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Autore: CHAOSevangeline    17/09/2015    1 recensioni
{ Au | Steve/Bucky; Tony/Pepper; Clint/Natasha }
"Forse non era esattamente dall'amicizia che sembravano legati: cinque adulti che bevono e si prendono a frecciatine ogni giovedì sera fanno più la figura di un circolo di frustrati anonimi. Peccato che loro non fossero nemmeno anonimi, visto che erano abbastanza chiassosi da aver fatto conoscere la propria identità a tutti i frequentatori del locale.
Però oltre agli scherzi, alle battute e alle incomprensioni, sapevano di poter contare gli uni sugli altri.
Persino su Tony Stark, che trovava sempre un momento per loro nonostante la propria agenda piena di impegni."
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci sono poche premesse da fare: ho scritto questa fanfiction AU per raccontare una storia su alcuni dei miei personaggi e coppie preferite.
Le coppie sicuramente presenti sono quelle indicate nella descrizione della storia, ma sia mai che ne sbuchi qualche altra! Non per questo i personaggi privi di partner verranno trascurati, anzi.
Intanto ringrazio infinitamente Barri per tutti gli scleri e l’aiuto che mi ha dato per quanto riguarda la stesura di questa fanfiction, Jessica per l’immensa sopportazione e Vale di fronte a cui sono impazzita per prima per colpa del titolo. Tutti sanno quanto stessi impazzendo per colpa del titolo.
Sperando che questa commedia strappi qualche sorriso, vi auguro buona lettura e spero vi vada di dirmi cosa ne pensate <3

 

 
Weekly Escape
 

Steve
 

Ogni giorno la sveglia di Steve suonava alle sei e ogni giorno la suddetta sveglia ringraziava di essere stata acquistata proprio da lui.
Insolitamente non veniva percossa da una mano ancora addormentata, lanciata contro una parete o brutalmente insultata per via dell’infame compito che, alla fine, le veniva imposto di svolgere: Steve era abbastanza mattiniero e in più sapeva di avere degli impegni che di certo non avrebbe potuto posticipare prendendosela con il malcapitato oggetto solo per guadagnare cinque minuti di riposo.
Così alle sei metteva i piedi fuori dal letto e si preparava per andare a correre; un buon modo per tenersi in forma e caricarsi in previsione di una lunga giornata.
Altra anomalia: alla gente di solito non piace correre. O meglio, non capisce come ad un essere umano possa piacere l’idea di correre alle sei della mattina in ogni stagione, fatta eccezione per le domeniche e i giorni festivi. A maggior ragione se alcune sere il corridore in questione decide di andare anche in palestra.
Terminato il proprio circuito improvvisato, che consisteva nel correre fino al parco, intorno al suddetto e ritorno – un paio di chilometri, dunque –, si facevano le sei e mezza.
Steve si buttava sotto la doccia e, una volta riemerso dai vapori del bagno, si concedeva una meritata colazione. Colazione ipercalorica fra l’altro, ma tanto con il suo allenamento sarebbe stato capace di bruciare cinque di quei pasti in una volta sola.
Poi andava al lavoro.
La centrale di polizia era il luogo dove aveva sperato di lavorare fin da bambino e il poliziotto era di sicuro l’impiego che più gli si addiceva: aiutare il prossimo e difendere le strade erano solo due dei motivi per cui Steve era stato abbastanza caparbio da raggiungere quell’obbiettivo.
Ora sì che avrebbe potuto ridere in faccia a tutte le voci divergenti che avevano cercato di convincerlo che il futuro che sognava non fosse affatto su misura per lui. Ma era troppo buono per farlo.
Sarebbe stato tutto ancor migliore se solo fosse stato un poliziotto di Brooklyn, la sua città natale, invece che di New York, ma era stato trasferito lì e non aveva abbastanza voce in capitolo per un ulteriore cambiamento.
Era sempre stato abituato a capire su che cosa valesse la pena essere inflessibili e su cosa, invece, no: la città dove lavorava era comunque splendida, perché vi aveva costruito bene o male la propria vita.
