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Autore: Hyxel    14/09/2015    0 recensioni
"Ma non volevo niente di nuovo, odiavo i gioielli che mia madre mi comprava, i vestiti di marca che mia zia mi portava da ogni meta turistica che visitava. Volevo semplicemente qualcosa che non mi avrebbero mai dato: la libertà."
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il bosco è il fulcro di numerose leggende pagane, l'ho imparato dai libri di storia o dai romanzi ambientati in tempi diversi dai nostri.

Secondo le persone più scettiche e attaccate alle tradizioni, esiste nella Francia Occidentale, la Foresta Del Sangue. In vita c'è una strana bestia, che i pagani chiamano Oscurità. Chiunque passi da quella foresta viene catturato e appeso all'ingiù su un albero, fin quando il suo sangue non verrà prosciugato. Ma quando l'Oscurità morde la tua pelle e infetta il tuo sangue, non potrai avere più tregua.

Bene, nell'Inghilterra del Nord nulla di tutto questo si verificò mai e io mi sentivo quasi sicura che mai sarebbe successo.

Fu anche per questo che i miei genitori, molto severi e alquanto paurosi, decisero di lasciarmi correre dandomi una specie di libertà. La libertà che bramavo da tempo e dalla quale non mi sarei mai allontanata.

Ma loro non capivano che esistevano anche delle leggende diverse, come quelle che parlano di spiriti benigni che abitano nel luogo, come folletti e fate. Seppur glielo ripetessi ogni qual volta loro mettessero in mezzo quell'argomento, sembrava quasi inutile: i miei genitori non si sarebbero mai smossi dalla loro decisione e così accadde.

Nei boschi accade di tutto ma non avrei mai immaginato di trovare qualcuno che sarebbe riuscito a farmi evadere da quella gabbia dalla quale nessuno era stato in grado di fare.

........

La mia vita è sempre stata programmata, strato per strato, per essere la figlia perfetta. Sono stata intrappolata nella mia gabbia per lunghi diciassette anni e pregata di fare quello che gli altri mi chiedevano.

E quando qualcosa ti imprigiona, fino a far uscire il sangue dalle tue ginocchia, fino a farti piangere gli occhi, difficilmente ne esci.

Molti dicono che è la vita a essere la vera gabbia, io dico che è la società e.. mia madre. Essere la figlia di uno dei più importanti imprenditori della cittadina di Sakerfield, Nord Inghilterra, sessanta minuti dalla città universitaria di Liverpool e trentacinque da Leeds, è stata la mia cosa più difficile che il Cielo potesse mandarmi.

Ho sempre adorato l'odore di pini che si diffondeva nell'aria, le vaste distese di alberi ed erba e il lago. Il lago di Sakerfield era la cosa che adoravo di più. Riesco ancora a sentire l'odore delle ninfee sulla sua superficie e quella casa mal ridotta poco lontana dalla riva.

Mariah, la mia nutrice, poggiò il piatto con i pancakes sul piumone del mio letto. Si avvicinò alle tende e le aprì, con una tale delicatezza che io non sarei mai riuscita a riprodurre. "Dormito bene, signorina Priot?" Chiese, rispettando il copione che mia madre le scrisse il primo giorno di lavoro: comportarsi sempre educatamente, seguire i suoi comandi e vigere attentamente sulla mia educazione. Nessuno nella famiglia avrebbe voluto vedermi scappare per andare a correre e farne una tragedia, come sempre.

"Mariah, con me puoi parlare normalmente. Voglio che mi chiami per nome." Le dissi con decisione, avvicinando il piatto a me.

"Ma signorina!" Protestò, pulendo con il suo strofinaccio il piano del tavolo di vetro, posto accanto all'enorme balcone. Sapevo che in fondo lei voleva accettare la mia richiesta, ma nessuno voleva avere contro Johanna Priot.

La luce entrava nella camera, rendendola più luminosa. Mia madre si vantava sempre con le sue amiche da tè della bellezza della nostra casa e della sua posizione strategica. Adoravo la vista sul bosco, gli uccelli che si poggiavano sui rami e mi risvegliavano, canticchiando. Però, odiavo la luminosità di quel luogo, ho sempre preferito la notte alla luce, il mistero alla monotonia e - seppur fossi una delle ragazze più brave nella corsa, nonostante avessi voti alti in tutte le materie del mio corso - non riuscivo ad essere abbastanza soddisfatta della mia vita per amarla completamente.

