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Autore: The Writer Of The Stars    05/09/2015    2 recensioni
Danza …
Danza …
Danza …
Lo aveva ripetuto tre volte e ogni volta, in ogni sillaba, aveva sentito l’angoscia del suo tono aumentare sempre più e la voce affievolirsi all’ultima vocale, come se risucchiata da una specie di forza interiore.
Danza …
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bulma, Yamcha
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Come si comporta, cosa fa, una persona come lei, quando è ferita?”

“Metto una spillina di Keith Haring sul cappotto.”

“Tutto qui?” rise lei.         

“Quello che voglio dire è che una condizione del genere dopo un po’ diventa cronica. La ferita è riassorbita nella quotidianità e non ci si ricorda più dov’è. Ma rimane. Non è una cosa che si può tirare fuori e mostrare. Se si può, vuol dire che è una ferita da poco.”

Dance Dance Dance, Murakami Haruki
 
Yamcha aveva appena poggiato il pugno chiuso sul legno chiaro della porta, quando questa si era aperta di scatto, costringendolo ad un inaspettato balzo all’indietro interrotto dalla presenza fortuita di quel masso decorativo da giardino.

“Yamcha!” troppo impegnato a captare i battiti accelerati del suo cuore rimbombare nei timpani, il ragazzo non si era ancora prodigato nel vedere chi avesse interrotto così bruscamente il suo ingresso e con ancora l’eco del suo cuore nelle orecchie, sobbalzò per la seconda volta al sentirsi richiamare. Alzò lo sguardo quel tanto che bastava per scontrarsi con un paio di enormi occhi azzurri e con un’espressione di confusione, non avrebbe saputo dire se piacevole o meno, e sorpresa nel volto della giovane donna dinanzi a lui. Con un sorriso impacciato cercò di tirarsi in piedi, tirando mezze imprecazioni alla sua sbadataggine e cercando di togliersi di dosso i ciuffi d’erba rimasti attaccati al suo giubbetto.

“Bulma!” esclamò finalmente con voce gaia e spensierata, dopo essersi reputato accettabile agli occhi di quella che era stata la sua ragazza per anni e che ora non sembrava poi così entusiasta di vederlo. La squadrò da capo a piedi, notando con una punta di imbarazzo che aveva indosso il cappotto blu che le piaceva tanto, quello che diceva la scaldasse al meglio in quelle sere di inizio dicembre in cui aveva voglia di passeggiare per le vie innevate della città. Deglutì vergognoso, sentendosi a disagio.

“Ah, stavi per caso uscendo?” chiese con le guance rosse di infantile imbarazzo che Bulma accolse con un sospiro esasperato.

“Sì, ma non fa nulla. Vieni dentro, dai.” Esclamò rassegnata, sorridendogli stancamente e spostandosi per farlo passare. Deglutendo nervoso, Yamcha fece il suo ingresso nella casa accogliente dei Brief e non appena mise piede dentro si sentì invadere da un’ondata di calore sprigionata dai termosifoni posti in ogni stanza. Un odore dolciastro giunse a solleticargli le narici e subito il suo olfatto lo catalogò come proveniente dalla cucina, dove evidentemente Bunny aveva appena sfornato una teglia dei suoi deliziosi biscotti. Gli era mancato quel clima. Senza dire nulla osservò Bulma sfilarsi il pesante cappotto e appenderlo all’attaccapanni posto all’ingresso e d’un tratto un luccichio sospetto catturò l’attenzione delle sue iridi, che si posarono subito su un piccolo pezzettino in metallo colorato appuntato sul petto dell’indumento, sembrava una spilletta.

Eppure ricordava che Bulma odiasse le spille …

Dato che Bulma si era già diretta verso il salotto senza degnarlo di uno sguardo e lui era rimasto ancora lì, immobile a fissare una presunta spilla, Yamcha si risolse a sfilarsi il cappotto a sua volta e a raggiungere in fretta la ragazza che si era già accomodata sul divano.
 
Sebbene lo scheletro della casa fosse rimasto pressoché invariato e l’odore dei biscotti di Bunny giungesse a solleticargli le narici, Yamcha percepiva nettamente una freddezza e un disagio che mai aveva sperimentato in quegli anni trascorsi a bighellonare tra le mura della Capsule Corporation. Bulma si era seduta in divano e aveva portato le gambe su di esso, incrociandole in una posa tipicamente infantile che le conferì un’adorabile aria bambinesca.

