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Autore: Manu_Green8    17/09/2015    2 recensioni
Il college era la nuova esperienza di lei, da vivere e da gustare. Il pugilato professionistico quella di lui. Un anno era passato in fretta e i due ragazzi si sentivano più uniti che mai. Ma cosa accadrà quando si insinuerà la lontananza? O quando incontreranno persone nuove e ne riemergeranno dal passato?
L'avventura di Melanie e Chad continua, anche se non tutto sarà facile. Ce la faranno anche sta volta? Questo è tutto da scoprire...
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Salve, cari lettori! Vi ricordate di me? Forse sì, o forse no. Sono già passati diversi mesi dall'ultima volta che ho scritto una storia e finalmente sono ricomparsa proprio con il sequel di "Un battito d'ali... un battito del cuore". Con questo non vi obbligo di certo a leggere la storia precedente, ma vi invito comunque a farlo, considerando i riferimenti all'interno di tutta la fanfiction.
Non mi dilungo oltre! Fatemi sapere cosa ne pensate! Buona lettura :D
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[STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA: MI SCUSO PER IL DISAGIO]
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un battito d'ali.. un battito del cuore'
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Pov Chad

“Portami con te”.
“No”.
“Ma perché no?” mi chiese Evan per l’ennesima volta. Era disteso sul mio letto, mentre io ficcavo tutta la roba nel borsone.
“Sei scemo, per caso? Devo ripetertelo di nuovo?” sbuffai, mentre cercavo i soliti pantaloncini d’inizio campionato. Non erano al loro posto nel loro cassetto ed Evan mi stava soltanto facendo innervosire di più.
“No, ma tu potresti convincerla” si lamentò lui.
Io non risposi e lui mi lanciò un cuscino addosso, che ignorai palesemente. “Chad!”.
Aprii l’armadio e ci infilai la testa dentro. Mi tirò un altro cuscino e iniziai a chiedermi da dove saltassero fuori. Non ricordavo di averne tanti in camera mia. La vecchiaia stava facendo la sua comparsa in me.
Eccoli. Chi diavolo li aveva messi lì? In mezzo ai jeans ci stavano i miei adorati pantaloncini, ma quello non era il loro posto abituale.
“Li hai trovati?” mi chiese mio fratello.
“Sì” risposi, mentre li riponevo nella sacca.
“La convinci?”.
Io roteai gli occhi e mi voltai. Evan era disteso a pancia in su, con la testa gettata indietro fuori dal letto, in modo da vedere tutto sottosopra.
“Evan, è impossibile convincerla. Se glielo chiedo la zia mi uccide una volta per tutte” risposi esasperato.
“Ma come fai a saperlo se non glielo chiedi?”.
“Lo so e basta. Tu non devi seguire il mio esempio” dissi, citando mia zia.
Evan sollevò la testa e sorrise in modo astuto. “Ah, no?” mi chiese con voce impertinente. Da quando gli erano apparse quelle caratteristiche?
“Evan O’Connor. Non fare niente di stupido in mia presenza e a maggior ragione in mia assenza” e gli puntai il dito contro.
Lui sbuffò e si alzò dal mio letto, andando verso la porta. “Almeno lo puoi registrare?”.
Mmh, cose illecite. Non sarebbe venuto, ma avrebbe visto ugualmente  e mia zia non si sarebbe lamentata, dato che non lo avrebbe saputo.
Il mio sopracciglio sinistro si sollevò e guardai Evan sulla soglia della mia camera. “Vedrò cosa posso fare”.
“E cerca di vincere. Vorrei guardare roba buona” e con questo uscì dalla stanza.
Io spalancai la bocca, stupito. Che diavolo avevano fatto a mio fratello? Quale alieno lo aveva rapito e sostituito?
Ripensai a ciò che mi aveva appena detto e non potei fare a meno di scoppiare a ridere.
 
