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Autore: Dido88    07/02/2009    3 recensioni
Da un mio incubo, l'avventura di 4 sicari ed un obiettivo da abbattere... l'inizio e la fine delle loro paure in un susseguirsi di 3 capitoli aggiaccianti...
Genere: Thriller, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ragazzi ho sognato un incubo così assurdo che non starò di certo qui a raccontarvelo, ma vi dico che mi ha così sconvolto che appena ho potuto ci ho scritto un racconto

Ragazzi ho sognato un incubo così assurdo che non starò di certo qui a raccontarvelo, ma vi dico che mi ha così sconvolto che appena ho potuto ci ho scritto un racconto. Ne sono uscite 10 paginette, quindi ho deciso di dividerle in 3 capitoli da postare ogni settimana.

Ogni capitolo avrà una specie di finale o di evento separatore da quello successivo, non finiscono all’improvviso lasciandovi l’amaro in bocca.

Citazione obbligatoria da dire è il mitico Dolphin Hotel del film 1408. L’hotel ha solo lo stesso nome per il resto, la storia è differente. Più avanti accennerò anche dell’incubo se vi andrà!

Auguro una buona lettura a tutti e in tanti! Spero possa piacervi!

Un saluto Dido88

 

P.S. Il titolo del racconto è casuale, non ha nulla a che vedere col film L’avvocato del Diavolo!

 

Non avevo mai lavorato con mio padre, questo fu l’unico presagio di quella giornata infernale.

 

Attraverso l’enorme balconata della nostra camera al Dolphin Hotel, nella 33esima strada, New York, vedevo la neve conquistare ogni singolo angolo della città.

Come cocaina pura in un’ampolla con una piccola città dentro (Da agitare per il divertimento dei più piccoli), la neve scendeva non curante della vita quotidiana dei Newyorkesi da ormai una settimana, complicandone l’esistenza. Per noi era come se non ci fosse, eravamo ben attrezzati.

Ogni volta che andavamo in missione : uno spolverino nero (Con una spilla di un’aquila d’oro vicino al cuore), una bombetta abbinata, ma con una sottile linea fucsia che lo demarcava, guanti di pelle di coccodrillo, e anfibi alla moda, facevano parte del nostro corredo. Una combinazione stucchevole di alta moda e necessità scelte da Don.

 

La camera che avevamo occupato era nata per essere venerata. Non c’era altro modo per descriverla: tendine e persiane appollaiate sopra il finestrone centrale che dava alla balconata, tavolini in legno pregiato, mobile di quercia antica, scrivania ottocentesca con tanto di sedia reclinabile con cuscinetti di velluto e, tanto per cadere nel lusso banale, letto imperiale con merletti dorati che formavano una trama che non riuscirei a spiegare, con cuscini in piuma d’oca.

Il gabinetto era addirittura placcato d’oro. Non dico altro!

Per noi però l’importante era la sua ubicazione, non tutte le sciccherie e le chicche che offriva. Se non si fosse trovata di fianco alla nostra vittima, non avremmo saputo mai nemmeno dell’esistenza di una camera tanto dedita al lusso banale.

 

Chiusi il finestrone, oscurandolo con le tendine in velluto rosso, e mi appoggiai sul letto di fianco a Luna e Woolf. Entrambi erano di poche parole, ma erano uno più pazzo dell’altro.

Luna girava sempre, sotto lo spolverino che aveva appoggiato sul letto, con indosso un completino aderente in latex senza maniche, tanto che ogni sua curva sembrava volesse esplodere per farsi notare dalla gente. Aveva un corpo da modella. Un sorriso seducente, contornato da delle labbra carnose, e due occhi che cambiavano colore passando da un grigio nebbia ad un verde smeraldo a seconda delle condizioni climatiche. In entrambi i casi,  erano taglienti come diamanti. Per ornare al meglio la perfezione del suo viso, Dio le aveva donato una cascata di boccoli dal sapore mielato. Sembrava una dea…

Per Woolf… Beh il discorso cambia. Quello era uno schizzato con i controfiocchi.

Non si toglieva mai i vestiti da lavoro, ci teneva troppo alla sua professionalità. Sul suo viso era disegnato sempre un sorriso psicopatico da iena e teneva fra i denti sempre uno stuzzicadenti che veniva cambiato rigorosamente ogni ora. Si inumidiscono e si spezzano, mi aveva spiegato una volta. Se ripenso a quando ho visto dove li tiene… I conati di vomito tornano a colpirmi. Nella tasca superiore dello spolverino, vicino alla spilla d’oro, teneva sempre un pacchetto di sigarette Marlboro. Il dito mozzato della moglie vi risiedeva dentro, adornato da tanti stuzzicadenti che lo trapassavano da un lato all’altro.