“Allora, a cosa devo questa tua visita?” gli chiese mettendo su uno dei suoi soliti sorrisi nel quale, nonostante non spiccasse per intelligenza, Yamcha aveva scorto l’ombra della stanchezza e della voglia di mettere via quell’espressione di circostanza. Il ragazzo deglutì rumorosamente, torturandosi le mani screpolate dal freddo e mantenendo il silenzio.

Quando era partito dal suo squallido monolocale con l’intenzione di passare a trovare Bulma e chiederle di quel bambino non ancora nato di cui parlavano tutti, una forte convinzione e determinazione aveva accompagnato i suoi passi scalpiccianti sulla neve fresca.

“Solo per conferma, vuoi solo sapere se è vero.” Si era ripetuto mentalmente per tutto il tragitto, tenendo il mento congelato tra il colletto del giubbetto logoro. Ma adesso, faccia a faccia con quegli occhioni blu e quel sorriso cortese, aveva sentito tutte le sue certezze e convinzioni crollare in terra come un castello di carte, uno di quelli con cui Bulma amava passare il tempo, e non aveva la minima idea di cosa fare. Bulma lo squadrò con espressione corrucciata, cercando di leggergli dentro per capire ciò che lui, troppo codardo, non aveva il coraggio di dire. Poi, con un sorriso di magra amarezza, constatò finalmente quale fosse la ragione che lo aveva spinto a trovarla dopo mesi di silenzio e lontananza, che lei aveva amato, a dirla tutta, dalla loro rottura.

“E’ per il bambino, vero?” chiese finalmente retorica, gli occhi di Yamcha che si spalancavano.

“Se era questo ciò che volevi sapere allora sì, è vero. Aspetto un bambino.” Spiegò con innaturale naturalezza, portandosi una mano in corrispondenza del ventre gravido leggermente ricurvo ma ben nascosto dal largo maglione rosso che aveva indossato quella mattina. Yamcha non disse niente, boccheggiando inebetito. Allora era vero. Era vero quello che tutti dicevano, era vero che Bulma sarebbe diventata madre ed era vero che alla fine Vegeta non si era rivelato solo un semplice ospite, ma qualcosa di molto più profondo e doloroso. Perché doveva far male, immaginava, sapere di aspettare un bambino e di doverlo crescere da sola, perché il presunto padre se l’era data a gambe ed era impegnato a vagabondare tra pianeti disabitati e galassie distanti anni luce da loro.

“E’ doloroso, vero?”

 E glielo chiese pure allora, ingenuo e incurante come sempre di quanto quella domanda avrebbe potuto fare male. Bulma sgranò gli occhi azzurri e volse il capo da tutt’altra parte, non addolorata, non malinconica, non triste, ma arrabbiata.

“Ma che ne sapete voi …” aveva gettato là con amarezza, sentendo però qualcosa pungere contro gli angoli degli occhi ma che il suo orgoglio decise di ricacciare indietro. Yamcha abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa per la sua sfrontatezza.

“Io non …” balbettò smodato, senza trovare un nesso logico per collegare i suoi pensieri con la laringe.

“Mi chiedevo come si comporta, cosa fa, una come te quando è ferita …” confessò, senza osare alzare lo sguardo su di lei. Codardo. Bulma corrugò lo sguardo stranita.

“In che senso?” gli chiese piccata.

“Nel senso che non ti ho mai vista ferita in tutti questi anni, insomma sei sempre stata allegra e solare … è strano immaginarti distrutta per amore.” Confessò titubante, sotto lo sguardo infastidito della ragazza.

“Ciò che dici non ha senso.” Esclamò dura, senza fare però a meno di pensare alla spilletta di Keith Haring che aveva appuntato sul cappotto e che, per assurdo, l’aveva quasi fatta stare meglio. Yamcha sgranò gli occhi, alzando lo sguardo su di lei e fissandola inebetito. Non credeva che Bulma fosse in grado di mettere su una maschera di durezza del genere, ma evidentemente la vicinanza con Vegeta aveva portato frutti ed effetti collaterali di quel tipo.