Ma non volevo niente di nuovo, odiavo i gioielli che mia madre mi comprava, i vestiti di marca che mia zia mi portava da ogni meta turistica che visitava. Volevo semplicemente qualcosa che non mi avrebbero mai dato: la libertà.

Sin da piccola la mia gabbia si andava stringendo pian piano fin quando, all'età di quindici anni, decisi di scappare per la prima volta, scatenando l'ira dei miei familiari. I miei genitori decisero di ritirarmi dalla scuola pubblica e assumere qualcuno per la mia educazione e così fu fatto anche per i miei fratelli più piccoli, Alice e Connell. Non accettai mai il modo in cui i miei genitori rilegarono al mio stesso destino i gemellini. Ma loro non potevano sapere che con i nuovi arrivati sarebbe stato diverso, che era solo la loro terza figlia a essere difettosa.

Per i più grandi, Nadine e Sean, fu completamente diverso. Entrambi ebbero un'educazione differente. Forse perché mio fratello, un trentenne scrittore e insegnante, aveva trovato la via di fuga dalla nostra famiglia nella scrittura; forse perché mia sorella, appena venticinquenne, preferiva rimanere in camera e disegnare e cucire gli abiti che avrebbero fatto, in futuro, parte della sua collezione speciale. Peccato che sia finita per operare al cervello chiunque ne abbia bisogno.

Avevo un rapporto bellissimo con tutti i miei fratelli, i più grandi mi aiutarono sempre nei momenti di difficoltà e i più piccoli mi davano - in qualche modo - la forza per sopravvivere in quella gabbia di matti.

Era strano essere considerata il guaio della famiglia, essere colei che poteva portare in rovina generazioni e generazione, che poteva portarli sul lastrico.

Ed era ancora più strano il modo in cui mi amavano ma allo stesso tempo mi allontanavano.

Ma c'ero abituata, almeno, in parte.

"Mariah, ti scongiuro, chiamami Jackie." le dissi, muovendo la testa. Inforcai un pezzo di pancake e lo mangiai, masticando con calma.

Lei si morse timorosa il labbro ma continuò a spazzare il pavimento della stanza, non proferendo parola. Era questo che odiavo, il modo in cui i miei genitori potevano intimorire la gente a tal punto da allontanarla da me con un gesto secco. Mariah era la persona più vicina a me dopo i miei fratelli ma sembrava che molte volte si allontanasse anche lei da me.

Ancora più strano era il modo in cui Mariah era indecisa, lo era a tal punto da usare la seconda persona plurale e la seconda singolare nella stessa frase, facendomi ridere.

Sentii un leggero rumore sullo stipipe della porta e quando girai la testa per vedere di chi si trattava, non mi meravigliai quando scorsi la capigliatura riccia e scura della mia sorellina minora, Alice Tamara Priot.

Le feci segno di entrare. Si avvicinò al bordo del mio letto, portando una ciocca dei suoi capelli dietro l'orecchio e facendomi notare le lentiggini sul suo naso e sulle sue guance, così pronunciate e così numerose da dare alla testa. Ma mia sorella era bella, era davvero bella e con gli anni lo sarebbe stata di più.

Ma noi Priot non eravamo diversi solo nel comportamento ma anche nel fisico. I miei fratelli più grandi avevano ereditato tutto dalla famiglia di mio padre, gli occhi chiarissimi e i capelli castani con delle ciocche bionde; Alice aveva le lentiggini, i capelli quasi biondi e delle labbra piuttosto carnose - in questo era identica a mia nonna Jenna, bionda assoluta. Connell era forse il fratello che più mi assomigliava: labbra carnose, occhi fra il verde e il marrone e le lentiggini sul naso e sulle guance. Molte volte la gente non li considerava neanche gemelli ma avevano un rapporto così viscerale da non riuscire a fare a meno dell'altra per più di mezz'ora.

Mi sono sempre chiesta come fosse stata la mia vita se anche io avessi avuto un gemello, mi sarei sentita meno sola e più compresa o sarebbe stato sempre lo stesso? Questa, ad esempio, è una domanda alla quale non sarò mai disposta a dare una risposta.