Quando tornava a casa da lavoro, se non si doveva fermare in palestra, Steve andava sempre a trovare Bucky. Anzi, forse sarebbe meglio dire che era l’allenamento in palestra ad essere in funzione della capatina da Bucky. Tanto correva tutte le mattine per tenersi in forma, cosa avrebbe mai potuto provocare una serata senza sudare di nuovo?
Si conoscevano da una vita, lui e Bucky. Si erano addirittura trovati a condividere lo stesso metro quadrato nel reparto nido dell’ospedale, quando erano nati.
Bucky aveva un negozio di tatuaggi e se la cavava anche piuttosto bene, maledizione!
Era così bravo che Steve si sarebbe fatto fare un tatuaggio da lui, se solo fosse stato tipo da tatuaggi. A dirla tutta nemmeno Bucky lo era. Era questo il paradosso che più divertiva Steve: entrare in un negozio di tatuaggi e trovare il suo proprietario con una canottiera capace di palesare la totale assenza di inchiostro sulla sua pelle.
Bucky non aveva mai argomentato bene il perché non volesse tatuaggi, e Steve non lo aveva mai forzato a farlo a dargli delle spiegazioni.
Un po’ come le persone che entrando nel negozio non volevano spiegare il significato dei disegni indelebili che erano decisi a farsi tatuare, Bucky si guardava bene dal rivelare quale misteriosa ragione o paura lo portasse a non tatuarsi.
Steve aveva creduto che temesse gli aghi, di pentirsi, di sbagliare non avendo mai disegnato su di sé, ma ogni sua elucubrazione era stata bocciata. Ogni volta.
Così Steve si era stancato e aveva lasciato perdere, perché anche se Bucky era una delle persone a lui più care e per principio gli sarebbe piaciuto poter dire di conoscere davvero tutto di lui, non gli interessava poi tanto quale turba gli impedisse di tatuarsi.
Tanto a lui i tatuaggi nemmeno piacevano. Piuttosto di vederlo con qualcosa come una carpa tatuata sul braccio era meglio che la sua pelle rimanesse intonsa: dover fissare negli occhi un pesce bidimensionale sarebbe stato inquietante.
Già era stato traumatico andarlo a prendere in aereoporto e trovarlo con i capelli lunghi senza alcun preavviso. Una carpa su un braccio era decisamente troppo.
Il campanello appeso alla porta d’ingresso tintinnò sopra di lui mentre faceva il proprio ingresso nel salone, avvisando Bucky e il cliente che gli aveva appena portato un disegno da studiare del suo arrivo.
« Ehi, Steve! »
Bucky gli rivolse un sorriso, come fece ben presto il cliente che Steve non aveva riconosciuto, avendolo guardato solo di sfuggita.
« Ciao Buck. Jay. »
Jay era un cliente abituale del negozio. Così tanto abituale da aver riempito gli ultimi centimetri di pelle libera con i tatuaggi di Bucky, tanto era stato entusiasta del suo lavoro la prima volta che era stato nel suo negozio.
Steve avrebbe tanto voluto chiedergli dove si sarebbe tatuato il rosone grande quasi quanto tutto il foglio da fotocopie che Bucky teneva in mano, ma temeva troppo la risposta per farlo.
« Magari è la volta buona che è venuto qui per farsi assumere », commentò Jay, salutando Steve con un sorriso.
Bucky aveva diffuso tra tutti i clienti la voce che Steve avesse un’innata inclinazione artistica. Cosa che, fra l’altro, non era nemmeno poi così falsa: era piuttosto bravo a disegnare e a ideare abbozzi che talvolta Bucky gli aveva chiesto di poter incorniciare e appendere alle pareti della sala d’attesa e del suo studio.
Per Steve non c’erano stati problemi, lusingato com’era. Erano arrivati dopo: Bucky aveva iniziato a dirgli che sarebbe stato grandioso se avesse per qualche ragione deciso di lavorare con lui, che sarebbe stato un ottimo socio. Ma Steve aveva sempre rifiutato.
Lungi da lui pensare che il mestiere del tatuatore fosse da meno di altri, perché si sarebbe messo contro chiunque avesse provato a dirlo solo per difendere la professione del suo migliore amico. Semplicemente non vedeva il proprio futuro speso in qualcosa di simile, non dopo aver studiato criminologia per tanti anni a scuola.
