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Autore: Ireth Anarion    27/08/2015    8 recensioni
Una sciocchezzuola scritta anni fa, di cui un po' mi imbarazzo e un po' ne sono contenta.
Stiles e la sua proverbiale sfortuna... o forse no?
"«Dài, non te la prendere. Puoi sempre unirti a me ed Allison, stasera».
Sollevai il capo, guardandolo a metà tra l’annoiato e l’abbattuto. «Nah, grazie mille. Non ho intenzione di fare da terzo incomodo tra te ed Ally». Sospirai, sdraiandomi ancora di più in avanti. «E ora, ti sarei molto obbligato se mi portassi qualcosa di forte». E rimisi la testa nascosta tra le braccia".
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Scott McCall, Stiles Stilinski
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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            Scrissi questa OS più o meno quattro anni fa. Era destinata a un fandom che ora ho abbandonato, e ho deciso di eliminarla da lì e portarla qui. Perché? Perché mi sembrava più adatta al carattere di Stiles.  
 È semplice, senza alcuna pretesa. Non mi aspetto che abbia molto successo, anzi, penso proprio che in pochissimi apriranno il link e la leggeranno xD E va be’… si fa quel che si può :)
            Per gli altri aggiornamenti ci vorrà un po’ di tempo, perché ho il cervello fuso dalle troppe idee LOL Devo mettere ordine!
            Grazie come sempre del sostegno che mi dimostrate, siete dei tesori *-*
            Buona lettura!






                                                                                 Di delusioni, latte e incontri fortuiti.
                      


                                                     




            Mi sembrava essere a una corsa a ostacoli: io, le mie fidate Nike ai piedi e il brulicante, caotico, pericolosissimo marciapiede di Times Square. In più, la mia leggendaria quanto epica goffaggine. Fantastico.
            Presi un bel respiro profondo, calcolai la distanza che mi separava dal traguardo, e iniziai a correre. Scena di panico. Mi sentii come in uno di quei film comici in rallenty, dove quasi sempre il protagonista si spiaccica contro un muro o qualsiasi altra cosa lanciando urli resi cavernosi dalla lentezza.
            Dribblai una vecchietta che portava a spasso il suo cagnolino, feci lo slalom tra un gruppo di ragazzi vestiti da rapper, scavalcai un cesto della spazzatura e, ancora, altri slalom tra la gente. Alcuni mi guardarono male, altri imprecarono, altri si scansarono rapidamente – e intelligentemente – per impedire la mia e la loro dipartita.
            Miracolosamente, riuscii a non cadere neanche una volta. Il mio fianco sinistro urlava pietà e il respiro faceva male come fuoco nel petto.
            Ed infine, eccolo: il mio amato Hard Rock. Ancora pochi metri e l’avrei raggiunto.
            Lanciai un urlo di guerra, sventolando le braccia in aria. Pochi passi, pochissimi.
            Un ragazzo uscì dal locale con un mega sorriso, e per poco non gli andai a sbattere addosso.
            Entrai come una furia e mi precipitai alla cassa, dove una ragazza bionda mi guardò come se fossi uno squilibrato.
            «Vorrei un biglietto per il concerto degli Imagine Dragons!», esclamai, senza fiato. Strano non trovare una fila chilometrica, in effetti. Be’, forse avevo avuto fortuna.
            La ragazza, che  portava un cartellino con il nome “Erica” appuntato alla camicetta bianca, sorrise angelicamente e... «Spiacente, un ragazzo ha comprato gli ultimi due, circa dieci secondi fa».
            Una sola, piccola parola lampeggiava ad intermittenza nella mia mente: fanculo.
            «I-io avrei fatto tutta questa strada per niente?». Sapevo che non avrei dovuto prendermela con lei…  La colpa era di quell’idiota arrivato prima di me, ovviamente!
            «Eh, cosa vuoi che ti dica?», scrollò le spalle, con un sorriso consolatorio. «C’erano già moltissime altre persone che hanno passato la notte qua fuori, figurati che non riuscivamo neanche ad aprire il botteghino».