Pov Ryan

Entrare in palestra era un azione abituale, troppo abituale. Ma quella volta appena messo piede dentro quell’ambiente così familiare, l’adrenalina iniziò a scorrermi nelle vene e i muscoli a fremere, vogliosi di combattere.
Chad, accanto a me, stava provando le stesse emozioni. Era palpabile e poi, continuava a chiudere le mani a pugno e a riaprirle, come se non potesse più aspettare.
Dentro la palestra quasi tutti i pugili avevano un sorriso sulle labbra, proprio come noi. A parte qualche ragazzetto ancora inesperto cui il nervosismo non permetteva di farlo ed erano tesi come dei bastoni.
C’era un via vai continuo e io diedi un colpo sulla spalla a Chad. “Andiamo, non vorrei fare tardi. Sai, poi Carl diventa irascibile e…”
“Sì, sì, lo so” mi rispose Chad, mentre ci dirigevamo nell’ufficio del nostro allenatore.
“Oh, siete qui. Guardate cosa abbiamo per voi” disse Carl raggiante, dopo essersi accorto di noi. Sulla sua scrivania ci stavano degli scatoloni.
“La merce nuova? Oh mio dio” dissi eccitato, avvicinandomi a quei cartoni ripieni.
“Stai indietro, Rage. Non ti avvicinare. Non infilare le mani da nessuna parte!” mi ammonì Carl, mentre io lo ignoravo e andavo a guardare cosa ci fosse dentro.
Sentii Chad ridere, mentre Carl sbuffava. Per lo meno non stavo toccando niente.
“Va bene, Ryan. Mi occuperò prima di te, dato che sei così impaziente” disse, avvicinandosi allo scatolone con la scritta Pesi Massimi.
Tirò fuori dei pantaloncini neri e rossi, una felpa rossa con il cappuccio con il mio cognome sulle spalle e il nome della nostra società sul davanti, un berretto nero e dei guantoni.
“Perché si ostinano a darci dei guantoni nuovi ogni volta? Tanto useremo sempre gli stessi” disse Chad, mentre io ero troppo esaltato ad afferrare e ammirare la mia roba.
“Perché almeno, quando quelli che usate saranno da gettare nella spazzatura ne avrete un paio di ricambio” spiegò Carl, mentre io mi ficcavo in testa il berretto e mi voltavo a guardare Chad.
Lui, che era seduto su uno dei tavoli sgomberi, mi guardò con le sopracciglia aggrottate, come se non capisse che diavolo stessi facendo.
Poi feci il segno della vittoria e una smorfia e Ryan scoppiò a ridere, alzando gli occhi al cielo.
Carl, che ci dava le spalle, si voltò verso di noi e ci guardò. Mi tolsi di colpo il berretto e mi grattai la testa.
“Siete due idioti. E io spreco soltanto il fiato a parlare con voi. Mi state ascoltando?” ci chiese.
“Emmh. Certo!” dissi, mentendo spudoratamente con un sorriso sulla faccia.
Chad stava in silenzio cercando di non ridere.
Carl sospirò esasperato e si voltò di nuovo verso gli scatoloni. “Per fortuna che sanno stare sul ring” borbottò.
“E anche egregiamente direi” aggiunsi, mentre mi appoggiavo alla parete.
Carl mi ignorò e poi infilò le mani nello scatolone con scritto: Pesi Massimi Leggeri.
Accumulò sul tavolo la stessa roba che aveva dato a me, eccetto per i colori diversi: giallo e viola.
“Oh merda. Ma che diavolo è quella roba?” chiese Chad, indignato, saltando giù dal tavolo e avvicinandosi ai vestiti.
Io scoppiai a ridere. “Eh, mia cara furia, questi sono gli svantaggi dei Pesi Massimi Leggeri” dissi.
“Sta zitto, idiota” mi disse Chad, mentre sollevava il berretto giallo e faceva una smorfia di disgusto.
“E’ carino” disse Carl, poco convinto anche lui.
“Non metteresti questo coso in testa neanche tu. Ma è fosforescente?” ribatté Chad e il nostro allenatore scrollò le spalle.
Chad lo lasciò cadere sopra il resto della roba e tornò a guardarmi. “Guarda che anche se non possiamo batterci sul ring, sta certo che potrei metterti al tappeto quando voglio. Quindi non fare lo sbruffone, Ry” mi ammonì, cercando di incutermi paura, ma io scoppiai soltanto a ridere.
“Ne dubito. E se non possiamo batterci, la colpa è solo tua. Sei troppo… leggero” lo stuzzicai. In un caso diverso sapevo perfettamente che Chad avrebbe dato la colpa a me, ma in quel momento l’orgoglio non gli avrebbe permesso di farlo, dato che quello che stava nella categoria inferiore era proprio lui. Adoravo farlo indispettire in quel modo.
“Guarda che io sono perfettamente equilibrato per la mia età e altezza. Non sono mica sottopeso”.
“Ma rimani ugualmente troppo leggero”.
Lui sbuffò. “Sarai tu ad essere grasso. Con quella tua altezza e…” lo interruppi.
“Altezza? Come se fossi due metri” ribattei.
“Quasi”.
“Sciocchezze. Non saranno neanche dieci centimetri di differenza da te. Questi, mio caro Chad, sono tutti muscoli che tu non hai” dissi, sorridendo beffardo. A Chad bruciava da morire non arrivare ai 90 kili di peso necessari per i Pesi Massimi e non poteva vincere questa battaglia con me in nessun modo.
Chad roteò gli occhi e dopo aver afferrato la roba, uscì dalla stanza. Lo raggiunsi e lo affiancai. “Ti ricordo che prima di venire qui combattevo e vincevo contro gente più grossa di te” mi disse, guardando dritto davanti a sé.
A quel punto Carl che era uscito dal suo ufficio subito dopo noi, ci sorpassò dando uno schiaffetto sulla testa di Chad.
“Ehi!” protestò lui, massaggiandosi il punto colpito.
“Hai detto bene, Chad. Prima. Adesso fai parte della mia squadra e ti atterrai alle regole, cercando di vincere nella tua categoria. A partire da stasera” disse, prima di uscire dal corridoio e sparire dalla nostra vista.
Chad gemette. “Pensi che posso almeno tingere questa roba di un altro colore?” mi chiese.
Io scoppiai a ridere. “Penso proprio di no, amico”.
 
Pov Dave

Il fatto di arrivare in palestra il primo di tutti, non comportava quello di uscire per primo da essa. Anzi, era proprio il contrario. Dopo quelle due ore di fatica, adoravo rilassarmi sotto la doccia e spesso finivo di vestirmi con le cuffie alle orecchie. Risultato: tutti i ragazzi andavano via, salutandomi amichevolmente mentre lo spogliatoio si svuotava.
Anche quella volta era andata nello stesso modo e pensai che era la volta buona che Rachel mi avrebbe ucciso. Mi aveva detto di essere a casa per un orario stabilito, dato che aveva in programma qualcosa da fare che avevo fatto fatica a comprendere, dato che quando me lo aveva detto io stavo pensando alla partita dell’NBA della sera prima. Ops. Mi avrebbe ucciso. In più stavo già per sforare l’orario che mi aveva dato. O forse no. In realtà non avevo capito bene neanche quello. Al diavolo, da quando mi capitavano cose come quelle con la mia ragazza? Iniziai a pensare che fosse dovuto alla convivenza, che non era mai facile. Insomma, ci eravamo dovuti abituare alle consuetudini dell’uno e dell’altra, come quella dell’orario in cui ci svegliavamo: completamente opposto. Ovviamente non mi stavo lamentando. Amavo vivere con lei, ma se qualche volta mi perdevo nella mia testa, data anche la sua spiccata loquacità, beh non era poi così… indegno, giusto?
Uscii dalla palestra e raggiunsi il mio appartamento, cercando di fare il più in fretta possibile.
Quando aprii la porta di casa, subito Rachel mi chiamò. “Dave! Vieni qui”.
Seguii la voce e raggiunsi la nostra camera dopo essermi tolto la giacca e le scarpe e aver lasciato tutto, compreso il borsone, all’ingresso.
Rachel era distesa sul letto a pancia sotto, con il computer poggiato davanti a sé. “Sei in ritardo” mi disse, ma non sembrava arrabbiata.
“Di 35 minuti” e poi roteò gli occhi, sorridendo verso lo schermo, anche se io non riuscivo a vedere cosa stesse facendo.
“Oh. Mi dispiace” dissi, ridacchiando. E poi sobbalzai.
“E invece non ti dispiace affatto” era la voce di Melanie, che proveniva del computer.
“Mel!” esclamai, gettandomi sul letto accanto a Rachel, in modo da riuscire a vedere lo schermo del portatile.
In esso, mia sorella mi stava sorridendo e salutando con la mano da dietro la webcam.
“Sei un disgraziato, Dave. Ti avevo detto di chiamarmi ogni giorno e invece non lo hai fatto” mi accusò, fingendosi offesa.
“Da quando in qua sei diventata la mamma?” dissi, roteando gli occhi.
Lei sbuffò. “Beh, certo. La mamma la chiami sempre, mentre di me, la tua gemella, la persona con cui hai condiviso lo spazio per nove mesi, ti sei dimenticato” disse in modo teatrale.
“Melanie. Abbiamo parlato per messaggi ieri sera”.
Lei ridacchiò prima di cambiare argomento, mentre Rachel si alzava per andare chissà dove.
Melanie mi descrisse per filo e per segno la sua vittoria e di quanto ne fosse felice, prima di dirmi: “Dave, devo andare. È tardissimo e se non chiamo Chad, quello mi uccide” mi disse, facendomi sorridere divertito.
“Meglio di no. O poi chi lo sente, se dovesse perdere il primo incontro dell’anno?”. Avevo sentito Chad proprio qualche ora prima, per fargli gli auguri per l’inizio della stagione, proprio come lui aveva fatto con me qualche settimana prima.
Melanie rise. “Già!” disse, scuotendo la testa.
Poi mi voltai verso la porta. “Rach! Melanie sta chiudendo” urlai, per poi tornare a guardare lo schermo.
Poco dopo sentii i passi frettolosi della mia ragazza che rientrava nella stanza. E poi si gettò sulla mia schiena, facendomi lamentare di dolore. Lei rise e mettendo la testa a fianco della mia, salutò mia sorella con calore.
“Ciao, Mel” dissi anche io.
“Fate i bravi voi due. Vi voglio bene” fu l’ultima dichiarazione di Melanie, prima di sparire dallo schermo.
Sospirai e con una leggera spinta feci cadere Rachel accanto a me, che mi sorrise accarezzandomi i capelli.
“Non ci siamo nemmeno salutati” disse, mettendo un piccolo broncio.
Mi abbassai per baciarglielo e potei sentire il suo broncio allargarsi in un sorriso, sotto il mio contatto.
“Mmh, però ho parlato troppo poco con Melanie” dissi, una volta che ci allontanammo.
Rachel alzò un sopracciglio. “Abbiamo parlato su Skype per mezz’ora prima che arrivassi. Dovresti ascoltarmi di più quando parlo. O almeno cogliere le cose importanti. Eri in ritardo, nonostante ti avessi dato l’orario”.
“Tu non hai nominato Melanie” ribattei, mettendole un braccio sullo stomaco.
“Ah no? Allora la parola sorella a cosa corrisponde per te?”. Sbuffò, dandomi uno schiaffetto sul braccio.
“Va bene, va bene” ridacchiai, lasciando perdere, dato che probabilmente aveva ragione lei.
“Allora” dissi poi “come faccio a capire quali sono le cose importanti che dici e quali no?”.
Vidi l'indignazione sul suo viso. “Sei un idiota!” disse, togliendo via il mio braccio e facendo per alzarsi.
Io scoppiai a ridere. “Stavo scherzando! Vieni qui” dissi, mentre la seguivo.
Lei scosse la testa. “No. Questa me la paghi, imbecille”.
Non riuscivo a smettere di ridere. Amavo stuzzicarla in quel modo e nonostante spesso mi minacciasse di togliermi i “benefici” della convivenza, sapevo che non l’avrebbe fatto. Anzi era il nostro modo migliore per terminare quei piccoli litigi stupidi o le finte arrabbiature. Quindi perché non approfittarne?
 