« Tutti sogni, Jay. Tutti sogni. »
Bucky era serio, ma lanciò a Steve uno sguardo che gli stava eloquentemente dicendo “so che non dovrei illudermi, ma se vuoi farmi felice puoi sempre dirmi che mi sbaglio”.
Sì, Steve interpretava sempre per frasi gli sguardi di Bucky, tanto lo conosceva bene. C’era lo sguardo “Steve, per favore, alza il volume della televisione”, “Steve, mi sto seriamente innervosendo e forse dovresti fermarmi”. Sapeva persino interpretare gli occhi da “Steve, se non la finisci di fare quel giochetto dove interpreti le mie occhiate a parole giuro che vengo lì!”
« Che peccato. Allora ci vediamo la prossima settimana. » Dopo una stretta di mano a Bucky e una rapida pacca sulla spalla di Steve, Jay uscì dal negozio e li lasciò soli.
Steve si fece più vicino al bancone.
« Ti vedo di buon umore. »
Steve diceva quella frase praticamente tutte le volte che incontrava Bucky; era il suo metodo infallibile per scoprire se andava tutto bene per davvero.
Per qualche arcana ragione, quelle parole spingevano Bucky ad essere più sincero di quanto non fosse quando gli si chiedeva in modo diretto come stava.
« Va tutto come al solito », gli rispose.
Per Steve era inevitabile preoccuparsi: quando erano giovani, era Bucky a occuparsi di lui, che ben più mingherlino di costituzione e cagionevole di salute non riusciva affatto a promettere botte a chiunque solamente venendo guardato, cosa che per la cronaca riusciva a fare benissimo in quel momento.
Infatti era solito prenderle e anche piuttosto forte, per colpa degli stessi ideali che tanto l’avevano portato lontano.
Aveva infatti l’innata capacità di mettersi contro l’energumeno più grosso e con meno cervello disponibile sul campo, finendo inevitabilmente pestato. Si difendeva, faceva davvero il possibile per riuscirci, eppure più e più volte senza l’aiuto di Bucky avrebbe solamente finito con il ritrovarsi all’ospedale.
Non che non gli fosse successo, di finire in ospedale, semplicemente gli interventi di Bucky avevano ridotto drasticamente il numero di ricoveri.
Poi gli ormoni e la pubertà avevano fatto il loro corso e Steve si era irrobustito.
Con una buona dose di palestra era anche arrivato ad avere quella forma fisica che molti dicevano di invidiare e ad avere un posto di lavoro dove riusciva a sfruttarla a pieno.
Occuparsi di Bucky era l’unico modo che Steve aveva per ricambiare il favore.
Bucky aveva cominciato a fare il tatuatore a New York dopo un pessimo periodo trascorso lontano dall’America con la famiglia. I suoi parenti avevano trovato la fortuna in Russia o qualcosa del genere, Steve ne sapeva davvero poco, e Bucky li aveva seguiti perché suo padre sperava di renderlo il perfetto successore alla gestione dell’azienda di famiglia.
Peccato che Bucky fosse accomunato a Steve dalla testardaggine, ed era bastato appena qualche mese perché salutasse tutti e lo raggiungesse a New York.
Le disgrazie non si erano ancora decise a finire, però: c’era stato un incidente e Bucky aveva perso il braccio sinistro.
Tutte le volte che Steve non riusciva a sopportare Tony, il suo amico snob, miliardario e antipatico, si ricordava di quello che aveva fatto per Bucky e si diceva di poter lasciar correre qualsiasi sciocchezza perché aveva un debito, con lui e anche con Bruce, che di sicuro non sarebbe riuscito a saldare tanto facilmente.
Conoscere qualcuno che può progettare un braccio bionico sofisticatissimo era stata per lui una fortuna. Se poi tra gli amici poteva contare anche un laureato in troppe branche differenti della medicina che si era offerto di collaborare spontaneamente, allora si trattava di miracolo.
Probabilmente se avesse avuto bisogno di qualcosa di più banale non l’avrebbe potuto ottenere con la stessa facilità.
