Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-Gi-Oh! ZEXAL
Segui la storia  |       
Autore: Osage_No_Onna    07/09/2015    2 recensioni
[YuGiOh!ZEXAL X Slash:// X Puella Magi Madoka Magica]
Ave popolo di EFP!
Questa è la mia terza storia cross-over e la mia terza what if!
Ma, passando alla trama...
Una misteriosa ragazza viene catapultata ad Heartland City da un Universo Parallelo e perde buona parte dei suoi ricordi. Essa ha con sé una pietra verde dai misteriosi poteri e un ciondolo con un cristallo che, secondo le leggende, corrisponderebbe al "Cristallo della Purezza", una pietra magica di cui si sa poco e nulla... Ad ogni modo, questo accade circa cinque mesi prima dell' inizio di ZEXAL e, durante una notte buia e piovosa, questa ragazza (in punto di morte) viene raccolta da una misteriosa figura mascherata che le offre la salvezza, ma a prezzo molto alto...
Insieme alla ragazza, viene catapultato ad Heartland anche il suo ragazzo, che la vede sparire misteriosamente sparire nel nulla. Tutto ciò causa un cambiamento repentino del suo carattere e una vera e propria "caccia all' uomo" alla quale partecipano anche due Pueri Magi e (ovviamente) anche Kyubey sarà nella partita...
Cosa mai potrà succedere?
Leggete e scopritelo!
Dedicata a Feelings e a Ryoku. Grazie ragazzi!
Genere: Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Cross-over, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie '*For my love I'll survive*'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Chapter 09
Will things ever be the same again?
 

Quando Four rientrò al Grand Hotel di Heartland City, quella sera, l’atmosfera gli sembrò diversa dal solito. Erano le 18:40 quando decise di far rientro a “casa” e, camminando a passo svelto lungo strade ancora gremite di studenti sfaccendati dall’ aria fiacca, adulti tiranneggiati dai loro pargoletti urlanti, nervosi uomini d’ affari che stringevano i loro cellulari e le loro ventiquattrore tutte uguali come se non perderle fosse questione di vita o morte e coppiette che si godevano l’aria frizzante e fresca della sera camminando placidamente; si ritrovò vicino alla soglia del colossale edificio: mille stanze per quaranta piani, uno dei quali era interrato, ed un grosso cuore circondato da una doppia elica dorata (ad imitazione di quello della Heartland Tower) la cui spesa per l’ illuminazione mangiava circa un quarto degli incassi.
Il diciassettenne lo trovava alquanto ridicolo, quindi volse gli occhi al cielo per non guardarlo.
Mancavano pochi minuti alle sette, eppure il sole stava già tramontando.
Il cielo aveva assunto varie sfumature di arancione e rosa, ma la lieve striatura rossa che stava cominciando ad apparire all’ orizzonte faceva presupporre che tra non molto la luce solare si sarebbe dovuta scomporre nei suoi sette colori, creando uno spettacolo meraviglioso.
Veloci caroselli di rondini si susseguivano sopra la sua testa, riempiendo l’aria di allegri cinguettii, mentre il profumo delle camelie rosa e di quelle variegate gli solleticava le narici.
Alcune calendule, tra le aiuole che circondavano l’ ingresso, erano fiorite anzi tempo, mentre i boccioli delle compagne ondeggiavano appena alla lieve brezza primaverile.
Quel paesaggio idilliaco gli allargò il cuore e per un po’ rimase immobile a qualche metro dall’ ingresso, desiderando ardentemente che tutte le sere fossero come quella: si sentiva straordinariamente bene, sereno e in pace con sé stesso come non lo era ormai da tempo.
Il passaggio di due ragazze, l’ una mora con mèches rosse e dai magnifici occhi smeraldini che tradivano origini cinesi, l’ altra dalla lunga coda di cavallo e gli abiti grigio perla, cieca a giudicare dalle spesse lenti scure che le coprivano gli occhi, non lo turbò minimamente.
Si riscosse solo quando sentì qualcuno sbattere contro di lui.
L’ apparizione si affrettò a chiedergli scusa in inglese e Four la squadrò con aria seria: era un uomo dal fisico asciutto e, a giudicare dalle rughe e dal grigiore dei lunghi capelli, doveva aver passato la cinquantina da un po’.
Aveva occhi verdi, allungati e scrutatori, che scintillavano di una strana luce, un grosso naso aquilino e zigomi alti. Tutti i suoi abiti, dalla camicia al gilet ai pantaloni, sembravano essere stati acquistati di recente. I mocassini che calzava, invece, erano stati logorati dal troppo uso.
Sembrava essersi perso e si guardava intorno con aria ansiosa e sospettosa.
Four capì immediatamente che qualcosa non quadrava.
“Perdoni la mia distrazione”. Gli disse in tono di scusa rialzando il grosso trolley di cuoio che gli era caduto. “Ha bisogno d’ aiuto?”
“Lei risiede in quest’ hotel?”
fu la secca risposta.
“Brutto segno” s’ insospettì il giovane. Cosa poteva volere, quell’ uomo? Perché quella domanda improvvisa e del tutto inaspettata? E il tono secco?
Quell’ uomo non gliela contava giusta.
Cos’ era venuto a fare? Non l’aveva mai visto prima in città.
Per quel che ne sapeva poteva essere un agente segreto, una spia o, peggio ancora, un efferato criminale, un sicario.
Decise di giocare a carte coperte.
“Perché dovrebbe interessarle?” chiese freddamente.