Quando gli chiesi il perché di quel porta stuzzicadenti così malsano sfoggiò un sorriso affilato e disse che era per ricordarsi che tutti i matrimoni vanno a puttane.

 

Quando il cicalino del PC iniziò a suonare, Don Ciro strabuzzò gli occhi. Non riuscii a capire se mio padre stava gioendo o era preoccupato, ma non mi importava più di tanto; dovevamo svolgere solo in nostro lavoro, nulla di più.

Le telecamere hanno individuato l’obiettivo. Sta salendo ora per le scale, disse mentre si sistemava l’enorme croce d’argento che portava legata sulla schiena.

Sciolse il laccio in pelle rinforzata che la sorreggeva, facendo schiantare la parte più lunga sul parquet: la croce si aprì come se fosse un’arma di Star Wars o uno di quei film fantascientifici. La canna cozzava per terra, rialzando l’arma, mentre le estremità scintillavano di tanti piccoli occhietti assassini: ne avevo contati 30. Per eliminare un solo uomo mio padre aveva portato con se un mitragliatore da guerra con 30 caricatori annessi.

La croce argentea, una volta aperta, sprigionò un odore acrilico, un misto tra acqua di mare, aglio e chissà quali altre spezie piccanti… avrei giurato anche una punta d’incenso.

«Ve lo ricordate il piano?» ci ammonì Ciro

«Sì Don» Ripetemmo all’unisono.

«Bene, perché io non ci sarò!» Sorrise e spense il computer prima di abbandonare la stanza con falcate veloci.

Luna e Woolf scattarono nel vano tentativo di raggiungerlo e bloccarlo, io non mi spostai di un millimetro. Ero abituato ai suo forfait, non ci aveva mai appoggiato, nemmeno quando dovemmo far saltare in aria una scorta della polizia: ci aveva promesso una copertura dal tetto, ma alla fine la nostra copertura furono delle granate a frammentazione. Come padre e uomo era una delusione.

 

Spostai l’armadio di quercia rivelando una piccola nicchia rialzata nel muro. Appena l’obiettivo fosse entrato nella stanza io avrei sfondato la sottile parete che mi divideva da lui e lo avrei terminato, mentre i miei due soci sarebbero entrati dal suo balcone dandomi supporto in caso di necessità.

Li guardai e con un cenno del capo gli feci capire che era ora di agire, la supervisione di quel bastardo era inutile. Voltai loro le spalle mentre richiudevano la nicchia e sistemavano il mobile nella sua postazione originale. Sentii i loro passi allontanarsi verso il finestrone. Poi nulla più.

 

Ero nel grembo materno delle mura tra la nostra camera e quella della vittima, pochi minuti e si sarebbe trovato con una decina di colpi in fronte. Con me le mie fidate Deagle, riposte nelle fondine in pelle vicino le spalle, non temevo niente. Neanche il giudizio universale.

 

Iniziai ad accostarmi alla parete della vittima sbirciando dagli invisibili fori che avevamo praticato in precedenza: quello che vidi era una camera vuota, adornata solo da un tappeto persiano macchiato di sangue ed un notebook con un modem vicino. Una parte di me si pentì subito di non aver sbirciato prima in quella camera. Un senso di costrizione e prigionia iniziò a pervadermi.

La testa che avevo reclinato verso l’alto per spiare la camera era bloccata fra i due muri, l’intero busto ormai era schiacciato dentro quella nicchia ed il mobile appoggiato contro non permetteva nessuno strattone o movimento brusco che permettesse di liberarmi.

Sentivo le braccia appiccicate ai fianchi, incapaci di muoversi, mentre le gambe ormai erano rimaste paralizzate nel muro invisibile che era di fronte a me.

Tentai di muovere le spalle per liberarmi, ma venni ricoperto dalla polvere e da qualche insetto morto che era rimasto dentro a quelle mura per chi sa quanto tempo.

Tentai di guardare di lato, nella speranza di cercare un piccolo spazio libero dove buttarmi con tutte le forze, ma niente. Oscurità e nient’altro. Le uniche cose che riuscivo a distinguere erano le argentee ragnatele tessute in quell’angusta oscurità.

Una fitta alla gola mi colpì.

Con la testa inclinata rischiavo quella che molti chiamano “morte bianca” e non avevo modo di muoverla. Ero incastrato e la lingua lentamente stava scivolando verso l’interno del mio corpo. Sarei morto soffocato dalla mia stessa lingua. Concentrai tutte le forze che avevo su di essa tenendola tesa verso l’alto.

Non mi sarei mai concesso una morte così banale.

Iniziai a spingere le mani contro la parete avanti a me, sperando di spostare il peso del mio corpo all’indietro, ma niente. Stavo solo sprecando energie.