            Quegli stronzi. Si erano appostati lì, come avvoltoi sulla carcassa di un animale morto, soffiandomi da sotto il naso il biglietto. Che tremenda ingiustizia.
            Uscii dall’Hard Rock come un automa, mentre quella ancora ciarlava di clienti esauriti e nonnette assatanate – incredibile come donne di ottant’anni si sbracciassero meglio delle ventenni per riuscire ad accaparrarsi un biglietto!
            Mi sentii un povero vagabondo senza una meta. Senza nessuno. Solo, in un mondo che non faceva sconti. Senza il mio agognato biglietto. Melodrammatico? Naaah!
            Con il morale sotto le scarpe, andai al mio bar preferito, il Wolfie’s, un piccolo e grazioso ritrovo a pochi passi da Times Square.
            «Ehi, Stiles!», mi salutò allegramente il principale nonché mio migliore amico, Scott McCall, intento ad asciugare un bicchiere.
            «Ciao, Scotty», borbottai depresso, lasciandomi cadere su uno sgabello. Poggiai la fronte sulla superficie fredda e scomoda del bancone.
            «Oh-oh», commentò lui. «Grane con il concerto?».
            Sollevai il pollice della mano destra in risposta.
            «Dài, non te la prendere. Puoi sempre unirti a me ed Allison, stasera».
            Sollevai il capo, guardandolo a metà tra l’annoiato e l’abbattuto. «Nah, grazie mille. Non ho intenzione di fare da terzo incomodo tra te ed Ally». Sospirai, sdraiandomi ancora di più in avanti. «E ora, ti sarei molto obbligato se mi portassi qualcosa di forte». E rimisi la testa nascosta tra le braccia.
            Lo sentii ridacchiare: «Ah, sì? E cosa? Questo è un bar, non un pub».
            Lo feci secco con un’occhiata. «Latte, Scott. Portami del latte».
            Sgranò gli occhi e spalancò la bocca, incredulo. «Ma... Stiles, non farai sul serio…».
            «McCall, porca miseria, portami immediatamente un litro del latte più fresco che c’è!», strillai come un pazzo.
            Indietreggiò fino a sbattere con la schiena contro il muro, lasciò il bicchiere che reggeva tra le mani e si precipitò alla cella frigorifera, probabilmente sperando che non avessi un’altra crisi isterica. Poi tornò con ciò che avevo ordinato e me ne versò un po’ in una tazza.
            «Lascia qui la bottiglia», borbottai, mandando giù il primo sorso.
            Mi guardò, preoccupato. «È inutile che tenti di annegare i dispiaceri nel latte: sanno nuotare».
            «Che stronzi», biascicai, pulendomi rozzamente – come direbbe Lydia – con la manica della maglietta.
            «Stiles, ti farà male», provò a farmi desistere il mio migliore amico, ma non gli diedi ascolto e mandai giù un’altra tazza di quella roba.
            «Erano secoli che aspettavo questo giorno, ho messo da parte tutti i soldi e cosa succede? Un qualsiasi Tal Dei Tali arriva dieci secondi prima di me e compra gli ultimi biglietti. Dimmi tu se non è ingiustizia questa!».
            «Lo so, lo capisco, ma non c’è ragione di comportarsi come un ubriacone e continuare a deprimersi. Dài, non sarà il loro ultimo concerto».
            Cosa? Che cosa? Ma allora non capiva! «Ma non è la stessa cosa!».
            «E per quale motivo?».
            «Perché... ah! Lasciami bere il mio latte in santa pace».  
            Alzò le mani di fronte a sé, in segno di resa. «D’accordo, fai pure. Ma poi non dire che non ti avevo avvertito».
            Prima che potessi ribattere, lo scampanellio della porta annunciò l’arrivo di un nuovo cliente. Era un bel ragazzo i capelli biondo scuri sparati verso l’alto e un sorrisetto stampato in faccia.
            «Buongiorno. Un caffè con panna», ordinò cortesemente.
            Scott annuì e iniziò a prepararlo.
            Continuai a parlare, incurante della presenza dello sconosciuto: «Sono cavoli miei se voglio deprimermi per il concerto. Chissà quando torneranno!».
            «Stiles, è da sciocchi reagire così per-».