“Semplicemente perché, da turista, non conosco bene la città e vorrei sapere quanto costerebbe pernottare qui.”
Four tirò un sospiro di sollievo, ma qualcosa ancora non gli tornava: perché mai un turista avrebbe dovuto venire ad Heartland City (o a Khartoum, ad Helsinki o a Las Vegas) senza prima prenotare una camera d’ albergo o prendere in affitto, se non una casa, almeno un appartamento o uno stanzino per dormire?
Semplice disorganizzazione oppure, come sospettava, c’era qualcosa sotto?
Ancora carte coperte.
“Lei non ha propriamente l’aria del riccone” commentò, aria scanzonata e mani nelle tasche.
L’ uomo si irrigidì. “È molto costoso?”
« “Costoso” è un eufemismo. Tutte le persone che vede qui sono almeno milionarie. Miliardari, politici, artisti di fama internazionale. Roba di lusso. Concedono sconti solo ai riccastri esteri.»

Discreta ridacchiata, gesti nervosi dell’interlocutore.
“Grandioso. Saprebbe consigliarmi un posticino economico? Niente topaie, ovvio.”
“Strano tipo” pensò ancora Four. Parlava cortesemente ma poi cadeva nel confidenziale senza volerlo, come se non fosse stato abituato a trattare con gli sconosciuti o con i superiori.
Bisognava stare al gioco.
“Nulla di più facile, carissimo. Imbocchi la strada a sinistra non appena esce dal complesso, poi, arrivato al semaforo, giri a destra e percorra i primi tre isolati. Al quarto troverò un hotel, un tre stelle. Il vitto è buono, dell’alloggio non saprei dirvi ma credo che tenga alto lo splendore delle stelle. È in ottima posizione e circondato da negozi.”
“Da quel che mi ha appena detto direi che ho trovato la mia residenza provvisoria.”
Sorrise l’uomo, afferrando la valigia. “La ringrazio molto per il suo aiuto. Ci si rivede.” Si accommiatò, prima di svanire all’ orizzonte.
“Piacere mio, arrivederci.” Rispose meccanicamente il diciassettenne, mentre pensava “Non credo proprio” in risposta all’ ultima affermazione.
Chiamò tra sé “L’ Uomo Incognita” lo sconosciuto, poi si decise finalmente ad entrare e prenotò l’ascensore.
Qualche minuto dopo varcava la soglia dell’appartamento 969, trentottesimo piano.
Tutto era insolitamente quieto e, nonostante le finestre aperte, non entrava un filo di vento.
Sul divanetto rosso giaceva una figuretta sottile: era Sixth che, sfiancata dal lungo allenamento forzato con Tron e attanagliata da un’improvvisa emicrania, vi s’ era buttata a peso morto mezz’ ora prima. Doveva essersi lavata i capelli, notò il secondogenito, perché qua e là tra la folta chioma mossa spuntava qualche ricciolino ribelle.
Seduto su una poltroncina, Tron masticava con tutta calma un boccone della sua terza o quarta fetta di Red Velvet nel giro della stessa giornata e non parve accorgersi del suo arrivo.
Three, le mani sporche di wasabi [1], si accingeva a preparare la cena canticchiando sottovoce “Lord Randal”, una delle sue ballate preferite. Lo salutò con un sorriso e poi intonò l’ultima stanza.
“What d’ ye leave to your true love, Lord Randal, my son?
What d’ ye leave to your true love, my handsome young man?
I leave hell and fire, mother, mak my bed soon
‘For I’m sick at the heart and fain would lie doon… [2]
Senza saperlo, cantava la sua rabbia.
Five sembrava essersi volatilizzato.
Tron finì la sua torta, si volse verso Four e gli lanciò uno sguardo di sbieco. Poi, con un tono fintamente svampito, chiese a Michael: “Ehi, Three! Conosci questo giovane uomo nel mio salotto?”
Il diretto interessato represse una smorfia di fastidio: quella pantomima non era che un modo tacito di rimproverarlo ogniqualvolta combinasse qualcosa di sbagliato. Perché Tron si ostinava a ripetere sempre lo stesso rito? Avrebbe preferito i rimbrotti di poche, dirette parole.
“Tuo figlio.” Rispose al posto del terzogenito, accennando un sorriso.
“Mio figlio chi?”
“Il secondo, Four…”
“Ah, già!”
Tron provava una sorta di gioia maligna nel far finta di rinsavire per poi rimproverare l’arrogante figliolo. “Ehilà, grande F.! Non credi di stare esagerando con le uscite, ultimamente?”
“È per i duelli, padre. Dovrò pur essere allenato in vista del grande giorno. E poi stare sempre chiuso in casa mi fa impazzire.”

Il bambino socchiuse gli occhi sotto la pesante maschera di ferro. “Ma quasi nove ore in giro sono troppe, caro mio. Questa casa non è un albergo.”
Sorvolando sull’ assurda frase contradditoria appena pronunciata dal genitore, il ragazzo rispose beffardo: “Infatti, è un Bed and Breakfast.”
Prima che Tron avesse il tempo di replicare, Michael chiese apprensivo dalla cucina: “Almeno hai mangiato qualcosa per pranzo? Qualcosa di sano?”
“Non preoccuparti per questo!”
ridacchiò il secondogenito per poi esclamare, sempre rivolto al fratello minore: «Cadetto, cantaci un po’ “Barbara Allen” e fa’ in modo che si senta!»
Four aveva un inconfessato debole per le canzone interpretate dal fratello.