 

Erano passati 15 minuti e 35 secondi da quando ero rimasto incastrato (Il mio orologio biologico col tempo era diventato infallibile) e le forze stavano iniziando ad abbandonarmi. Il foro che puntava verso l’altra stanza era troppo sottile e tutto l’ossigeno che vi era in quella nicchia assassina si stava consumando. Fra poco la mia lingua sarebbe finita in fondo alla gola.

Era come un tinello che voleva scendere in fondo al pozzo per prendere un po’ d’acqua… l’acqua che la mia lingua bramava era la mia linfa vitale.

Quando la sentii scivolare feci un ultimo tentativo disperato. La tirai verso l’alto e appena sentii che le forze iniziavano ad abbandonarmi, la schiacciai con violenza tra i denti.

Ne squarciai un pezzo, facendo fluire il sangue fuori dalla mia bocca, ma almeno adesso era bloccata. Ero salvo. Il dolore in quel momento però fu tentatore: stavo per gridare lasciandola piombare negli abissi del pozzo, ma non cedetti.

Intanto nella stanza non era entrato ancora nessuno.

 

Quando i miei soci spostarono l’armadio, il peso del mio corpo venne sparato all’indietro rompendo la nicchia e sporcando il parquet col mio sangue. Ero libero da quell’incubo, incosciente che stavo per entrare in un altro.

 

«Siamo bloccati…» Sospirò Woolf stringendo le dita delle mani in due pugni serrati.

Finii di fasciarmi la lingua con la garza che mi aveva dato Luna e tentai di aprire prima il finestrone e poi la porta. Niente da fare, entrambe erano bloccate.

«Beh tutto qui il problema? Abbiamo delle armi, che ci vuole a sfondare una porta o una finestra?»

Luna mi ammonì con lo sguardo.

«Così il nostro obiettivo può sentire gli spari e darsela a gambe come una checca isterica.»

Deglutii, ma non mi arresi.

«Beh potevate rompere il vetro del finestrone e saltare verso il balcone della vittima senza troppi intoppi no!?»

Un ticchettare frenetico di denti iniziò ad echeggiare nella stanza. Era Woolf.

«Tutto bene amico?» Chiesi preoccupato.

«Sì, tutto bene… tutto bene…» Rispose buttando la bombetta sul letto, di fianco a lui, passando le mani tra i suoi folti capelli neri.

Luna si scostò dalla porta colpendomi con un pugno aperto.

«In tutto questo tu non ci hai ancora ringraziato! E poi prova tu a rompere il vetro.»

La guardai con un tono di sfida.

«È antiproiettile genio!» Disse compiaciuta.

La risata animalesca di Woolf interruppe il nostro battibecco.

«La finestra è anti-proiettile, ma la porta no!» Biascicò mentre caricava il suo fucile a canne mozze.

Tentai di fermarlo, ma una serie di colpi venne sparata all’impazzata tra le sue grida di euforia e paura. I proiettili si fermarono a mezz’aria, senza sfiorare la porta.

 

Giurerei che in quell’attimo gli occhi del mio socio siano usciti fuori dalle orbite, ma forse me lo ero solo immaginato... Accadde tutto così in fretta…

 

Appena i proiettili toccarono il suolo, esplodendo sul pavimento, Woolf si buttò contro la porta, schiacciandole contro il naso della canna del fucile. Provai a gridargli di non sparare, ma era già morto.

 

Gocce scintillanti di sangue colavano dal pomello dorato della porta per morire in una pozza, ormai rappresa, del sangue di Woolf. Spostammo il cadavere coprendogli con il suntuoso lenzuolo del letto imperiale il volto deturpato. L’esplosione del fucile gli aveva frammentato le mani in mille pezzi e fatto schizzare nella gola il dito pieno di stuzzicadenti dell’ex moglie.

Luna si era accasciata sulla sponda del letto, coprendosi gli occhi con le mani. In un primo momento pensavo non volesse mostrarsi debole di fronte a me piangendo, ma capii che era il contrario. Si era coperta per non farmi vedere l’assenza delle lacrime. Il nostro socio era morto, ma per lei l’accaduto non contava niente. Al massimo si dispiaceva per li lerciume lasciato dal sangue della vittima e da qualche frammento di pelle e ossa abbrustolite.

Non piansi nemmeno io, non perché non provassi niente, ma perché non ne ebbi tempo.

Appena poggiai la schiena contro il busto della sedia della scrivania, un messaggio di posta elettronica fece vibrare il cicalino del PC riavviandolo.

Eravamo bloccati in quella maledetta stanza con un compagno morto, ma nessuno, tranne mio padre, sapeva della nostra presenza né tantomeno l’indirizzo IP o di E-mail del PC.

Il mittente del messaggio era il nostro obiettivo.

 

  
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