Così adesso lui era felice, Bucky aveva il suo braccio e lavorava come se nulla fosse, anche se tutte le sfortune passate l’avevano segnato irreparabilmente: era sempre lo stesso, ma un po’ diverso; il solito Bucky che quando esce è cortese e affabile con tutti, quello che si mette in ridicolo pur di farti ridere quando sei giù di corda, ma un po’ più cupo.
Forse la situazione non era così grave come Steve credeva, ma sapeva essere più apprensivo del necessario e questa sua pecca lo spingeva a rendere quelle visite frequenti delle azioni di monitoraggio.
Inizialmente aveva pensato di far andare Bucky in terapia, però si era detto di non volerlo costringere. Quando si era sentito dire dal diretto interessato che non si doveva preoccupare, perché fortunatamente era destrimano e quel braccio bionico lo faceva sentire un po’ Terminator, Steve si era convinto che Bucky minimizzasse il problema e l’aveva portato da uno psicologo di peso.
Di sicuro era Steve ad esagerare, e ora che un nuovo ciclo di sedute non c’era perché ogni problema o disagio di Bucky era stato scongiurato, si sentiva in dovere di essere lui a fargli da analista.
Anche se lasciava un tantino a desiderare.
« Mi fa piacere che sia tutto a posto, allora. »
Avrebbe dovuto prendere delle lezioni di teatro, o leggere quantomeno il manuale “Omissione perfetta” che la sua amica Natasha gli aveva regalato per Natale, dato che non riusciva a non essere trasparente.
« Sai che se vuoi solamente sapere come sto basta che mi mandi un messaggio, o che tu mi scriva per telefono, vero? »
Steve si era sempre illuso che tra lui e Bucky ci fosse qualcosa come un tacito accordo che, per essere rispettato, costringeva Bucky a non dirgli assolutamente nulla per quanto concerneva i suoi tentativi piuttosto impacciati di interessamento.
« Avevo semplicemente voglia di vederti. Non posso? »
Bucky incrociò le braccia, facendo tamburellare due dita contro una di esse. Stava sfoderando un altro dei suoi sguardi eloquenti: gli stava dicendo che capiva perfettamente le sue intenzioni, ma che gli avrebbe dato una manciata di secondi per ritrattare la propria versione dei fatti in modo da non costringerlo a parlare oltre per smontarlo completamente.
Però Steve era troppo ostinato, anche perché comunque non aveva detto nulla di effettivamente falso: aveva sempre voglia di vedere Bucky.
« Non guardarmi così, è la verità! »
« Ti saresti potuto salvare dicendomi che eri passato a prendermi per… che ne so, andarci a bere una birra da qualche parte. Prendilo come un consiglio. »
Era una loro vecchia usanza staccare dal lavoro e andarsi a bere qualcosa insieme. Tuttavia l’avevano persa quando il ritmo delle loro routine si era fatto più incalzante. Ora la birra la bevevano a casa di uno o dell’altro, e non era da escludersi che l’entusiasmante proseguo della serata li vedesse entrambi addormentati sul divano di fronte ad un talk show poco interessante.
Steve si sentiva così terribilmente vecchio, pensandoci.
« Possiamo farlo domani, oggi sono fuori con la compagnia », disse Steve, mortificato.
Uscire con il suo gruppo di amici era una cosa che gli piaceva, perché gli permetteva di lasciarsi alle spalle le preoccupazioni della giornata. Certo, a meno che Tony e Natasha non cominciassero a lanciarsi un quantitativo esorbitante di frecciatine. O che Tony non le lanciasse direttamente a lui, o a Clint, o a Bruce. E perché si era scordato di menzionare Thor?
Anche Bucky era andato con lui, alcune volte. Non perché vigesse la regola del “Se sei amico di Steve allora sei anche nostro amico”, anzi, al contrario: la compagnia era piuttosto chiusa e sembrava quasi di essere i membri elitari di un qualche club di golf per quanto erano restrittivi.
Tuttavia i trascorsi di Bucky l’avevano spinto ad essere accolto più che bene da tutti quanti; persino Natasha aveva cominciato a scherzarci relativamente in fretta, abbattendo quel muro di diffidenza che si portava sempre dietro.
« Devo essere geloso? » gli chiese Bucky, uscendo da dietro il bancone.