Pov Chad

Il palazzetto era esteticamente più bello della nostra palestra, con le tribune intorno al ring immenso, da quelle più vicine in basso, a quelle più lontane in alto. Mi era sempre piaciuto e lì dentro si respirava aria di combattimenti, agonismo e voglia di vincere. E quella sera, dato che si trattava dei primi combattimenti della stagione, era davvero incredibile: quando io e Ryan eravamo entrati ci eravamo accorti subito delle tribune già piene per metà, nonostante prima dell’inizio mancasse ancora un’ora o più.
Andammo subito negli spogliatoi, ma prima che iniziassi a cambiarmi il mio telefono squillò.
Era Melanie. Tirai un sospiro di sollievo. Avevo temuto che non mi chiamasse più.
“Ry, torno subito” dissi prima di uscire dalla stanza e lui annuì.
“Ehi” risposi, interrompendo la mia suoneria dei Kansas: Carry On My Wayward Son.
“Amore, pugile sexy preferito, mio, mio e solo mio, come stai? Sei carico?” disse Melanie velocemente senza neanche salutarmi.
Io risi. “Sto bene. E sì, sono carico abbastanza. E per la cronaca, dato che non sei qui ho dovuto utilizzare altri metodi per riuscirci”.
Fece un verso disgustato. “Hai fatto da te?” mi chiese.
“Cosa?” io risi. Perché pensava sempre male?
“No, scema. Mi manchi sì, ma non sono così disperato ancora” dissi roteando gli occhi.
Lei ridacchiò. “Oh. Beh, sai. Ci sono ragazzi che lo fanno normalmente e regolarmente. Non sapevo che la pensassi così”.
Io sollevai un sopracciglio. “E tu come fai a saperlo?” chiesi, davvero curioso di sentire la risposta.
“Dai, Chad. Era per dire”.
“Lo spero” borbottai.
“E in questo modo non ti sto caricando. Anzi, è peggio. Quindi…” continuò lei, mentre io camminavo per il corridoio silenzioso. “Come ti sei caricato, amore?”.
“Sicuramente i metodi di tuo fratello non hanno funzionato” dissi con un sorriso divertito.
“Perché la tua musica è caos. È normale che non carichi”.
“Primo: non è affatto vero e sono solo io il problema, non la mia musica. Secondo: anche quella di tuo fratello è caos” ribattei.
“Meno della tua. Allora che metodo hai usato?” mi chiese ancora.
“Nessuno. Ho semplicemente dormito”.
“Dormito? E adesso non sei scarico, piuttosto?”.
Io ridacchiai. “No. Mi sento rilassato. Non proprio appagato come lo ero qualche mese fa prima delle competizioni” allusi al suo metodo “ma sono rilassato e concentrato nello stesso modo”.
“Allora potrebbe funzionare. Anche senza di me”.
“Potrebbe” concordai. “E se non dovesse, potremmo sempre optare per il sexting”. Proprio in quel momento un ragazzo con il borsone di una società pugilistica diversa dalla mia, sbucò da dietro l’angolo. Anche se non lo conoscevo gli feci un cenno col capo, sperando che non avesse sentito cosa avessi detto. Ma ne dubitavo, dato il sorrisino che mi lanciò.
“Allora spera che funzioni, perché non lo faccio con te per messaggi. È… strano” disse Melanie.
Io risi, mentre il ragazzo si allontanava. “Va bene, va bene” sbuffai.
Ryan a quel punto uscì dalla porta del nostro spogliatoio e mi guardò appoggiandosi allo stipite. Tamburellò l’indice sul suo polso e nonostante non avesse l’orologio, l’intento era piuttosto chiaro. Aveva un “Muoviti” scritto in faccia.
“Mel, devo andare. Fammi gli auguri” dissi, dando le spalle a Ryan.
“Oh, d’accordo. Buona fortuna, tesoro. Va sul ring e vinci. Spacca tutto e fai come se fossi lì. Sei la mia tigre preferita” disse ad una velocità inaudita.
Io risi, mentre lei diceva: “Ah, e ti amo”.
“Ti amo anch’io” dissi, prima di riattaccare.
“Hai finito di fare lo smielato? Ti vuoi muovere?” mi chiese subito Ryan.
Io mi voltai a guardarlo e sollevai gli occhi al cielo. “Sì, mamma” dissi sorpassandolo e decidendomi finalmente a tornare dentro, mentre lui mi dava uno schiaffetto dietro la nuca, facendomi ridere.
In effetti, il momento di andare sul ring stava diventando sempre più vicino.
 