            «Il concerto? Intende quello degli Imagine Dragons?». E questo che voleva, adesso?
            «Sì, quello», rispose Scotty al posto mio.
            Il ragazzo cercò di trattenere un ghigno ancora più grande di prima. «Ah, peccato che tutti i biglietti siano finiti, eh?».
            Mi lagnai come un bambino, afflosciandomi sul bancone.
            «E dire che ancora pochi secondi e li avrei persi», continuò il biondino, estraendo dal portafogli due biglietti.
            Balzai giù dallo sgabello come se avessi avuto la scossa elettrica al sedere, fissando quelle meraviglie come un leone fissa un pezzo di carne fresca. Quel ragazzo doveva stare attento, o gli avrei staccato la mano a morsi. «Qua-qua-quanto vuoi per uno?», balbettai con voce alterata, la bava alla bocca.
            Inarcò un sopracciglio, probabilmente insicuro della mia sanità mentale, e li ripose immediatamente nel portafogli. «Non sono in vendita», disse, categorico.
            No. Non ero disposto ad arrendermi. «Ti darò ottocento dollari. In contanti».
            «Stiles!», mi rimproverò Scott, ma lo zittii con un cenno della mano.
            Il ragazzo prese il suo caffè con panna, lo girò con tutta la calma del mondo, lo assaggiò, aggiunse un po’ di zucchero, lo fece raffreddare e poi lo sorseggiò in tutta tranquillità.
            I miei nervi stavano per esplodere. Avrei voluto prendergli la testa e usarla come martello per appendere un quadro. Iniziai a tamburellare il piede sul pavimento, impaziente.
            Quando finì il suo maledettissimo caffè, pagò con monetine da dieci cents che dovette contare accuratamente per essere sicuro di non aver commesso errori, poi, con l’aria più candida del mondo, mi disse: «Non sono in vendita. Buona giornata». Ed uscì, lasciandomi come un povero deficiente a bocca aperta.
            Quel perfetto idiota di Scott scoppiò a ridere. «Dovresti vedere la tua faccia! Dio, quel tipo è stato grandioso!». E rise ancora.
            «Ma tu da che parte stai?!», lo accusai, sconvolto.
            «Dalla tua, ma quello è stato un grande».
            Mi imbronciai e, con la coda tra le gambe, tornai a sedermi sullo sgabello, poggiando i gomiti sul bancone e prendendomi la testa tra le mani.
            Scotty si chinò alla mia altezza. «Dai, amico, non essere triste. Capiteranno altre occasioni. Hai diciotto anni, non novantotto. Questa non sarà la tua unica occasione di vedere Dan Reynolds cantare dal vivo, fargli foto e magari farti autografare tutti gli album. La vita continua».
            Se quello era il suo modo di consolarmi, non ci era riuscito per niente. Lo fissai per qualche secondo, poi dissi: «Mi butterò giù dal ponte di Brooklyn. Ma prima, devo vomitare».
            «Sì, penso sia il caso di svuotarti di tutto quel latte».
            Neanche il tempo di finire la frase, che già correvo verso il bagno, in preda al mal di pancia. Maledetta intolleranza al lattosio, e maledetto il mio masochismo.


            Tornai quando nello stomaco non avevo più neanche gli organi. Mi sentivo come se un tir con rimorchio mi avesse stirato al suolo e poi, decidendo che non fossi sottile abbastanza, avesse fatto marcia indietro.
            «Ecco. Non dirò “Te l’avevo detto”, stai tranquillo». Se possibile, la sua voce era ancora più irritante, dopo la mia sbronza di latte.
            «Scotty?», dissi, con tutta la gentilezza di cui disponevo.
            «Sì, mio carissimo amico?».
            «Fottiti».
            Ridacchiò: «Okay, d’accordo. Ti senti bene? Ti accompagno a casa tua?».
            Malgrado tutto, mi dispiaceva essere così acido con lui. Non c’entrava niente, ed era sempre così gentile e disponibile. «No, non puoi lasciare il bar. Non preoccuparti per me, me la cavo benissimo». Gli sorrisi lievemente.
            «Va bene, ma chiamami se ti serve aiuto. Non hai una cera molto rassicurante».