Certo, la maggior parte di esse erano antiche ballate i cui protagonisti andavano incontro ad una tragica fine, da Lord Randal che muore avvelenato a Geordie incatenato a catene dorate, e la voce di Three non era esattamente quella di un tenore, anzi corrispondeva a quella di un mezzosoprano tragico, chiara ed argentina com’ era, ma era sempre piacevole ascoltarlo in quei rari momenti di quiete.
Quand’ erano più piccini era la madre a cullarli con la sua bella voce simile al suono dell’ arpa e da quando era scomparsa, quasi sei anni fa, erano sempre Chris o Michael a sostituirla.
Di tanto in tanto, durante le sere calme che si trascinavano avanti nella loro fatica, il primogenito riesumava dall’ oblio in cui era precipitato il vecchio pianoforte a coda appartenuto a Miss Arclight, un vecchio Steinway scordato dal quale si riuscivano ancora a tirare fuori suoni armoniosi, e rallegrava il loro animo suonando vecchie canzoni, brani sconosciuti sentiti per radio ma il cui motivo era stato afferrato grazie al suo incredibile orecchio assoluto, le canzoni straniere di cui Sixth si riempiva le orecchie o versioni più lente delle ultime hit eseguite dalle Three Little Souls.
Five aveva una bella voce, possente e melodiosa, ma, vuoi per l’imbarazzo, vuoi per il rifiuto di far sentire la propria voce, finiva quasi sempre per occuparsi solo dell’accompagnamento musicale.
Era il solo che sapesse suonare bene il piano: Four ne aveva appresi i rudimenti ma non aveva la maestria del fratello maggiore, Three amava la musica ma c’era bisogno che qualcuno suonasse per lui, per quanto riguarda Sixth la ragazza guardava lo strumento con aria truce, quasi volesse sfidarlo a duello.
Anche lei, come il terzogenito, aveva una vocetta chiara e dolce, ma tendeva ad acuirla durante il canto e dopo un po’ risultava sgradevole alle orecchie. Inoltre, quando doveva tenere una vocale o una sillaba troppo a lungo, le sue corde vocali non reggevano.
Quando non cantava accompagnava Chris con il suo violino, uno dei pochi “residui” della sua vita precedente.
La voce di Four era un po’ aspra, ma si dava sempre da fare per accordarla a quelle di fratelli e sorella e per tenere il tempo.
In passato, da gentiluomo generoso e raffinato qual era, anche Byron amava cantare e suonare: non di rado lo si sentiva accompagnare la consorte mentre cantava la ninnananna ai figli ancora piccoli.
Si recava spesso a teatro per le prime dei concerti e aveva una vasta collezione di vecchi dischi, tutti di musica classica: Rondò Veneziano, Bach, Schiller, Liszt, Stravinskij, ma il suo preferito era Beethoven.
Fattisi più grandicelli, i ragazzi Arclight avevano preso l’abitudine di ascoltare la musica sul suo vecchio grammofono e, come lui, la apprezzavano nonostante i salti e gli stridii.
A Tron, invece, questa passione non era rimasta e preferiva ritirarsi per la notte o guardare i cartoni quando vedeva il resto della famiglia accingersi a cantare.
Ma per il secondogenito quelle ore scandite dalle note non erano solo un semplice svago, come dava a vedere: erano la sua consolazione, la sua speranza.
La musica penetrava dentro la sua anima risanando le sue ferite, placando la sua rabbia celata e gli infondeva la dose adatta di ottimismo per fargli credere che tutto si sarebbe risolto per il meglio e la sua famiglia sarebbe ritornata quella di un tempo.
Oltre ai duelli era la sola cosa che lo tenesse vivo.
Quando III annuì con insolito vigore in risposta alla sua domanda gli si allargò nuovamente il cuore e sulle labbra di VI dormiente passò un lieve sorriso, quasi avesse assistito a tutta la scena.
Tuttavia, il povero ragazzo ebbe appena il tempo di intonare “T’was in the merry month of May… [3]” che il tirannico capofamiglia lo bloccò con un secco colpo di tosse e Five, fino ad allora occupato a rimettere a posto l’attrezzatura elettronica, fece capolino nella stanza.
“Perfetto, ci siamo tutti.” Gongolò Tron facendo dondolare le gambe avanti e indietro. “Che abbia inizio la seduta straordinaria!”
“Cosa sarebbe, una riunione di condominio?” pensò seccato Four, le sopracciglia aggrottate, mentre Three usciva dalla cucina e si accomodava su una delle poltroncine rosse insieme al primogenito.
Sixth continuava beatamente a dormire, per cui il terzogenito chiese se ci fosse bisogno di svegliarla.
Risposta negativa. “No, lasciala dormire. Se avessimo avuto bisogno di lei te l’avrei già chiesto, no? E poi non credo proprio che le piacerà ascoltare quanto sto per dire…”
Le sopracciglia del secondogenito schizzarono fino alle stelle.
Cosa intendeva dire? La riunione verteva su di lei? E allora perché non avrebbe dovuto ascoltare?
“Certo che è davvero incredibile la velocita con cui vi siete affezionati a quella bimbetta.” Continuò il bambino. “Davvero, ragazzi, non vi facevo così sprovveduti.”
Intuendo la piega che stava prendendo la conversazione, Four chiese, con fare interessato: “Com’ è andato l’allenamento?”
“È stato una vera tortura. Quella ragazza è molto intelligente ed ha una buona strategia, ma il suo odio verso le carte non le permette di duellare bene. Non si applica.” Testuali parole.
Michael, chiaramente teso, deglutì rumorosamente e i suoi occhi s’ adombrarono.