 
Ero davvero scocciato. Chiunque mi si avvicinasse, mi faceva i complimenti per la grande vittoria e l’unica cosa che potevo fare era quella di sorridere e ringraziare, per mettere in mostra il grande e perfetto campione con cui la mia società mi aveva presentato al mondo.
Non appena la gente smise di rivolgersi a me, scappai via, alla ricerca di Ryan.
Mi guardavo intorno, ma non riuscivo a trovarlo da nessuna parte.
E poi qualcuno mi tastò il sedere e io mi voltai di scatto, solo per ritrovarmi faccia a faccia con quell’imbecille. “Cercavi me?” mi chiese Ryan, mentre rideva a crepapelle per la mia faccia.
“Ma quanto sei idiota?” gli dissi, scuotendo la testa.
“Se non lo avessi fatto, non avresti avuto quella reazione. E che divertimento ci sarebbe stato?” disse, mentre cercava di smettere di ridere.
“Comincio a pensare che tu sia realmente gay” dissi con un sorrisino sulle labbra.
Lui sollevò gli occhi al cielo. “Potrei darti un paio di nomi che ti confermerebbero il contrario” affermò, serio.
“E come faccio ad avere la certezza che tu non le abbia pagate?” continuai beffardo.
Vidi lo stesso sorrisino spuntare sul suo viso. “Non puoi”.
Io risi. “Comunque, dove ti eri cacciato? Non ti vedevo da nessuna parte” chiesi cambiando argomento, mentre continuavamo a stare in quel corridoio che avevo imboccato, mentre diversi uomini ci passavano accanto.
Lui scrollò le spalle. “In giro. E non si può dire lo stesso di te. La tua felpa si nota da chilometri”.
“Già. Penso che tu abbia ragione, data la quantità di persone che mi ha notato una volta uscito dagli spogliatoi”.
“Beh, quello è merito della tua vittoria, più che della felpa. A proposito, qual è stato il punteggio finale del tuo combattimento?” mi chiese divertito.
“Non farmelo dire ad alta voce, grazie. Quello lì non sapeva proprio stare sul ring e cosa fosse il pugilato” dissi, con un gesto noncurante della mano.
Ryan rise. “Beh, comunque ti sei fatto onore e hai innalzato il valore della nostra squadra” disse in tono solenne, facendo il verso a Carl. “Ottimo lavoro, furia”.
“E tu? Quando ti farai onore?” chiesi, mentre decidevo di muovermi da lì e andare verso l’esterno.
Ryan mi seguì. “Appena finisce la tua categoria. Per fortuna sono il primo. Non ce la faccio proprio più ad aspettare” si lamentò.
Uscimmo nel cortile esterno e potei sentire l’aria fredda colpirmi il viso e rigenerarmi.
“Riuscirai a vincere senza la tua cheerleader questa volta?”. Fu il mio turno di prenderlo in giro. In effetti era sempre stata consuetudine di Ryan quella di avere una ragazza da baciare prima di ogni incontro. Amava immergersi nella vita del pugile e godersi i piaceri che il nostro lavoro poteva offrire, a tal punto che molti lo ritenevano la perfetta star sportiva.
In pochi conoscevamo la reale personalità di Ryan, quella che metteva davanti a tutto la famiglia, studiava per diventare un fisioterapista e si prendeva cura di un amico con una vita complicata.
Io stesso gli avevo chiesto il motivo di quella facciata, ma lui aveva risposto solo che la vita era breve e che bisognava anche godersela finché si poteva.
Ma quella volta non c’era nessuna ragazza lì al palazzetto, ad augurargli buona fortuna prima del combattimento.
“Ovviamente” mi rispose, ruotando gli occhi. Anche io sapevo perfettamente che non aveva bisogno di alcuna ragazza e di alcun bacio per vincere sul ring e anzi pensavo che avrebbe potuto evitare quella tiritela, ma mi veniva quasi naturale prenderlo in giro. Io e Ryan eravamo così: tra noi era sempre un continuo deridersi bonariamente e prendersi in giro per ogni stupidata.
“Hai capito il motivo per cui è andata via?” chiesi a quel punto tornando serio. Sarah sarebbe dovuta essere infatti, la cheerleader di Ryan di quella serata, ma non era presente. Era andata fuori città per un po’ per motivi sconosciuti. Quando Ryan le aveva chiesto la ragione, lei aveva risposto che doveva sbrigare delle questioni di lavoro, restando molto vaga e poi aveva subito dirottato la conversazione su altro, dicendo di essere molto dispiaciuta di perdersi l’inizio del loro campionato.
Da quando avevo spiegato a Ryan la situazione le nostre indagini erano andate a rilento. Ryan le aveva fatto qualche domanda sulla sua famiglia e sul suo passato, ma nessuno di noi due sapeva cosa fosse vero e cosa no. Io stesso mi ero reso conto di sapere molto poco sulla Sarah Wilkinson che conoscevo alle superiori. All’epoca mi aveva detto di vivere con sua nonna e di essersi trasferita da Boston poco prima di iniziare il primo anno del liceo.
Raramente passavamo del tempo insieme fuori da scuola e quando era accaduto nessuno dei due aveva mai proposto le proprio case. Ma come cavolo facevo a dire di conoscere quella ragazza? Eravamo talmente gelosi e protettivi entrambi delle proprio cose e dei propri cari che non ci eravamo fidati abbastanza l’uno dell’altro da condividerli. Col senno di poi, mi resi conto che io e Sarah avevamo lo stesso carattere ed era proprio per quel motivo che stavamo così bene insieme. Anche il solo stare in silenzio e fare le proprie cose, sapendo di avere della compagnia era d’aiuto per entrambi. E poi amavamo passare ore a fare discorsi campati in aria e ragionamenti ingarbugliati. Fantasticavamo sul futuro o su come avremmo potuto cambiare il mondo o comandarlo a nostro piacimento. Eravamo dei ragazzini difficili con strane idee per la testa.
Rabbrividii a causa dell’aria fredda intorno a noi e prima che potessi tirarmi su il cappuccio della felpa Chad mi porse il suo berretto, che teneva nella tasca davanti della sua felpa.
“Mettilo. Tanto lo so che il tuo non l’hai portato con te. Quindi prendi il mio. E no, non ho ancora capito il motivo, mi dispiace”.
Non feci tante cerimonie e presi il berretto di Ryan, sistemandomelo in testa e sollevando il cappuccio della felpa. Non ero mai stato quel tipo di ragazzo che non sentiva il freddo e che andava in giro come se fosse sempre estate. E negli ultimi anni questa cosa era peggiorata. Adesso odiavo l’inverno e le sue temperature basse con tutto me stesso. La stessa cosa non si poteva dire di Ryan che invece era proprio quel tipo di ragazzo, che aveva sempre caldo e non aveva alcun problema con le basse temperature. Era anche per quel motivo che avevo accettato il suo berretto. Tanto lui non lo avrebbe usato comunque.
Poco dopo la porta alle nostre spalle si aprì. “Eccovi, finalmente” disse Carl. “Ryan, tra poco iniziano con i Pesi Massimi. Venite dentro” disse facendoci cenno con la mano.
Noi annuimmo e lo seguimmo all’interno. A breve anche Ryan avrebbe disputato il suo incontro e dato che avrei assistito speravo che fosse almeno più interessante e avvincente del mio.
 
