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Autore: Untraveled_road    06/09/2015    3 recensioni
Il rombo del motore della vecchia Chevy Impala era il rumore che Dean Winchester conosceva meglio di qualsiasi altro al mondo. Era il rumore che centinaia di volte lo aveva cullato nel sonno, la vibrazione che aveva sentito fin nelle ossa quando appiccicava la guancia al finestrino appannato di condensa, il suono più rassicurante che esistesse al mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più stagioni
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“Eyes on the road, Dean”

 
 
“Guarda la strada, Dean.”
Il rombo del motore della vecchia Chevy Impala era il rumore che Dean Winchester conosceva meglio di qualsiasi altro al mondo. Era il rumore che centinaia di volte lo aveva cullato nel sonno, la vibrazione che aveva sentito fin nelle ossa quando appiccicava la guancia al finestrino appannato di condensa, il suono più rassicurante che esistesse al mondo.
In quel momento, tuttavia, rassicurante non era esattamente la parola che John avrebbe scelto per descriverlo. Il motore era decisamente su di giri e la lancetta del contagiri stazionava da qualche minuto su cifre fastidiosamente alte. John lancia un’occhiata al figlio maggiore, le nocche strette sul volante, il mento alto e un sorriso divertito e compiaciuto stampato in faccia.
“Guarda la strada, Dean” dice di nuovo, con il tono di chi lo ripete per la centesima volta. “Avresti dovuto mettere la terza dieci minuti fa.”
“Scusa, papà” dice il ragazzo, sbrigandosi ad innestare la marcia più alta e accelerando con uno strattone poco delicato, lo sguardo obbedientemente puntato sul triangolo di asfalto illuminato dai fari. John torna a sprofondare nel sedile con un gemito appena udibile: forse lasciare il volante a Dean proprio quando lui ha un ginocchio maciullato e i tempi di reazione decisamente dilatati non è proprio un’idea da padre dell’anno. Ma Dean ha quindici anni e muore dalla voglia di guidare l’Impala più o meno da quando – beh, da sempre. Il sorriso del ragazzo glielo conferma: Dean si sente grande, si sente importante, e John nasconde un sorriso mentre con due dita corregge lievemente la traiettoria dello sterzo. Sam, sul sedile posteriore, tace da parecchi chilometri, ma i due sanno che è perfettamente sveglio, attento al tono di voce del padre ferito, concentrato sui movimenti di Dean. Con il mento appoggiato al sedile di John, guarda il fratello cambiare di nuovo marcia e riportare poi la mano sul volante, e l’Impala scatta in avanti con uno strappo minore, stavolta.
Con un gesto rapido, Dean spegne la radio. Non gli importa di cosa cantano i Led Zeppelin attraverso la vecchia cassetta: l’interstatale buia si srotola davanti a lui, ha tutta la notte per guidare, e pur nel compiacimento e nella spavalderia dei suoi quindici anni sente un groppo in gola e no, non la guarda più la strada. Il suo sguardo è di nuovo nel retrovisore, dove è riflesso il viso del fratello, il mento appoggiato sulle mani, che non si perde un attimo di quella lezione di guida improvvisata. E con lo stesso groppo in gola pensa, Dean, che non ha bisogno di nessuna colonna sonora, di nessuna chitarra incazzata. Il rumore dell’Impala, anche se in quel momento non è il rombo soffice a cui è abituato, è il rumore più bello del mondo. E Dean sa che potrebbe continuare a guidare per sempre, perché all’interno di quei confini di lamiera c’è tutto ciò di cui ha bisogno – di cui potrà mai aver bisogno. Che lo sguardo tranquillo di un bambino di undici anni – un bambino normale, una vita normale – nel retrovisore vorrebbe portarselo con sé per sempre.
 

 
“Guarda la strada, Dean, cazzo!” sbotta John, afferrando il volante e correggendo la traiettoria in un caos di clacson e luci accecanti – luci che non avrebbero dovuto essere lì, non da quella parte della carreggiata. Ma è l’Impala ad essere dalla parte sbagliata della carreggiata e Dean ubbidisce, terrorizzato, riportando la mano sulla leva del cambio e innestando rabbiosamente la quinta – veloce, troppo veloce – mentre il rombo del motore torna su toni più morbidi. I suoi occhi non riescono proprio a starci, sulla strada – merda, avrei potuto farci uccidere tutti – non con Sam che sparge sangue sul sedile posteriore, una coperta buttata sulle spalle, le mani premute su una fasciatura di fortuna che Dean ha fatto appena in tempo a mettere insieme, prima che un John stordito e incazzato gli lanciasse le chiavi dell’Impala. Ma la strada è buia, i fari delle auto che per poco non ha mandato fuori strada ormai sono lontani nel retrovisore e non basta quel minimo di luce, non basta nemmeno a capire se suo fratello sia ancora cosciente.
Non doveva essere lui. Dovevo essere io, pensa, ma no, lui era al volante di quella stupida macchina e Sam solo al motel, quando il demone aveva attaccato. Dean e John si erano resi conto di essere nel posto sbagliato solo tardi, troppo tardi – troppo tardi troppo sangue troppo tardi cazzo – e lui neanche riusciva a tenere in strada quella maledetta macchina per dieci chilometri.
“Papà, io…” tenta, ma John lo zittisce, gli occhi chiusi sotto una scia di sangue che parte dalla tempia e gli inonda la fronte.
“Guida.”
E non doveva essere lui, dovevo essere io pensa di nuovo, con l’ostinazione che hai quando hai diciotto anni e pensi di dover salvare il mondo, mentre allunga di nuovo il braccio verso il sedile posteriore. La mano incontra la pelle del sedile, viscida di sangue – tanto, troppo – e poi carne, e poi una stretta debole. La voce fioca di Sam alle sue spalle gli dice che ce la fa, che non è colpa sua – e Dean non molla la stretta un secondo, ma sa che può – deve – guardare la strada ora, se vuole tenerli con sé.
 