Gli altri due si scambiarono uno sguardo apprensivo, ma tutti e tre sperarono per un secondo che il padre non dicesse quel che aveva in mente, risparmiando alla nuova venuta futuri dispiaceri. Purtroppo, la loro richiesta non fu accolta.
“Farete bene a dimenticarla, cari miei, perché tra un po’ non la vedrete più.” Ghignò infatti Tron, gli occhi che brillavano di luce malvagia come sempre accadeva quando esponeva uno dei suoi piani. “Stasera, dopo cena, le dovrò fare un altro rituale per potenziare il suo stemma, così sarà al vostro livello e potrà fare tutto degnamente. È sempre utile avere una mano in più…”
“E dopo che avremo attuato la nostra vendetta?” chiese Five, algido come sempre.
“Non ci ho ancora pensato, ma credo che non potremo tenerla con noi. Una mocciosa sul groppone è proprio una gran seccatura. Credo proprio che dovrà tornarsene da dove è venuta…”
Three si alzò di scatto, il volto ancora più teso, e si diresse verso il divanetto rosso sul quale la ragazza dormiva, del tutto ignara di quelle parole. La prese in braccio, reggendola per le spalle e le ginocchia e, dopo aver bisbigliato qualcosa del tipo “La porto nella sua stanza” corse difilato nel lungo corridoio che separava i vari ambienti dell’appartamento per non far vedere le lacrime che cadevano sulle sue guance.
In occasioni normali, Four non avrebbe nemmeno notato quella scena oppure si sarebbe limitato a ridere dietro al fratello, ma quella scena lo lasciò senza fiato: come faceva, Michael, a rimanere così gentile ed innocente nonostante vedesse perennemente la famiglia sfasciarsi? Ma soprattutto, come poteva Tron dire quelle parole? Se diceva quello di una ragazza che aveva raccolto per strada non c’era da stupirsi se ormai i figli erano diventati piccoli paggetti obbedienti, subordinati alla sua volontà.
Lui ci aveva fatto la pelle da un pezzo, ma tutto quel che aveva subito aveva fatto sì che dentro di lui crescesse un seme amaro, che ormai si faceva sentire sempre più spesso.
Non riusciva a buttare giù tutto come un tempo e, tutte volte in cui pensava che Tron avesse raggiunto il fondo, veniva puntualmente smentito.
Decise di rimanere ancora un po’.
“E come pensi di fare?” chiese beffardo. “Vuoi aprire un varco dimensionale, com’è successo con te?”
“Sei perspicace.” Ridacchiò il bambino. “Faker l’ha fatto sembrare un giochetto da bambini, vuoi che non ci riesca io?”
“E se invece non sarà così?” chiese invece Chris.
Il fratello diciassettenne aveva sempre trovato innaturale la sua proverbiale calma.
Il suo volto non tradiva emozioni e, da cinque anni a quella parte, non l’aveva mai fatto, nemmeno una volta per sbaglio. In particolare, gli occhi rimanevano sempre gli stessi, tremendamente stoici e solo le labbra potevano far capire quel che provava, anche se spesso veniva da chiedersi se quel che esprimeva il suo volto di porcellana fosse reale o fosse invece tutta una finzione, una maschera. Sixth aveva espresso spesso la propria ammirazione (ed anche l’invidia) per questa capacità del fratellone e solo adesso Four ne capiva il motivo.
“Allora credo che l’unica soluzione sia l’orfanotrofio.”
“Vado a vedere cosa sta combinando Three in quella stanza. Ci sta mettendo decisamente troppo tempo a tornare.”
Four si alzò e percorse il corridoio a grandi falcate. Era semplicemente disgustato dalle parole paterne.
Cosa gli faceva credere di poter decidere sulla vita di Sixth fino a quel punto? Che schifo.
Non aveva esattamente bei ricordi dell’orfanotrofio e l’immagine di quel luogo squallido e oscuro, con tutte le privazioni che aveva patito, aleggiava ancora nei suoi incubi più tremendi.
In quei giorni terribili era stato semplicemente malissimo. Aveva imparato presto come reagire alle beffe altrui, ad usare il sarcasmo o peggio la violenza per farsi rispettare e far rispettare il fratellino, troppo timido e debole per autodifendersi.
Aveva capito quanto poteva essere marcio il mondo, a volte; che spesso e volentieri i sogni s’ infrangevano come cristalli sul pavimento; che stare piantato coi piedi ben saldi a terra lo avrebbe aiutato ad evitare altre delusioni.
Spalancò la porta della stanza di Sixth con un colpo secco.
La ragazza era stata distesa su un fianco sul letto dalle coltri candide coltri e continuava a dormire come se nulla fosse successo, ma Michael, seduto ai suoi piedi, leggeva la raccolta di favole di Esopo chiamata “La Rosa e l’Amaranto” con una certa agitazione.
Più che leggerla, anzi, sfogliava solo le pagine senza darvi nemmeno uno sguardo e sia i kanji sia le lettere greche si presentavano agli occhi come masse informi d’ inchiostro senza un qualsivoglia ordine o significato, più indecifrabili delle rune.
Tremava senza riuscire a controllarsi, ma cercava disperatamente di reprimere i singhiozzi, cosa che invece gli riusciva alquanto bene.
“Nemmeno tu hai retto, non è così?” chiese Four al fratellino, sedendosi accanto a lui e accarezzandogli la testa com’ era solito fare con il suo cagnone.