Mi piazzai nei pressi del ring, scegliendo di stare in piedi piuttosto che prendere posto nelle prime file di sedili dedicati ai pugili e allo staff.
Incrociai le braccia al petto e osservai i due combattenti sul ring. A Ryan mancava solo di infilare il paradenti. E poi dopo le piccole formalità iniziali, il combattimento ebbe inizio.
L’avversario di Ryan aveva una statura più piccola rispetto a lui e avrei scommesso che si trattasse di un In-fighter. Bene, eravamo stati piuttosto fortunati quel giorno. Da buon Puncher qual era Ryan lo avrebbe potuto battere con discreta facilità.
Osservavo tutti i movimenti veloci e decisi di Ryan e mi ritrovai a sorridere. Non lo avrei mai ammesso davanti a lui, ma adoravo guardare i suoi incontri. Ryan aveva una tecnica pazzesca e quando stava sul ring si trasformava. Si poteva vedere benissimo la concentrazione sul suo viso e come i suoi occhi vagassero sull’avversario cercando di prevederne le mosse.
I suoi colpi erano potenti e veloci, tanto che Matterson, il suo avversario, venne presto destabilizzato.
Ryan sapeva perfettamente dove colpire e quando parare e fino a quel momento aveva incassato solo pochi colpi innocui.
Avrei scommesso sul fatto che Ryan avesse studiato il suo avversario già giorni prima. Al contrario di me, Ryan amava analizzare ogni suo avversario prima del combattimento, per riuscire a vincere sempre e al meglio. Cosa che io facevo soltanto nelle occasioni importanti. Lo stesso Carl mi aveva incitato a farlo parecchie volte, ma io non lo ero mai stato a sentire e così lui stesso si era stancato e aveva rinunciato. Dopotutto io venivo da un tipo di lotta differente, dove non sapevo contro chi avrei dovuto combattere fino a cinque minuti prima dell’incontro. E non avevo rinunciato del tutto a quell’abitudine: amavo provare il brivido dell’ignoto e vincere con le mie doti di colpitore d’incontro, facendo lavorare il mio cervello al massimo.
Riuscii a vedere perfettamente il momento in cui Ryan aveva deciso di mettere fine al combattimento: il suo viso si era contratto e la sua respirazione era diventata più controllata. Solo due pugni consecutivi e l’avversario finì a terra. Quei secondi passarono velocemente e l’incontro di Ryan terminò con vittoria per KO. Il caos regnava sulle tribune, acclamando il nostro vincitore. Io scossi la testa con un sorriso divertito, proprio nel momento in cui incontrai gli occhi di Ryan che sollevò le sopracciglia con un sorrisino. Era entrato in modalità star del momento e io sollevai gli occhi al cielo e gli voltai le spalle, andando a recuperare la mia roba. Il nostro lavoro per quella sera era fatto e noi potevamo tornare a casa.
Uscimmo dalla palestra insieme, proprio come eravamo entrati. L’unica differenza era tutta la gente che ci fermava per i complimenti. Snervante. Eravamo quasi all’uscita, quando qualcun altro ci chiamò: “Rage! O’Connor!”.
Ci voltammo per incontrare Carl con un sorriso stampato in faccia. In mezzo alla confusione non ero neanche riuscito a riconoscere la voce del nostro allenatore.
“Ottimo lavoro, ragazzi” disse e tirò fuori dalla tasca due buste. Ce le porse e i nostri sorrisi si ampliarono. Era sempre così: il nostro stipendio arrivava sempre dopo un combattimento e in particolar modo se quello era stato vincente.
“Ci vediamo lunedì” dicemmo io e Ryan, prima di uscire da quel palazzetto. La nostra stagione era iniziata e potevo dire, anche piuttosto bene.
 