 
La station wagon quasi non fa rumore. La prima volta che ci è salito, Dean, ha detto che non c’è da fidarsi di qualcosa che non fa il rumore che ti aspetteresti da un’auto. “Non è una macchina, è una maledetta caffettiera giapponese!” aveva detto, e la portiera, prima di sbattere, non gli aveva regalato nemmeno un cigolio.
Ma era così che funzionava nel mondo in cui viveva ora. Nel mondo in cui vive le macchine sono silenziose, si accendono si spengono si parcheggiano da sole, trovare un pezzo di ricambio è talmente facile che non c’è nemmeno gusto, e le cassette che ha ascoltato per trent’anni sono totalmente inutili. Nel mondo dove vive ora, la Chevy ha un posto d’onore in garage, coperta da un telo, come se fosse finalmente arrivato anche per lei il momento di fermarsi, e qualche vicino di casa gli ha persino chiesto se colleziona auto d’epoca – ehi, amico, d’epoca a chi? Lo sguardo di Dean si sposta sullo specchietto retrovisore. La strada alle sue spalle è tranquilla, non c’è urgenza, non sta scappando. Non in quel senso, almeno. Due occhi seri e ammirati lo guardano, spiccano in un viso altrettanto serio appoggiato alla spalliera del sedile anteriore. Il ragazzino sorride, guardando concentrato i movimenti di Dean e i numeri sul display a led – che poi dannazione, sembra di guidare un computer. Dean sorride e il groppo in gola è così forte che pensa di soffocare da un momento all’altro mentre ricorda un altro ragazzino, un altro sedile, un’altra vita, un altro lui. La visuale si fa sfocata e il mondo sembra tremare e cazzo, dovevo essere io, non doveva essere lui, non appartengo a questo posto e a questo odore e a questa dannata scatola.
“Dean?”
La voce proviene dalla sua destra e una mano piccola, morbida si appoggia sulla sua, che stringe convulsamente il volante. Buffo come questa volta, invece di un rombo aggressivo, il lamento del motore abbia il suono di un sibilo ovattato, accompagnato da sussulti appena percettibili. Ha smesso di accelerare, persino la stupida efficientissima caffettiera giapponese ha qualcosa da ridire sulla quarta inserita a 20 chilometri orari.
“Dean, siamo qui” dice la voce, piano, ma in maniera decisa. Il ragazzo schioda lo sguardo da quello di Ben – così serio, così adulto e comunque così innocente, di quel tipo di innocenza che lo sguardo che Dean davvero cercava non aveva mai avuto. Non aveva mai potuto avere.
“Guarda la strada” dice Lisa, la mano sempre premuta sulla sua “Siamo quasi a casa.”
Dean annuisce – e per un attimo pensa che quella frase non ha senso, nessun senso, perché casa sua odora di sedili in pelle e di cheeseburger e di umido e di dopobarba e fa un dannato rumore e casa sua non c’è più, non ci può più tornare, perché non ci sono più quegli occhi nel retrovisore, non c’è più niente e non si può più tornare e lo ha capito perfino la scatoletta giapponese, perché ha smesso di accelerare – ma è un attimo. Perché poi Dean prende fiato e ascolta Lisa e la strada c’è davvero, lì davanti a lui. Il mondo esiste ancora, anche se per lui certi giorni è inconcepibile che possa esistere un mondo in cui suo fratello non esiste – in cui lo specchietto dell’Impala rimane vuoto, perché quella macchina non appartiene a quel mondo, quella macchina non ha senso senza lui e Sam.
Guarda la strada – che poi sì, Dean lo avrebbe urlato al cielo finchè avrebbe avuto fiato che doveva essere lui, non doveva essere Sam non doveva non doveva, ma non importava, perché non avrebbe cambiato la realtà. Suo fratello gli aveva lasciato quella strada da guardare.
Dean prende un nuovo respiro e innesta la prima – gli occhi di Ben inchiodati nel retrovisore, la mano di Lisa sopra la sua – poi lascia andare delicatamente la frizione.
 
  
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