O forse è colpa del dolore …

“In ogni caso, non c’è molto da fare. Devi continuare a danzare.” Esclamò d’un tratto, cogliendo tutta l’attenzione dell’uomo dalla cicatrice in volto.

“D – danzare?” ripeté confuso. Bulma fece le spallucce, spostando lo sguardo su un punto indefinito della stanza.

“Sì, danzare. Non ti puoi fermare. Quando è così, ti trovi in una strana situazione e senti che tutto è cambiato. Percepisci la testa che gira e ti senti stanco, spossato, come se ti trovassi in una pista da ballo affollata e ti sentissi soffocare. Hai bisogno di bere ma non puoi allontanarti dalla pista, perché ciò segnerebbe l’impossibilità di tornare lì e in quel momento avrai solo perso un’occasione. Allora devi continuare a muoverti, senza fermarti, chiudendo gli occhi e pregando che la danza finisca presto, perché tu possa allontanarti in pace con te stessa per bere un bicchiere d’acqua e buttare tutta quella brutta sensazione giù per la gola, sentendola spigolosa e cattiva mentre ti raschia le corde vocali. Non c’è altro da fare. Devi danzare. Danza, danza, danza.”  Rigettò fuori Bulma, tutto d’un fiato, sotto lo sguardo attonito di Yamcha.

Era questo allora che significava sentirsi abbandonati, soli?

Danza …

Danza …

Danza …

Lo aveva ripetuto tre volte e ogni volta, in ogni sillaba, aveva sentito l’angoscia del suo tono aumentare sempre più e la voce affievolirsi all’ultima vocale, come se risucchiata da una
specie di forza interiore.

Danza …

Senza sapere perché, all’udire quelle parole a Yamcha era venuto in mente il vecchio disco di Bruce Springsteen che Bulma teneva in camera sua da sempre, o da quando aveva memoria almeno, e ricordò tutte le volte in cui l’aveva beccata ad ascoltarlo assorta e persa tra la voce graffiante del Boss, e teneva sempre gli occhi chiusi, come se così, senza vedere cosa la circondasse, potesse godere al meglio di quella melodia malinconia e nostalgica che lui, nella sua ignoranza, aveva sempre definito deprimente.
Eppure avrebbe dovuto capirlo prima, che Bulma amava le voci graffianti e dure impregnate di fantasmi del passato, anziché quelle naturalmente acute e un po’ fastidiose di chi crede non ci sia nulla di sbagliato nella propria vita.

Se la immaginò vestita con quell’abito bianco e svolazzante che le aveva visto spesso indosso e la vide chiaramente danzare leggiadra su quelle note, come Mary* che danza sotto la veranda senza fermarsi mai, cantando per quelli che si sentono soli. Intravide, sotto le trasparenze di quella stoffa leggera, la curva morbida e accentuata del ventre, vide i capelli azzurri appiccicati alla fronte per il sudore di quello sforzo che le stava consumando l’anima, la mente annebbiata dall’immagine delle mani impregnate di sangue di quell’uomo che amava  e la voglia di lasciarsi cadere pronta a tentarla, eppure la musica continuava e lei non si fermava, continuava a danzare, danzare, danzare …

“Danzare …” ripeté tra sé, con gli occhi sgranati. Bulma bloccò ogni suo possibile soliloquio con un gesto della mano, chiudendo gli occhi e inspirando profondamente, pienamente conscia di aver detto troppo.

“Lascia stare, Yamcha. Non potete capire …”
 
 

Nota autrice:
Quest’anno, la mia estate è passata placidamente tra vecchi vinili, anime e libri. Murakami, ad essere precisi. In questi tre mesi mi sono dedicata fondamentalmente alla lettura di grandi capolavori di quest’uomo che mi ha colpita subito sin dall’inizio, col suo “Norwegian Wood” che mi strizzava il suo occhio di carta dallo scaffale della libreria, e se dovessi scegliere il libro che più mi ha coinvolto e segnato nel suo percorso artistico, quello è sicuramente Dance Dance Dance. Mi sono innamorata di quel libro e questa infatuazione, ha prodotto tutto ciò.
*Riferimenti alla canzone “Thunder Road”  di Bruce Springsteen. http://www.riflessioni.it/testi_canzoni/springsteen_2.htm leggere la traduzione per capire al meglio.
   
 
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