Steve si accorse dalla sua espressione che scherzava e solo allora sorrise; non che non avesse senso dell’umorismo, semplicemente tendeva a prendere le cose con una serietà talvolta esagerata.
« No, non credo. »
Appena Bucky gli fu abbastanza vicino si sporse e gli diede un rapido bacio sulle labbra.
Ecco, se c’era una ragione per cui Bucky aveva smesso di frequentare troppo spesso la sua stessa compagnia era indubbiamente quella: occasionalmente si baciavano, occasionalmente si scambiavano parole dolci e occasionalmente il mondo avrebbe potuto capire che tra Steve e “il suo migliore amico” Bucky – come lo definiva lui stesso – non ci fosse affatto solo amicizia.
Forse solo un certo ragazzone biondo di nome Thor avrebbe evitato di accorgersene, ma non era una possibilità poi così scontata.
Nessuno dei due si vergognava della loro relazione e anzi, alle volte Steve fremeva, tanto avrebbe voluto gridarlo ai quattro venti. Ma avevano preferito essere cauti e per quanto a Steve dispiacesse avere dei segreti con degli amici tanto importanti come i suoi, si rendeva conto che ne andava della propria sopravvivenza: lo avrebbero perseguitato con domande e battutine. Sempre ammesso che lo accettassero.
Dopotutto anche lui aveva fatto fatica a rendersi conto di avere gusti che andavano contro ciò che gli era stato insegnato in chiesa, le innumerevoli domeniche mattina che aveva speso così volontariamente, senza essere di certo trascinato lì da sua madre.
E poi bastava che lo sapessero lui e Bucky: dopotutto è in due che si fa una relazione, di solito e Steve non intendeva fare di loro l’eccezione che conferma la regola.
« Avanti, ora va a casa a prepararti, o farai tardi e dovrai dare troppe spiegazioni. »
Bucky l’aveva fatto preoccupare una volta, con quella frase, e ora si divertiva a reiterarla.
Anzi, si divertiva senza ombra di dubbio a scegliere le parole più giuste per farlo agitare: tra i due era Steve quello che sapeva affrontare con meno disinvoltura alcune situazioni. Dopotutto era stato lui ad avere manie di persecuzione quando, innocentemente, Clint gli aveva detto che non c’era nulla di male ad ammettere che un altro uomo potesse essere bello; nella lingua di Steve significava che l’aveva scoperto e così per le tre settimane successive non aveva fatto altro guardarlo con circospezione, prima di rendersi conto che Clint non aveva insinuato assolutamente nulla.
Perché sì, Steve Rogers era un uomo dai forti ideali, tra cui quello di uguaglianza, ma il fragile ragazzino di Brooklyn che ancora viveva dentro di lui non era pronto ad affrontare dei giudizi negativi da parte di qualcuno a cui teneva.
 
***
 
Steve diceva forse un po’ troppo spesso a sé stesso che uscire con la compagnia lo divertiva: alla lunga quelle parole si impregnavano di un sapore quasi falso, perché alle volte anche lui riusciva a vedere quanto tutti insieme sembrassero un’accozzaglia singolare.
E giusto per provare quanto fosse capace di interrogarsi circa il giudizio altrui, quando riuscivano ad uscire tutti insieme aveva la sensazione che la gente si chiedesse perché lo facessero.
Non c’era niente, non una sola cosa capace di accomunarli tutti: gli interessi erano disparati e nemmeno i caratteri erano poi così in sintonia; il più delle volte alcuni di loro bisticciavano, e quelli che non spendevano il proprio tempo sorridendo divertiti dagli innovativi insulti – quella, anzi, perché si trattava solo di Natasha –, si occupavano di calmare le acque.
Natasha era il Jolly, il ruolo in più. Spiegazione poco esaustiva, ma d’altro canto lusinghevole.
Una volta unica donna della compagnia, ora declassata semplicemente a prima donna del gruppo. Perché sì, alle volte insieme a loro usciva anche la fidanzata del fortunato di turno, ma non si trattava di una prassi poi così frequente.
Natasha era quella che punzecchiava un po’ tutti, quella che gettava il sassolino e ritraeva la mano in tempo per gustarsi un piccolo litigio tra due persone che, magari, fino a quel momento della serata non si erano nemmeno parlate.