Michael scosse la testa: la cara bestiola mancava a tutti, questo era chiaro, ma non era un buon motivo per pretendere che lui la sostituisse; per cui si limitò da scuotere la testa e ad annuire tristemente.
La facilità con cui pensa di… poterla mettere da parte… dopo tutto quel che sta facendo… è orribile… sto male io per lei… mi ha ferito.” Singhiozzò il povero quindicenne portandosi le mani alla bocca. “Che fine ha fatto nostro padre…”
“È diventato un mostro, ecco che fine ha fatto.”
Gli rispose duramente il fratello. “E noi i suoi infaticabili schiavetti.” Per consolare Three, cercò di buttarla sul ridere: «Certe volte mi aspetto solo che, dopo ogni ordine, ci dica “Tutto chiaro, schifosissimi buoni a nulla?” e allora sarebbe identico a quel generale, sai, quello di quel film che abbiamo visto due mesi fa…»
Non ci riuscì, perché il fratello ricominciò a gemere ed ancora più forte.
“Credo che manchi davvero poco perché cominci a farlo, sai…” gli rispose il quindicenne, facendogli gelare il sangue nelle vene. “Ogni giorno che passa ho sempre più paura, mi sento come se fossi sotto la spada di Damocle…”
“E probabilmente lo siamo. Perché continuate a dargli retta e a comportarvi come cagnolini? Anzi, perché lo facciamo?”
“Perché in fondo noi continuiamo ad amare nostro padre, credo.”
fece Michael asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. “Anzi, è sicuramente così. Credo che sarebbe molto più strano se fosse il contrario, cioè se lo odiassimo. Come si fa ad odiare un genitore? E poi lo appoggiamo, anche, perché anche noi vorremmo che ritornassimo quelli di un tempo… però…”
“Però?”
“Però, proprio stamattina, mi chiedevo se tutto questo fosse davvero necessario…”
Entrambi tacquero per un po’, gli occhi bassi.
“Penso di aver capito cosa intendi. Tu concepisci la serenità come l’adattarsi alla situazione in cui si è e fare di tutto per migliorarla. Sono anch’ io dello stesso parere.”
Per quanto questa affermazione potesse sembrare inconsistente o contradittoria rispetto al suo usuale comportamento, anche il fondo al suo cuore ardito bruciava il desiderio di serenità.
“Già…” rispose Michael lentamente. Il fratello aveva centrato perfettamente il bersaglio, ma ormai lui stava cominciando a perdere le speranze: Tron non avrebbe MAI ceduto, era stato letteralmente divorato dal quella stupida vendetta e qualunque cosa avessero fatto per provare a fermarlo sarebbe risultata del tutto inutile.
In parte, il povero quindicenne ammirava i tentativi del fratello di ribellarsi al tirannico padre e di seguire, in un certo senso, la sua strada, e gli sarebbe piaciuto imitarlo, ma il solo pensiero di farlo gli faceva salire dei sensi di colpa astronomici: data la sua indole dolce e remissiva non sopportava vedere i familiari arrabbiarsi o soffrire a causa sua.
Si era rimproverato spesso per la sua codardia, ma non trovava il modo per cambiarla nel coraggio che tanto desiderava avere.
“Three, va tutto bene. Siamo tutti e tre insieme in questo progetto… Speriamo che finisca al più presto.” Gli sorrise Four, passandogli nuovamente una mano sulla testa.
Il quindicenne deglutì e sorrise, gli occhi pieni di gratitudine, ma nessuno dei due si sentiva minimamente sollevato.
Quando lasciarono la sorella a riposare sul suo letto per ritornare nel salotto sembrava che entrambi camminassero sulle uova e che avessero un blocco di cemento nello stomaco, più che un semplice groppo.  
***
 
 
La stanza di Tomoya, a malapena bastevole per una persona, si stava letteralmente trasformando in un bugigattolo atto ad ospitarne ben cinque: c’ erano borse e borsoni ovunque (che erano costati ai ragazzi un paio di altri viaggetti interdimensionali, se non di più); abiti che volavano dappertutto; un angolino dedicato a una provvista generosa di cibo che i due Pueri Magi, usciti per un’altra delle massacranti ronde imposte da Kyuubey, avrebbero portato; oltre a quattro futon distesi per terra.
“Sarà fantastico abitare in questa topaia!” esclamò Paula su di giri, gettandosi a pesce su uno di essi.
Sua cugina, occupata a ripiegare gli abiti e a sistemarli in uno strano armadio triangolare che sembrava essere fatto di compensato, non sembrava essere dello stesso parere.
“Non sarebbe stato meglio prendere in affitto un’altra stanza?” mugugnò infatti armeggiando con uno dei suoi innumerevoli maglioni, di quelli che in quelle calde giornate di fine aprile facevano venire caldo solo a guardarli.
Il tibetano, disteso sul suo letto, sospirò. “Anch’ io l’avrei preferito, ma con questo stupido Carnevale Mondiale di mezzo tutte le stanze libere, dal migliore Hotel a cinque stelle al peggior buco in questa città, sono state prese d’ assalto dalle miriadi di turisti.”
Sospiro di rimando. Non era difficile capire a cosa stesse pensando la povera fiorentina, che odiava i luoghi eccessivamente affollati più di qualsiasi altra cosa.
Ma la vivace spagnola non la pensava come lei, anzi, si sentiva eccitata alla prospettiva di sfidare persone provenienti da tutto il mondo così come lo era stata quando le era arrivata l’e-mail d’ ammissione al campus “La Tredicesima Torre”, in cui poi s’ era perfezionata nel suonare la batteria ed aveva conosciuto la sua allegra combriccola internazionale di amici.