"Cosa sei venuta a fare qui, Alice?" le chiesi, avvolgendo un braccio attorno alla sua spalla. Lei alzò le spalle, allungandosi verso il piatto e prendendo un pancake. "Ehi! È la mia colazione!" Le picchiettai la mano e lei si mise a ridere, sbattendo quasi la testa sulla testata del letto.

Persino i miei fratelli minori erano bravi in qualcosa: entrambi dei geni nel suonare il violoncello, facevano concorsi in tutto il mondo.

Sembrava davvero che l'unica nota stonata fossi io.

"Io non ho il privilegio della colazione a letto." Commentò, facendomi la linguaccia.

Mariah si girò verso di noi allarmata. "Signorina Priot, stavate dormendo.. Ve l'avrei portata appena mi avreste chiamato.." Il viso sbiancato, le mani tremanti che sorreggevano il manico della scopa.

Mia sorella sorrise e la fermò con la mano libera. "Mariah, non fa niente. Era per scherzare e poi la mamma odierebbe vedere le briciole sul tappeto, su quel tappeto."

"Ha una fissazione per quella stoffa, le passerà appena Zia Lucille tornerà dall'Italia con un nuovo capo d'arredamento per lei." Le spiegai, ingoiando il boccone.

Lei mi guardò e non trattenne una risata. "Non penso proprio, mi sento solo frustrata a non poter entrare in camera con le scarpe o con semplicemente le ciabatte perché potrei rovinare quel maledetto tappeto..."

Mariah la interruppe. "Signorina Priot!"

Lei sorrise. "Mariah, è solo la verità!" Si girò di nuovo verso di me. "Perché quel tappeto deve essere nella mia camera, non potrebbe essere nella tua o in quella inabitata di Nadine?"

Ridacchiai, ingozzandomi con i pancake. "Nostra madre vuole controllare il suo status. Se fosse nella camera di Nadine dovrebbe aprire appositamente quella camera e già le costa un sacco farlo quando lei torna, è una delle camere più grandi qui dentro."

Lei seguiva il mio discorso, agitando il capo in segno di approvazione ma alcune volte, anche disapprovazione. "Dopo la tua." commentò sorridendo.

"Dopo la mia. - sospirai - Ma sai che odio avere un così grande peso. Ho troppo spazio vuoto e non posso appendere nessuno dei miei poster perché mamma darebbe di matto."

"Mamma adora Brandon Urie, sarebbe capace di farne una gigantografia e appiccicarla alla porta del bagno!" Esclamò, poggiando i piedi sul letto. Le feci spazio nel piumone e lei entrò, portandolo alla bocca.

"Seppur lo ami, va contro le regole di Zia Lucille." Le spiegai, poggiando il coltello e la forchetta sul bordo del piatto decorato.

"È come se questa casa fosse di zia Lucille!" Sbuffò lei, alzandosi dal letto. Si avvicinò alla porta ma, prima di uscire, si girò verso di me. "Mi sono dimenticata di dirti che tornerà. Mamma mi ha avvisato, zia Lucille tornerà stasera dall'Italia!"

Lasciai la forchetta a mezz'aria, quella notizia mi aveva leggermente spiazzata. "Non dirai sul serio!"

Lei annuì convinta, continuando a mangiare la mia colazione, ormai inesistente sul piatto. Io e i miei fratelli eravamo completamente diversi e si vedeva anche in quel momento, nella mia camera alle otto passate della mattina. Mia sorella era vestita in modo ben curato: cardigan rosa confetto, una canottiera sottile cipria e seppur abbia a stento quattordici anni, del mascara sulle ciglia. Le labbra fine e piene di lentiggini ai lati con un rossetto molto chiaro, color carne. I capelli biondo scuro legati in una coda alta, i ciuffi fissati da un fermaglio. Invece, se io avessi mai avuto il coraggio di alzarmi sul piumone e guardare il mio riflesso sullo specchio, non avrei visto altro se non una ragazza con gli occhi appannati, i capelli sparati all'aria e un pigiamone con sopra le facce di Minnie che non aveva niente a che fare con le vestaglie di seta pura delle mie sorelle.

"E perché?" le chiesi, sapendo già la risposta in parte. Mia zia aveva l'abitudine di raccontarci le sue avventure nelle zone che visitava. Ma non solo, ci raccontava anche del suo giocattolino vent'anni più grande di lei e del colpo di fulmine che li aveva invasi.

