scusa…-
Edward aprì gli occhi che
aveva chiuso, stupito.
-Di cosa?-
-Scusa se non ti ho
salvato…-
Edward aggrottò le
sopracciglia, avvolse ancora di più Alphonse nel suo abbraccio.
-Ma, Al, cosa stai…?-
Alphonse si lasciò
scappare un altro singhiozzo.
-Tu-, mormorò, con le
parole strozzate da nuove lacrime, -Eri lì, per terra, non ti muovevi. Sono
corso accanto a te, ma quando sono arrivato c’era… qualcosa… Ti ha colpito, con
un pugnale, in mezzo al petto. Sei stato avvolto da un lago di sangue e poi… Tu
mi hai guardato e mi hai chiesto di salvarti, ma io non riuscivo a raggiungerti
e…!-
-Al-, lo bloccò Edward,
-Ora basta. Stai tranquillo: era solo un incubo-.
Alphonse smise di parlare.
Si lasciò cullare da Edward che non disse più nulla.
Passarono i minuti e,
quando il maggiore era convinto che l’altro si fosse addormentato, lo sentì
muoversi tranquillamente contro di lui e sospirare.
-Fratellone-.
-Dimmi, Al-.
Edward sentì Alphonse
sorridere sulla sua pelle.
-Ti ricordi quando da
bambino venivo sempre da te dopo un incubo?-
Il maggiore si unì al
sorriso del fratello.
-Certo che mi ricordo-.
-Mi hai sempre accolto e
non mi hai mai chiesto che incubi facessi…-
Sospirò. –Non avevo il
coraggio di rivelarteli, perché ero sicuro che mi avresti detto che ero uno
stupido-.
-Al!-
-Sì, lo so-, ammise il più
piccolo, -Non avrei dovuto pensare certe cose. Però l’ho fatto. Mi dispiace… E’
solo che quegli incubi mi tormentavano sempre e avevo paura-.
Fece una pausa e strofinò
una guancia infreddolita sulla pelle calda di Edward, che cercò di scaldarlo
come meglio poté.
-Sognavo sempre la stessa
cosa. C’era la mamma, in mezzo al prato, che ci sorrideva. Avevamo preparato i
nostri oggetti creati con l’alchimia e lei voleva vederli. Il tuo era più
bello, come ogni volta: un cavallino di legno quasi perfetto. La mamma allora
mi guardava con disprezzo e mi diceva che non ero capace di fare nulla, che non
sarei mai stato bravo come te. Poi se ne andava insieme a te. Io vi correvo
dietro, cercavo di raggiungervi, ma eravate sempre più lontani. Alla fine
scomparivate e il buio mi avvolgeva. C’ero solo io, in mezzo a tutta
quell’oscurità, a tutto quel freddo…-
Edward represse a stento
le lacrime, mentre fissava la testa di Al nascosta contro di sé.
-Al… Non avremmo mai
potuto fare una cosa del genere, lo sai!-
Alphonse annuì con
sicurezza, senza lasciare che il sorriso sparisse dalle sue labbra.
Probabilmente quell’incubo era solamente un ricordo lontano, per lui e non
aveva più alcun peso.
Edward sentì una lacrima
scendere sulla sua guancia: non si era nemmeno accorto di averle concesso di
sfuggire al controllo. Con una mano, la scacciò via velocemente.
-Piangi?- chiese Alphonse,
con il suo solito tono innocente.
-No, Al-.
Al fratello parvero
bastare quelle due parole. Tornò a distendersi sulle lenzuola asciutte ormai,
nonostante le lacrime e portò con sé Edward, rimanendo stretto a lui. Si
addormentò in pochi secondi, con un’espressione serena sul viso.
Edward rimase a guardarlo,
incapace di rassegnarsi all’idea che ormai quell’incubo era il passato e non
sarebbe più tornato a tormentare suo fratello. Aveva la gola serrata e un
sapore amaro in bocca che ricordava il senso di colpa.
Non sarebbe mai stato
capace di riscattare le proprie colpe verso il fratello che aveva fatto
soffrire così tanto.
Pensò che non era riuscito ad amare nessuno, nella sua vita, quanto suo fratello. E pensò che non era nemmeno riuscito a far soffrire qualcuno quanto lui.