            Feci un cenno con la mano, gli diedi una pacca sulla spalla ed uscii sotto il sole caldo di maggio.
            Non mi andava di andare a casa, ero troppo depresso anche per quello. Avevo solo voglia di passeggiare un po’ e smaltire la delusione, nulla di più. Certo, magari sarebbe stato più facile senza la città tappezzata di tutti quei dannatissimi poster a ricordarmi del concerto di quei quattro rompiscatole! Per di più, sembrava che tutti quanti fossero felici, sorridenti e allegri di andarci. Ecco, io ero l’unico sfigato che avrebbe mangiato popcorn davanti alla TV, solo con la sua completa solitudine… Latte, avevo bisogno di latte. Feci dietrofront, pronto a tornare al Wolfie’s e scolarmi altri tre litri, ma il buonsenso – che, inspiegabilmente, aveva la stessa voce del mio migliore amico – mi disse di lasciar perdere e trovare un altro modo per annegare i dispiaceri che sapevano nuotare.
            Ci sono. Il Virgin Megastore era la soluzione. Musica scaccia musica.
            Mi incamminai svelto verso quell’immenso negozio ed entrai, il naso all’insù. Ero entrato pochissime volte lì dentro, in quel paradiso. Non avevo scuse per non andarci, semplicemente a volte mi dimenticavo della sua esistenza. Può capitare.
            Avanzai, osservando con occhi luccicanti ogni angolo che mi capitava sotto gli occhi. C’erano tutti gli album del mondo, ogni singolo cantante tu volessi ascoltare era lì. Quasi in una reazione involontaria, andai all’angolo dedicato ai gruppi, e trovai quello che cercavo. Se non potevo andare al loro concerto, loro sarebbero venuti da me.
            Mentre allungavo la mano verso l’album, un’altra mano si avvicinò per prenderlo. Era grande, con le dita lunghe e nodose e qualche vena in rilievo. Era bellissima.
            Sollevai lo sguardo e incontrai due occhi grandi, splendenti, di un magnifico color verde giada, appartenenti ad un ragazzo che avrebbe potuto essere tranquillamente un modello di Abercrombie. O un giocatore di rugby, a giudicare dai muscoli.
            «Scusa», disse. La sua voce era carezzevole, morbida e roca. E mi aveva rincoglionito con una semplice parola.
            «No... S-scusami tu», balbettai goffamente, facendo un passo indietro per permettergli di prendere l’album.        
            Mi sorrise, mostrando una fila di denti bianchi e perfetti. «Night Visions, eh? Ti piacciono gli Imagine Dragons?».
            «Da morire», sussurrai, non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso. Probabilmente stavo facendo la figura dello stupido, ma chi se ne importava. Tanto non lo avrei rivisto mai più, perciò, tanto valeva rifarsi gli occhi con quella meraviglia.
            «Anche a me. Immagino che stasera andrai al loro concerto...».
            No. Il tizio mi piaceva più. Feci una smorfia. «Ci sarei andato volentieri, se soltanto avessi trovato i biglietti. Ma un idiota dalla faccia da schiaffi è arrivato prima di me», ammisi, imbronciato.
            Fece una piccola risatina, rigettando al testa all’indietro. Poteva essere così affascinante guardare un perfetto sconosciuto ridere in quel modo? «Questa sì che è una coincidenza», mormorò, senza che quel sorriso mozzafiato abbandonasse le sue labbra. «Anche io non li ho trovati. E, in preda ad un attacco depressivo, sono venuto qui per comprare l’album».
            Arrossii violentemente. «P-puoi prenderlo».
            I suoi occhi si fusero con i miei. Mi osservò a lungo, come se stesse meditando su qualcosa. «Dopo, magari», dichiarò infine. «Io mi chiamo Derek Hale. Tu?».
            «Stiles Stilinski», mormorai, senza fiato.
            Inarcò la fronte, gli occhi illuminati da una luce ilare e curiosa. «Un nome molto particolare».
            «Sì, ehm… Stiles è un soprannome, ma lo preferisco di gran lunga».
            Il suo sorriso s’ingrandì. «Okay, Stiles. Ti andrebbe di prendere un caffè insieme?».