Solo che il WDC era molto più adrenalinico.
Aveva imparato in fretta a giocare a Duel Monsters e si riteneva piuttosto brava, quindi era più che naturale che non vedesse l’ ora di incontrare persone che condividevano questa sua (nuova) passione e di imparare nuovi trucchi.
Non era affatto seccata da quel “trasferimento momentaneo” e, così come aveva sempre fatto con qualsiasi evento, lo prendeva con vitalità ed ottimismo.
Isaia, già in pigiama blu e grigio sulla cui maglietta era stampato un grosso occhio di Ra, era seduto su una sedia e cercava di risolvere alcuni test di logica e matematica su una rivista consumata. Lui aveva già finito da tempo di sistemare quel poco di bagaglio che si era portato dietro ed ora, felice di non dover sgobbare fino a tardi sui libri, si rilassava un po’. I giochetti d’ enigmistica lo divertivano moltissimo e, grazie all’ intelligenza matematica che possedeva, risolveva in pochi secondi giochi per i quali gli altri impiegavano molto più tempo, ma aveva un grosso debole, non celato, e per questo veniva spesso stuzzicato.
“Non ho capito perché a terra ci sono quattro futon…” disse, interrompendo per un attimo i suoi ragionamenti. “Chi altro dorme con noi?”
“Chen.” Rispose dal suo letto il tibetano, celando il suo sollievo nell’ avere anche l’amica cinese accanto a lui nel gravoso compito che dovevano portare a termine: in parte ce l’aveva ancora con lei per tutti i rimbrotti che gli aveva fatto, ma sapeva anche che senza di lei non sarebbe stata la stessa cosa.
Arrossendo violentemente e provocando le risatine soffocate di Matilde e Paula, Isaia chiese: “M-ma come? Non si era trovata una stanza anche lei?”
“Avevamo già deciso che, al vostro arrivo, si sarebbe sistemata qui.”

Le guance del povero afroamericano divennero ancora più rosse, con gran divertimento degli spettatori, ma per fortuna il ragazzo fu salvato in extremis dallo squillo del suo cellulare.
“Sì, pronto?!” si affrettò a rispondere. Se non fosse stato così agitato (e questo accadeva praticamente tutte le volte che parlava con Chen o si parlava di lei) probabilmente non avrebbe posto quella domanda, perché nella circostanza in cui si trovava c’era solo una persona che avrebbe potuto chiamarlo.
“Isaia, sono John. Tutto bene lì da voi?” rispose la voce del Cobra all’ altro capo del filo invisibile che li collegava.
Nemmeno avessero sentito tutto, gli altri si voltarono immediatamente verso di lui.
“Ah, sì, tutto bene… stiamo finendo di sistemarci. E tu? Sei riuscito a trovare un posto in cui stare?”
“Sì, sono riuscito miracolosamente a trovare una stanza libera in un ryokan[4] nei pressi della piazza.”
Rispose l’uomo con una punta di soddisfazione.
A onor del vero la stanza era alquanto stretta e definire l’arredamento “spartano” sarebbe stato un eufemismo, ma quantomeno le pareti erano state tinteggiate di recente con colori vivaci e tinte pastello e le finestre davano sulla strada.
“È stata una stupidaggine, a ripensarci adesso, non aver prenotato prima…” sospirò ancora Matilde, passata dai vestiti ad una pila di libri decisamente più alta di lei che le era costata una borsa supplementare.
“Come potevamo sapere quali alberghi chiamare?” rispose di rimando Paula, ancora stesa supina sul futon ormai completamente sottosopra.
“Sacrosanta verità”, pensò Isaia mentre si sforzava di seguire le parole dell’interlocutore che dava loro appuntamento per l’ora di cena vicino ad un ristorante chiamato “Starry Garden”.
La loro riunione strategica di quella mattina si era protratta per un bel po’, ma c’ erano ancora alcune cose da definire e, visto che il piano avrebbe dovuto essere messo in atto a partire dal giorno dopo non potevano permettersi di sprecare altro tempo.
In attesa che la chiamata terminasse, Tomoya si alzò dal letto e si sporse alla finestra, pensieroso.
In un vicolo angusto un plotoncino di gatti macilenti si azzuffava per una coscia di pollo già mezza spolpata: in un certo qual senso il ragazzo aveva già avuto occasione di conoscerli e talvolta, quando avanzava un po’ di carne dal suo pranzo o dalla cena la lasciava volentieri a quelle povere bestiole.
Aveva persino dato dei nomignoli ad alcuni di loro, in modo da riconoscerli più in fretta: Suren, la più anziana del gruppo, era una maestosa soriana marrone dalle sfumature color ebano e intensi occhi verdi e, nonostante la sua magrezza, aveva qualcosa di magnetico nello sguardo; Naran e Bayar, i due inseparabili cuccioli di Japanese Bobtail, talmente curiosi che una volta erano riusciti chissà come ad entrare dalla finestra in camera sua ma poi non ne erano più usciti fino al suo arrivo; e Squid, il più pasciuto del gruppo, silenziosissimo, discreto come la neve e dall’ aria annoiata, erano quelli a cui più si era affezionato.
Si sentì un sonoro “click” e Isaia poggiò il cellulare sul cassettone pieno di bonsai.
“Abbiamo ufficialmente qualcosa da fare per stasera.” Annunciò ai compagni, socchiudendo gli occhi: probabilmente non gradiva molto sentire i loro occhi su di sé.
“Ossia?” chiesero gli altri tre contemporaneamente.