Pov Melanie

La lezione finì e io sospirai di sollievo. Apprezzavo quella materia davvero: l’arte primitiva era molto interessante, ma quel giorno non riuscivo proprio a stare concentrata. In quella lezione, così come nelle altre. Dovevo solo aspettare che la giornata finisse e già domani sarei stata a casa. Sarei tornata a Dover per il giorno del ringraziamento. Quindi la mia distrazione era piuttosto giustificata.
Inoltre mi sentivo davvero stanca. La sera prima Becka e Chris mi avevano trascinata alla festa di saluto che avevano organizzato nell’edificio sei, alla quale aveva partecipato quasi tutto il college. Tra risate e musica eravamo tornati in camera ad un orario indecente. E per giunta la mia stanza era ancora deserta. Non avevo sentito rientrare affatto Cher e non avevo la minima idea dell’ora in cui era tornata o in che condizioni fosse.
Quando la nostra insegnante annunciò che la lezione era finita e ci augurò una buona giornata del ringraziamento con un “godetevi questi pochi giorni di vacanza”, mi alzai velocemente in piedi.
Non feci quasi in tempo ad uscire dall’aula che una voce maschile mi chiamò. Rabbrividii e mi voltai: era Adrian.
“Ciao” mi disse, dopo avermi raggiunto.
L’ultima volta che io e Adrian avevamo parlato era stato sul palco alla premiazione. Da allora avevo cercato di tenermi a distanza e di non far incrociare i nostri cammini. Le parole che mi aveva sussurrato l’ultima volta mi avevano intimorita, nonostante cercassi di non darlo a vedere. Avevo molti interrogativi, ma se da un lato la mia curiosità mi spingeva a chiedere e ad indagare, dall’altro quella poca razionalità che ancora possedevo, mi impediva di farlo. E lui dal canto suo, non era venuto a cercarmi. Fino a quel momento.
“Ciao, Adrian” risposi, giochicchiando con l’angolino del libro che tenevo tra le mani.
“Come stai?” mi chiese con un sorriso dolce.
“Sto bene. E tu?” chiesi a mia volta, involontariamente. Forse sarebbe stato meglio se non glielo avessi chiesto, così da fargli capire che non volevo si avvicinasse a me. Ma in quel modo sarei apparsa troppo maleducata.
O forse è solo la tua voglia di sapere che sta prendendo il sopravvento: queste parole mi si formularono istantaneamente nel mio cervello. Quella vocina beffarda che si prendeva sempre gioco di me in ogni situazione.
“Sto bene, grazie” rispose, scrutandomi con lo sguardo e soffermandosi sulla mia mano che adesso stringeva saldamente e nervosamente il libro di storia dall’arte primitiva.
“Non voglio farti perdere tempo, davvero” mi disse con quel sorriso ancora sulle labbra. Quell’accenno di malizia e di superiorità che avevo visto alla premiazione era completamente sparita.
“Volevo solo informarti del fatto che sono uscite le date di New York. Beh, non sono ancora state ufficializzate in realtà” continuò, grattandosi la testa. “Ma pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo prima delle vacanze. Beh, quei quattro giorni sono vicini, quindi li avremmo saputi una volta arrivati a casa, ma non riuscivo a tenerlo per me e quindi… sì, insomma” si interruppe, schiarendosi la gola e cercando di darsi un contegno. Sembrava un bambino eccitato all’idea di dover andare al luna park. E probabilmente era davvero quella la sensazione. Io stessa non vedevo l’ora di recarmi in quella città per godermi la mostra che avevano messo in palio.
Lo guardai in silenzio per qualche secondo. “Come fai a saperlo?” chiesi, senza riuscirmi a controllare.
Lui scrollò le spalle. “Sono nel comitato studentesco e aiuto anche con l’organizzazione amministrativa del college. I professori si fidano di me e ottengo sempre informazioni nuove di zecca, diciamo… in anticipo”.
Beh, per lo meno mi aveva dato una spiegazione. Ma perché si fidavano in quel modo di lui? Perché i professori in mezzo a tutti quegli studenti avevano scelto proprio lui?
Di certo non erano delle domande che potevo fare in quel momento per cui mi limitai ad annuire: “E’ carino da parte tua” dissi.
Il suo sorriso si ampliò. “Grazie. Dunque, torniamo dalla vacanze lunedì 30 novembre. E poi avremo solo una settimana al campus, cinque giorni per l’esattezza. Partiremo domenica 6 dicembre, per tonare giovedì 10 dicembre”.
I miei occhi si allargarono per lo stupore. “E non ci hanno ancora comunicato le date? Ma è vicinissima” esclamai.
Lui si strinse nelle spalle. “Lo so, ma neanche loro avevano ancora deciso in quale dei giorni possibili andare. Sai, c’erano più tappe e quindi più scelte. E dopo una serie interminabili di riflessioni, sono arrivati alla conclusione che questa data…” fece una piccola pausa e io ne approfittai per commentare: “Sia la più sconvolgente per noi partecipanti?”.
Lui ridacchiò e fece un cenno con la mano. In quel momento, inoltre, stavamo camminando per i viali dell’istituto. Senza rendermene conto avevamo iniziato a camminare. Non sapevo nemmeno dove eravamo diretti. Continuavo a seguire Adrian, interessata dai suoi discorsi.
“In realtà stavo per dire più conveniente economicamente, ma dopotutto penso che contino anche sull’effetto sorpresa. Quindi sconvolgente potrebbe andar bene”.
“Oh” dissi, ridacchiando anche io.
E proprio in quel momento Adrian si fermò. Mi resi conto che mi aveva portato davanti al mio edificio.
“Anche se brevi, passa buone vacanze, Melanie” mi disse sorridendomi, prima di proseguire per la sua strada.
“Anche tu” ero riuscita a dire appena, per poi voltarmi verso l’edificio in cui si trovava la mia stanza e quella di Cher. Misi da parte tutte le mie domande su Adrian e sorrisi. Andai all’interno fremendo. Dovevo solo sistemare le ultime cose e poi sarei stata pronta per partire. Per tornare a casa.
 