            Deglutii. «C-certo...».
   

            «Stiles! Sbrigati!».
            «Ti odio quando fai così!», sbuffai, aumentando il passo.
            «Non è vero, tu mi ami», sghignazzò il ragazzo che continuava a strattonarmi con insistenza.
            «Sì, come no...», borbottai con un sorrisino.
            Insieme, iniziammo a correre lungo la strada, evitando i vari ostacoli che si presentavano sul nostro cammino. Rischiai di inciampare un paio di volte.
            «Dai, Stiles!», mi incitò.
            «Derek, giuro che ti prendo a calci», lo minacciai.
            Scoppiò a ridere e continuò a trascinarmi verso la nostra meta.
            Ci fiondammo alla cassa come due uragani. «Due biglietti per il concerto degli Imagine Dragons», esclamammo in coro rivolti a Erica, la stessa ragazza di due anni fa.  
            Lei sorrise, divertita dalla scenetta. «Siete fortunati, erano quasi finiti», ci comunicò, porgendoceli.
            Sorrisi estasiato, guardando il mio ragazzo con tutta la gioia che avevo. «Sì!», esultai.
            Proprio mentre stavamo per allontanarci dal botteghino, un ragazzo dai capelli biondo scuro si avvicinò. «Cosa? I biglietti finiti?», chiese con gli occhi fuori dalle orbite.
            «Eh, sì. Peccato che tu non sia arrivato prima, abbiamo preso gli ultimi gusto tre secondi fa», commentò Derek, facendo quel suo irresistibile sorrisetto beffardo.
            Soffocai un risolino e mi aggrappai al suo braccio, mentre lui mi cingeva la vita. Insieme, ci incamminammo verso Central Park.
            «Hai visto? Prima o poi arriva il turno di tutti», mi disse Derek, soddisfatto.
            Inarcai un sopracciglio. «Ma se quella volta ti sei messo quasi a piangere dalla disperazione, quando sono uscite le foto ufficiali del Tour».
            Arricciò il naso, con disapprovazione. «Be’, almeno io non ho cercato di auto procurarmi un’indigestione». Touché.
            «Okay, mi arrendo», lasciai perdere, alzando gli occhi al cielo.
            «E poi... se non avessimo saltato il concerto di due anni fa, non ci saremmo mai conosciuti, probabilmente», mormorò, osservandomi con la dolcezza e l’amore che solo lui mi trasmetteva.
            Mi alzai sulle punte e lo baciai sulle labbra, teneramente. «Ti amo», soffiai.
            «Ti amo», mi fece eco.
            Dopo quel primo caffè, due anni prima, ne erano seguiti altri, e altri ancora. Erano sopraggiunti i pranzi, poi le cene. Giorno dopo giorno, io e Derek imparammo a conoscerci e piacerci. A dire il vero, be'... io avevo una cotta per lui dal primo istante, mentre lui continuò a comportarsi da amico per settimane intere. Pensavo di non avere alcuna speranza… Finché, una notte di gennaio, mi prese alla sprovvista baciandomi sulle labbra. Così, senza un perché. Temetti che il cuore mi schizzasse fuori dal petto, poi gli presi il volto tra le mani e lo baciai a mia volta. Solo che mentre il suo era stato un bacio dolce e innocente, il mio fu un vero e proprio assalto, con denti che si scontrano e lingue che combattono. Mi ero lasciato trasportare un po’ troppo, in effetti.
            Ma ora, mentre camminavamo mano nella mano per il viale alberato, con le mani intrecciate e i nostri corpi che si sfioravano ad ogni passo, non mi pentivo di niente. Neanche di quel concerto mancato.
            Sbirciai il suo bel volto illuminato dal sole e quando lui se ne accorse, mi sorrise amorevolmente.
            E continuammo la nostra passeggiata.







            È una schifezzina, lo sapevo. Ma non mi andava di cambiarla, perché a quattordici anni mi sembrava carina. E voglio onorare la me quattordicenne, LOL!
            Alla prossima, tesori miei! <3 <3 <3
            Ireth~










 
   
 
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