«Il Cobra ci ha invitati a cenare con lui al ristorante. Lo “Starry Garden”. Tomoya, tu lo conosci?»
“A dire il vero no.” rispose il diretto il diretto interessato. La sua voce, però, non era fredda o indifferente come le altre volte, perché tradiva un certo interesse. “Ci sono passato davanti qualche volta, ma con quell’ aura da ristorante di lusso che emana non credevo che ci sarei mai andato.” Sorrise.
“E perché dovremmo andarci, se è tanto costoso?” volle sapere Matilde, ancora alle prese con la sua pila di libri.
“Perché deve darci le ultime disposizioni.”
Il tibetano storse il naso: evidentemente non considerava una grande idea passarsi informazioni in un luogo superaffollato. Inoltre neanche a lui piaceva trovarsi in mezzo alla folla e forse non era così strano, visto che era cresciuto nel Tetto del Mondo e solo poche volte ne era sceso.
Paula notò il suo gesto, lo comprese al volo e prese la parola: “Non è poi un piano così insensato, quello di John: mimetizzarsi tra le persone è il miglior modo per passare inosservati. E poi non credo proprio che i VIP che cenano lì siano tanto interessati a divulgare i nostri segreti, queste persone vogliono soltanto starsene in pace per un po’.”
“Anche i muri hanno le orecchie.”
Sentenziò la cugina, e questo bastò a farle temere di aver parlato troppo precipitosamente.
“E la prudenza non è mai troppa. Faremo meglio a misurare i gesti.” Approvò il loro “mentore” con un discreto cenno del capo.
Isaia stava per ribattere sarcasticamente alla mancanza del classico “Un antico proverbio del mio paese” ma si guardò bene dal farlo e, abbandonata la sua rivista, cercò tra i suoi indumenti quelli più adatti ad una serata mondana.
Ci fu un breve silenzio interrotto da una domanda di Matilde, che voleva sapere dove fossero finiti Muhammad, Stephan e Chen. Quest’ ultima era andata a fare una passeggiata in centro e probabilmente era rimasta invischiata in qualche duello, ma degli altri due, che avrebbero dovuto essere rientrati da un pezzo, non si avevano informazioni.
Soddisfatta la sua curiosità, la studiosa ragazza estrasse dalla sua borsa un quadretto, un paio di disegni ed uno strano involto di seta giapponese.
Dentro vi erano sette fiori secchi che ancora conservavano i loro colori, accesi o delicati che fossero: fra tutti spiccava una grossa camelia i cui petali bianchi presentavano anche una lieve sfumatura rosa acceso in punta, ma il grosso ibisco rosso o il delicato ma forte amarillide, con il suo colore rosa delicato, non avevano nulla da invidiargli.
Gli altri fiori, a parte un piccolo lillà dallo stelo strappato, le erano sconosciuti, ma grazie al cielo la precedente proprietaria aveva posto vicino ad ognuno di essi un biglietto su cui ne era scritto il nome. Così scoprì che il calicanto era un fiore piccolo dalle delicate tinte giallo chiaro; che l’agapanto, nonostante somigliasse moltissimo al fiordaliso, era in realtà molto diverso e che i fiori di piracanta erano bianchi, al contrario delle bacche che presentavano colori accesi.
“Rappresentano l’evoluzione del nostro rapporto” le spiegò Tomoya mentre riponeva i fiori in una scatola, mentre l’ombra di un sorriso sfiorava le sue labbra sottili. Anche gli altri due seguivano con interesse, ma cercavano di dissimulare la loro curiosità. “Hanno tutti un significato ben preciso. Quando le ho regalato il primo fiore, l’amarillide, ho pensato che sarebbe stato un messaggio giocoso senza appello, perché la invitavo a confidarsi e allora era ancora… diffidente. Eppure, incredibilmente, ha risposto. I fiori erano, in un certo qual senso, un modo per comunicare quel che non avevamo il fegato di dirci di persona. Così il significato dei fiori diventava più profondo e affettuoso al mutare dei nostri sentimenti per l’altro.”
Il viso del ragazzo a quel punto esprimeva nostalgia e Matilde giurò a sé stessa che non ne aveva mai vista così tanta negli occhi di qualcuno, specie negli adolescenti. Era paradossale che proprio loro che dovevano godersi la gioventù si erano lanciati in una missione con la quale non si poteva scherzare, pensò la ragazza per un momento vedendo l’amico assente.
Ma fu solo un momento, perché lui riprese a parlare: “Purtroppo stavolta non sarà così: non basterà lasciarle un fiore ed un messaggio al davanzale della finestra per sperare di ritrovarla, ci vorrà molto più tempo. Mi mancano quei momenti e talvolta dubito persino che riusciremo a riportare tutto alla normalità…”
Un suo sospiro aleggiò per tutta la stanza, solleticò la tristezza nei cuori dei presenti e infine rotolò fuori dalla finestra, sorpassando i gatti che avevano in qualche modo trovato un accordo e si stavano godendo la loro magra cena e scoppiò come una bolla sopra i tetti più bassi di Heartland City.
Due alte ombre si stagliarono contro i muri dell’ostello: erano Stephan, che data la caviglia slogata procedeva zoppicando e dai cui occhi traspariva un guizzo di terrore e allo stesso tempo sollievo per essere scampato a qualche orribile tortura, e Muhammad che procedeva ad occhi bassi, i cui arti presentavano almeno una decina di lunghi graffi ed aveva una tempia sanguinante.