Pov Rachel

Continuavo a guardare la lancetta dell’orologio sopra la cattedra. Non ero molto attenta. Mi sembrava quasi di essere finita in High School Musical e di interpretare la parte in cui gli studenti continuavano a guardare l’orologio e a ripetersi “Summer time, summer time”. Ok, non ero affatto attenta. Non riuscivo ad ascoltare un fico secco di quello che Ant stesse spiegando. Ma come potevano biasimarmi? Dopo quell’ultima lezione io e Dave saremmo saliti in macchina, con Dover come unica direzione. Erano già passati due mesi da quando ero stata a casa e mi mancava da morire. Dopotutto avevo vissuto in quella piccola cittadella per anni.
Senza rendermene conto avevo iniziato a muovere la penna che avevo in mano, impaziente. E Lucy che si era voltata nella mia direzione, attratta dal movimento, ridacchiò e iniziò a scrivere con la matita sul suo quaderno. E io le prestai attenzione solo quando me lo fece scivolare davanti.
Nervosa? Aveva scritto con una calligrafia chiara e morbida.
Impaziente, per l’esattezza. Le risposi accanto, frettolosamente.
Lei lesse e ridacchiò.
Dai, mancano solo dieci minuti. Tic tac, tic tac. Scrisse, allungando il braccio.
Io annuii soltanto e tornai a guardare l’orologio. Otto minuti per essere precisi.
“La lezione è terminata. Buone vacanze”. Quelle parole pronunciate da Ant le captai perfettamente e dovetti trattenermi dall’alzarmi di scatto e dal fuggire dall’aula.
Recuperai tutta la mia roba e feci per uscire, ma ovviamente la fortuna non è mai dalla mia parte. Evidentemente il fato si burlava di me e non voleva che raggiungessi il mio ragazzo senza ostacoli.
“Signorina Miles, può fermarsi un attimo?” mi chiese Ant e io lo guardai in silenzio. Che cosa voleva adesso?
Evidentemente avevo un’espressione sorpresa perché aggiunse: “Si tratta del lavoro su Lincoln”.
Feci una smorfia involontaria. Oh no, era un lavoro che ci aveva assegnato due settimane prima e al quale non mi ero proprio applicata. A causa di uno studio intensivo di psicologia del diritto, che mi aveva portato via ogni spazio di tempo, mi ero ridotta a iniziare quel progetto la sera prima della consegna. Era stata una lunga notte. Dave, inoltre, aveva preso il raffreddore ed era diventato alquanto appiccicoso: ero finita a studiare sulla scrivania della nostra camera, con il portatile davanti come unica fonte di luce insieme ad un piccolo lumino. In sottofondo soltanto i colpi di tosse del mio ragazzo, che si era seppellito sotto le coperte.
Erano le due passate quando si era svegliato, lamentandosi della mia assenza nel letto. Ma io dovevo finire quel progetto e cercai di velocizzarmi il più possibile. Mezz’ora dopo avevo finalmente finito, anche se non soddisfatta di ciò che avevo creato. In ogni caso avevo spento tutto e avevo raggiunto Dave nel letto. Lui si era subito accoccolato su di me e io avevo istantaneamente dimenticato il progetto, baciando la fronte del mio ragazzo malaticcio, per poi seguirlo nel mondo dei sogni.
A quel punto, l’unica spiegazione era che il mio progetto faceva talmente schifo che Ant doveva per forza  farmelo notare e probabilmente rifare.
Mi avvicinai alla cattedra e aspettai in silenzio, guardando Ant che si rigirava il mio lavoro tra le mani.
“Devo ammettere che l’ho letto tutto in poco tempo” iniziò.
Io deglutii. Era troppo corto? Era solo quello il problema?
“Il che è un bene per lei, dato che più uno scritto mi colpisce, più impiego meno tempo per leggerlo”.
Cosa? Spalancai gli occhi per lo stupore.
“Signorina Miles, sono rimasto davvero colpito dal suo lavoro. È scritto molto bene. Se nel parlare ha le stesse capacità del suo scrivere, allora ha davvero molte possibilità di farcela”  disse, sorridendomi da dietro i suoi occhialetti.
Io ero sconvolta. Aveva realmente detto che gli piaceva il mio progetto? Quel lavoro che avevo fatto in una notte? Ma stavamo parlando davvero dello stesso lavoro? Andiamo, aveva sicuramente scambiato i progetti. O letto male il nome.
“Ne è sicuro?” dissi senza poterne fare a meno e poi arrossii. “Cioè, dice sul serio?” chiesi.
Lui annuì. “Dico sul serio. È un lavoro ottimo. Volevo solo dirle che potrebbe perfettamente usarlo per la sua tesi. E se vuole posso essere il professore a tal proposito” terminò, togliendosi gli occhiali e perforandomi con il suo sguardo profondo.
“Beh, sono ancora al primo anno, professore. Non è un po’ presto per la mia tesi?”. Ero molto stupita.
“Giusta osservazione. In questo modo avrà parecchio tempo per pensarci. E le consiglio di non mettere da parte questo argomento. Potrebbe tornare utile prima o poi. Ah, e complimenti per il suo voto. Può andare, signorina Miles. Buone vacanze” finì con un sorriso, aprendo uno dei suoi cassetti e infilando del materiale che aveva ancora sul tavolo.
“Grazie” riuscii soltanto a borbottare e voltandogli le spalle, andai verso l’uscita dell’aula.
Ant mi aveva appena detto che avrebbe voluto seguirmi nella tesi in futuro, solo dopo aver letto quel lavoro che nemmeno mi piaceva. E dove era finita la sua irritazione nei miei confronti?
Ma che cavolo…? Feci appena in tempo ad uscire dall’aula che le mie due amiche, ferme nel corridoio, mi assalirono: “Cosa ti ha detto?”. “Cosa voleva adesso?”.
Io guardai le due ragazze  e semplicemente dissi: “Gli è piaciuto il mio progetto su Lincoln”.
“Oh dio, veramente? Che fortuna, avrai un voto altissimo! Complimenti, Rachel” disse Zoe, mentre Lucy sorrideva divertita.
“Io lo avevo detto. Rachel ha fatto colpo su Ant” ridacchiò.
Io la guardai storto. “Ma che dici?” dissi, sollevando gli occhi al cielo.
Così facendo però notai l’orologio sulla parete.
“Cavolo, Dave mi starà aspettando. Devo proprio andare ragazze” dissi e loro annuirono.
Ci salutammo con dei brevi abbracci e ci augurammo una buona festa del Ringraziamento, prima di affrettarmi verso il mio appartamento, dove le valigie erano già pronte e con tutta probabilità Dave mi stava aspettando.