Mia sorella sorrise, pulendosi le labbra con il fazzoletto di carta che prima si trovava sul vassoio. "Sai che papà vuole aprire una nuova fabbrica a Leeds. Zia Lucille è la sorella maggiore e ha bisogno del suo consenso prima di avviare le pratiche!"

Il fatto che mio padre e mia zia andassero a braccetto non era una novità. Se io e i miei fratelli eravamo rinchiusi in una gabbia, privati della nostra libertà, la colpa era sua. I fratelli Priot erano tre: Lucille, la primogenita, occhi color ghiaccio e capelli che durante i suoi anni d'oro brillavano di un biondo chiaro, sui toni del miele; John, mio padre, il secondo genito e Jeffrey, il fratello più piccolo dal quale sembro aver ereditato le guance paffute e il naso delineato. Fra i miei preferiti c'era zio Jeffrey, l'unico della sua stirpe a non avere nessun interesse con le industrie di famiglia che, secondo mio padre, un giorno sarebbero diventate completamente mie.

Forse lo diceva perché ero l'unica fra i fratelli a non avere un'idea chiara su quello da fare in futuro o solo perché non credeva abbastanza in me da lasciarmi programmare altro. Sapevo solo che mia cugina Candace e sua sorella Coraline (le figlie di zio Jeffrey) e Ronald (l'unico figlio di zia Lucille) non avrebbero mai accettato l'incarico. Erano tutti troppo distanti dai rapporti familiari tanto che non ne ricordavo neanche la faccia, neanche la voce. Avrei desiderato vederli, c'entrava sempre la solitudine. Forse sarei stata meno sola e, con molta fortuna, sarei riuscita a evadere da quel casino che mi ero creata attorno. Se solo non fossi così impulsiva a quel punto starei frequentando il liceo più prestigioso della contea, avrei avuto delle amiche e forse, sarei riuscita ad avere una vita sociale più normale. Insomma, avrei parlato con qualcun altro che non fossero i miei fratelli e il cane che mio padre teneva nella casa di campagna che, con molta perspicacia, avevamo chiamato Pou, come il gioco per lo smartphone per il quale Connell passava intere giornate.

Mia sorella strinse la coda e si girò verso di me, sorridente. "Non hai gli allenamenti fra mezz'ora?" Chiese, ridacchiando.

Mariah si girò verso di noi, prese il piatto - ormai vuoto - e si catapultò fuori dalla stanza. Lasciando me e Alice a ridere di gusto. "Ho cinque minuti per fare la doccia e prepararmi. Tu vuoi rimanere qui?"

Lei annuì energicamente, coricandosi sul mio letto a una piazza e mezza e accendendo il televisore.

Quando entrai nel box doccia già sentivo nelle mie orecchie le urla della mia allenatrice tedesca, Inga. Lei voleva da me rispetto, ordine e passione per quello sport. Insomma era stata scelta accuratamente dai miei genitori per non farmi dimenticare l'essenza di casa, durante gli allenamenti.

Passai il bagno schiuma sul corpo, rilasciando tutta la schiuma, e decisi di non pensarci, non in quel momento. Massaggiai le meningi con lo shampoo e lo risciacquai subito dopo. Uscii dalla doccia, indossando il mio accappatoio blu notte, i capelli avvolti in un turbante alto.

Mia sorella si era dissolta nel nulla ma aveva lasciato l'odore della sua acqua profumata al gelsomino nella mia camera dipinta di blu.

Avevo il diritto di vivere o ero desinata a seguire le regole dei miei genitori?
 

Ciao a tutti! 
 
E' la prima volta che pubblico su efp quindi sono leggermente emozionata di farvi leggere quello che la mia mente crea e che scrivo con così tanta passione. 

Scrivo perchè è il mio ossigeno, perchè amo passare ore a fantasticare in luoghi che non potrò mai visitare. Come a esempio Sakerfield, la città in cui è ambientata la storia e che è frutto della mia immaginazione. (Ho inserito la posizione geografica per rendere ben precisa la collocazione). 

Ho fatto una breve introduzione di me stessa ma se volete sapere di più su di me e su quello che scrivo potete contattarmi!

Vi chiedo di recensire la storia, una volta letta, nel modo più veritiero possibile. Ho bisogno di consigli, approvazioni, pareri e anche critiche perchè senza di esse non si cresce, sappiatelo. 

Alla prossima,

Hyxel. 

 

 

   
 
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