Dietro di loro, il mandante delle loro missioni zampettava come se nulla fosse successo: ovviamente non era lui quello esposto alle raffiche di attacchi delle Streghe, che si avventava contro di loro nella speranza di ucciderle e di ricavarne dei Grief Seeds.
Era un compito che spettava agli umani. Lui doveva solo cristallizzarne le anime e raccogliere l’energia negativa che sprigionavano quando finalmente si sarebbero trasformati in Streghe e Stregoni a loro volte, così che l’Universo continuasse a vivere.
Questo Muhammad non lo sapeva, ma nonostante si fosse abituato all’ imperturbabilità dell’animaletto nel suo intimo trovava comunque molto fastidiosa la sua totale mancanza d’ empatia.
Dal canto suo Kyuubey non capiva perché quei mocciosi si ostinassero a non controllare la Soul Gem: non solo avrebbero reso molto di più in combattimento, ma si sarebbero anche risparmiati tutte quelle smorfie e il dolore. In compenso avevano almeno la decenza di usarla per guarirsi, come stavano facendo davanti ai suoi occhi.
Il sudafricano spalancò con veemenza la porta della stanza e vi entrò, seguito a ruota dall’ amico, si avvicinò a Tomoya e, guardandolo negli occhi azzurri e gli disse minacciosamente: “Prova a ridire quelle parole e ti spacco le ossa una per una.”
Il ragazzo deglutì: aveva recepito il messaggio.
Doveva essere ottimista.
Ma certe volte proprio non gli riusciva.
Non riusciva ad essere quello che era sempre stato e a togliersi quella maschera che aveva dovuto attaccare al viso con la colla.
Non riusciva a non sprofondare nel pessimismo.
Non sapeva nemmeno lui perché e questo lo feriva.
Espresse per l’ennesima volta il desiderio di sbrigarsela in fretta e per bene.
Ma chi poteva assicurargli che ce l’avrebbe fatta per davvero?




[1] Wasabi: pianta la cui radice è molto simile al rafano, usata per insaporire il pesce crudo.
[2]: "Cosa lasci al tuo vero amore, Lord Randal, figlio mio?
Cosa lasci al tuo vero amore, Lord Randal, mio bel giovanotto?
Le lascio il fuoco dell' inferno (lett. "l' inferno e il fuoco"), madre, fa' presto il mio letto
Perché ho male al cuore e vorrei distendermi."
Antica ballata scozzese eseguita da Girolamo dell' Armellina. (La traduzione non è mia, ma l' ho trovata su Youtube)
[3] "C' era nel gaio mese di maggio..."
Altra ballata dalle origini incerte. La versione nella storia è quella eseguita da Joan Baez.
[4] Ryokan: albergo in stile tradizionale giapponese.




Angolo dell' Autrice (di ritorno dalle vacanze con un minimo d' ispirazione, yay)
E quindi rieccomi qui dopo un mesetto buono.
Nemmeno stavolta so bene cosa dirvi, se non che ho iniziato a scrivere questo capitolo durante gli ultimi giorni della mia vacanza a Caprioli (in provincia di Salerno). Calliope qualche volta mi vuole molto molto ma molto male :V 
Per quanto riguarda la prima parte, quella forse più "lavorata" e scritta meglio, si focalizza molto su Thomas/IV. Come ho scritto anche in una delle anteprime su Effebbì, non sono una sua fan sfegatata (son fedele a III, io), ma mi piaceva molto l' idea di scavare nella sua psiche e nel suo passato. In fondo, a parte quei "pochi" screen nei flashback di Tron, Chris e Michael, non ne sappiamo granché. Inoltre ho spesso supposto che la sua spavalderia e l' irriverenza fossero tutte una maschera (quanto mi piacciono le persone complessate jfgnlodfj *^*) e, guarda caso, questa teoria è stata confermata: in pratica è quello che ci sta peggio di tutti. Ce l' ha coi fratelli perché fanno i leccapiedi, è vero, ma soprattutto se la prende con sé stesso.
Sono una famiglia di piccoli complessati *^* Ma io li amo così <3
La seconda parte è invece un po' più "sforbiciata" in fretta e molte cose sono effettivamente strane (specie i due ragazzi e le tre ragazze nella stessa stanza... speriamo non succeda nulla), ma se ti catapulti in una dimensione parallela senza prima informarti bene su di essa devi pur correre qualche rischio. cx
Ho tratto da qualche vecchia FF alcune idee, come quella del plotoncino dei gatti (by the way, il nome Suren vuol dire "maestosità" in mongolo, mentre Naran e Bayar significano rispettivamente "sole" e "gioia" nella stessa lingua. Molti nomi mongoli presentano antiche radici tibetane e penso che sia bellissimo), prima "appartenente" a Yumiko (quella originale); mentre lo "Starry Garden" era inizialmente una sala da té in cui III e VI andavano per riflettere dopo il ritorno di quest' ultima nella sua dimensione (una pseudo-riunione di famiglia).
Per i fiori (inserzione pubblicitaria) mi sono basata su una nuova FF, che pubblicherò a breve (spero...).
E poi Muhammad e Stephan, i nostri fabiolosi Pueri Magi: secondo voi perché usano la Soul Gem solo per guarire ed in battaglia si auto-sottopongono a torture atroci? Saranno masochisti? Chissà x)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
A presto rivederci (speriamo... DI NUOVO), anche con "Like a rose"! (troppo pigra per scrivere tutto il titolo...)
-Ono

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-Gi-Oh! ZEXAL / Vai alla pagina dell'autore: Osage_No_Onna