Pov Dave

Muoviti, Dave, muoviti. Ero dentro lo spogliatoio desolato. Stavo recuperando le ultime cose, come le scarpe da gioco e roba che tenevo nel mio armadietto. Per quei giorni di vacanza, sebbene fossero pochi, mi sentivo più tranquillo a portarli all’appartamento.
La palestra e tutti i suoi spazi erano silenziosi e vuoti e temevo quasi di poter rimanere chiuso dentro.
Muoviti. Afferrai le scarpe uscii in fretta da lì. Fin da quella mattina mi sentivo alquanto elettrizzato, così come Rachel. Nel nostro appartamento la frenesia e la felicità era stata palpabile.
Avevo quasi raggiunto l’ingresso quando mi fermai di colpo.
Il silenzio era stato spezzato da delle voci. E mi sembravano alquanto familiari. Vedevo perfettamente la porta d’ingresso davanti a me, ma non osai raggiungerla, dato che nel corridoio alla mia sinistra due persone stavano discutendo e se avessi continuato a camminare le avrei interrotte. Mi avrebbero visto.
Cercai di capire di chi si trattasse e solo dopo una frase riuscii a identificarli.
“E’ sempre la stessa storia, Lil. Perché devi fare di testa tua ogni volta?”. Si trattava di Peter e Lilian. Strano, era la prima volta che li sentivo intraprendere una conversazione. Di solito si lanciavano soltanto cenni del capo o piccoli sguardi. Non si rivolgevano la parola quasi mai.
“E’ una mia scelta” disse pacata la ragazza.
“Sì, è sempre una tua scelta. Lo era l’ultima volta e lo è adesso. Ma perché sei venuta a dirmelo?” chiese l’altro bruscamente.
“Lo ritenevo giusto”.
Peter rise. “Oh, certo. Lo ritenevi giusto. Come sulla storia di Jo, vero? Lilian, non puoi andartene”.
Andarsene? Ok, sapevo perfettamente che origliare in quel modo non era giusto, ma adesso le cose si facevano interessati. Di cosa parlavano quei due? Ed era più forte di me. Volevo sentire.
“Non me ne vado adesso, Pet” rispose secca la mora.
“Oh, giusto. Alla fine del semestre. Febbraio è dietro l’angolo, Lilian. E tu ci mollerai a metà campionato, lo capisci?” il nostro capitano era esasperato.
“Non avete mai avuto bisogno di me”.
Sentii Peter che sbuffava. “Dio, Lilian, tu non capisci. Io…” si bloccò di colpo e per alcuni secondi ci fu il silenzio.
“Tu cosa?” chiese Lilian a voce talmente bassa, che feci quasi fatica a sentirla.
Peter non rispondeva e io mi resi conto che mi ero ficcato abbastanza in affari che non mi riguardavano.
Decisi di fare qualche passo indietro e di camminare più pesantemente per farmi sentire. Immaginavo che entrambi si fossero girati e Peter disse: “Chi è?”.
Io uscii allo scoperto facendo finta di niente e mi voltai verso di loro, prima di uscire dalla porta di ingresso.
“Oh, ciao ragazzi” dissi e loro mi fecero un cenno con il capo.
“Ciao, Dave” mi rispose soltanto Lilian, mentre Peter mi osservava.
“Ho recuperato la mia roba dallo spogliatoio. Buone vacanze”.
“Anche a te, Carter” mi rispose Peter, mentre Lilian sorrideva.
E poi uscii all’esterno. Diavolo, adesso mi sentivo alquanto in colpa. Un appunto mentale, Dave: la prossima volta evita di farti gli affari degli altri. In quel modo, inoltre, ero riuscito soltanto a crearmi parecchi interrogativi. E a dirla tutta, in quel momento non ne avevo proprio bisogno. Scacciai quei pensieri e andai verso il mio appartamento. Era ora di tornare a casa.
 
Pov Chad

“Dove corri?” mi chiese mia zia, mentre scendevo le scale a due a due.
Avevo sul viso un sorriso ebete. Avevo un caldo pauroso e non riuscivo a stare fermo.
“Stanno arrivando!” esclamai, mentre afferravo la giacca e le chiavi della moto.
“Chi?” chiese Evan, uscendo dalla porta del salone.
“I Carter. Melanie!” dissi, avvicinandomi a mio fratello e afferrandolo per la gioia.
Sentii mia zia che rideva, mentre Evan si dimenava nella mia presa, urlando: “Mettimi giù”.
Risi anche io e lo lasciai andare. Afferrai il casco della moto che per una ragione a me sconosciuta, avevo portato all’interno la sera prima. Ero talmente distratto che non lo avevo messo sotto al sedile, come al solito.
“Ci vediamo dopo, ok?” dissi, aprendo la porta.
Loro annuirono e mi fecero dei versi affermativi. Mi chiusi la porta alle spalle, senza poter smettere di sorridere.
In pochissimi minuti arrivai davanti casa Carter, giusto in tempo per vedere la macchina di Dave che parcheggiava nel vialetto. Fremetti dall’eccitazione e parcheggiai la moto con poca grazia, in modo alquanto affrettato.
“Chad” mi salutò Dave, che era appena sceso dalla macchina con Rachel al seguito.
“Ehi, amico. È così bello rivederti” dissi, mentre ci scambiavamo un abbraccio.
“Già, anche per me” mi rispose lui, dandomi una pacca sulla spalla mentre si allontanava.
Poi mi voltai verso la biondina.
“Rachel” dissi, sorridendo.
“Chad” fu la sua risposta. Entrambi in un primo momento non sapevamo cosa fare, poi però ci avvicinammo e ci scambiammo un piccolo abbraccio, mentre Dave scoppiava a ridere.
“Allora, siete già diventati medici o avvocati?” chiesi, prendendoli in giro.
“Sì, beh. Potrei fare un’accurata analisi e diagnosticare il tuo alto livello di sarcasmo” rispose Dave e io feci una smorfia.
“Ok, parla come gli esseri umani, amico”. Rachel ridacchiò e Dave alzò gli occhi al cielo.
“Melanie dovrebbe essere qui a momenti, con mia madre”. Dave fece appena in tempo a dirlo, che il clacson di una macchina mi fece voltare di scatto.
E sentii il mio cuore che accelerava. Mi sentivo una quindicenne in preda agli ormoni, dopo aver visto la sua cotta.
Melanie era lì, nel lato del passeggero della macchina. I suoi capelli rossi legati in una treccia e un sorriso genuino sul viso. Dio, era così bella.
I nostri sguardi si incrociarono subito e i nostri sorrisi si allargarono.
La vidi scendere dalla macchina e i miei piedi si mossero da soli nella sua direzione. Non chiuse nemmeno lo sportello. “Chad!” esclamò, correndo verso di me. E in un lampo fu tra le mie braccia. La sollevai senza il minimo sforzo e lei mise le sue gambe intorno alla mia vita.
“Melanie” dissi guardando i suoi occhi verdi, prima di far toccare le nostre labbra. Era perfetto.
Sentii le gambe deboli e per un momento ebbi paura di non riuscire a tenerla. Era da troppo tempo che aspettavo di farlo. Nei sogni non era la stessa cosa. Affatto.
Assaporai le sue labbra morbide, per poi approfondire il bacio. Ci staccammo soltanto quando non avevamo più fiato.
“Mi sei mancata così tanto” sussurrai con gli occhi ancora chiusi.
Melanie poggiò la fronte alla mia. “Anche tu. Da impazzire”.
Finalmente dopo mesi, con la mia Melanie tra le braccia, mi sentivo di nuovo completo. Era proprio come doveva essere.
 

 
 
 


Angolo dell'autrice: I'm back! Olaa, amigos.
Ok, ci ho messo tantissimo tempo, lo so. Ma ho avuto un po' di fermento nella mia misera vita da studentessa/giocatrice di basket. Quindi sono riuscita a pubblicare solo adesso. Mi scuso per l'attesa.
Per giunta non sono soddisfatta di questo capitolo. Insomma, è di passaggio e fa un po' schifo. Ne sono consapevole. Ugh.
Voi che ne pensate??
Comunque, preparatevi! Dal prossimo capitolo (che non ho idea di quando pubblicherò) le cose si movimenteranno, ve lo assicuro.
Ringrazio tutti i miei lettori e recensori.
A presto xx
-Manu
  
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