Di solito quel trucchetto funzionava bene con lui e Tony, perché litigare con Tony era sempre una buona idea per sfogare le frustrazioni della vita quotidiana.
Poi c’erano Clint e Bruce, gli assi. E visto che di solito si parla di assi nella manica, era anche abbastanza conveniente che fossero in due: uno per ognuna.
O, traducendo, uno per tenere lui e uno per tenere Tony.
Bruce era il classico tipo di uomo che viene notato, senza usare mezzi termini, troppo o troppo poco.
Troppo quando la gente si accorgeva di lui dopo aver osservato il resto della combriccola: ci si chiedeva cosa ci facesse lì in mezzo, in compagnia di quelli che non sembravano tanto dei pazzi, quanto piuttosto degli eccentrici. Perciò, per contrasto, la figura calma e pacata di Bruce emergeva.
Il troppo poco, invece, subentrava perché era un uomo perfettamente nella media, o quasi: alle volte pareva addirittura un po’ troppo minuto e un po’ troppo insignificante.
Ciò che nessuno sapeva, però, era che Bruce si era guadagnato una cintura nera di karate e vantava un temperamento imprevedibile. Sapeva sembrare tranquillo pur non essendolo, insomma.
E trovarsi accanto ad una cintura nera di karate non palesemente arrabbiata è una trappola, perché non hai il tempo di scappare quando le briglie della meditazione, dello yoga e del valium cedono.
Allora sì che notarlo da subito diventava importante.
Clint invece era una persona molto riservata. Quel tipo di persona con cui ti senti in confidenza, ma di cui poi ti rendi conto di sapere poco e nulla.
Non amava vantarsi eccessivamente dei propri successi – poi dipendeva da quali –, parlava poco della vita privata e, anche per questo, non si capiva mai se avesse o non avesse una ragazza. O se questa fosse Natasha. O se non lo fosse.
Fatto stava che, nel frattempo, spiccava per la quasi costante presenza di lei e per la propria ostinatezza nel mostrare i bicipiti scolpiti indossando canottiere. E poco voleva dire che ci fossero persone, in quel gruppo, con più muscoli di lui: non si usciva mai da un locale senza che almeno una ragazza gli avesse chiesto il numero.
Spesso Tony lo prendeva in giro dicendogli che voleva compensare la propria altezza mostrando i muscoli, e Clint ribatteva ogni volta dicendo che rimediava a quel difetto in altro modo.
Thor era la carta bianca del mazzo. Quella che viene inserita, insieme a qualche altra uguale, per disegnarci sopra il simbolo di una carta che magari hai perso.
Decisamente poco gentile come paragone, ma migliore di quello che lo vede come una carta qualsiasi: una carta senza stampa è una carta versatile.
Peccato che Thor non lo fosse poi così tanto.
Era il belloccio della compagnia: biondo, muscoloso, quello che ti aspetti di veder correre sulla spiaggia con una tavola da surf sotto braccio. E, come amava dire Tony: “Si sa, quando i muscoli son troppi…”
Alle volte però veniva il dubbio che fosse solo troppo buono e non senza cervello.
Vittima fin da piccolo di un nome imbarazzante e patetico – per colpa di una fissa di suo padre –, Thor aveva sempre vissuto in compagnia di un fratello adottato, a cui con il nome non era andata poi tanto meglio.
Crescere accanto ad uno dei bagnini di Baywatch doveva essere stata la causa della maggior parte dei complessi del fratello di Thor, dell’isteria che si portava dietro e anche di una buona dose di domande circa non l’avere con lui alcun legame di parentela.
Scoprire che era stato effettivamente adottato doveva averlo consolato almeno un po’: non era colpa sua se non aveva ereditato il gene della perfezione corporea.
Ad ogni modo, Thor sapeva sempre trovare la cosa meno adatta da dire in ogni momento. Brutto difetto, sì, ma almeno alle volte serviva per alleggerire l’atmosfera.
L’ultimo componente della compagnia, non meno importante, ma più antipatico, era Tony Stark, necessariamente da nominare con nome e cognome, per esprimere tutto ciò che di lui c’è da sapere.
Tony non era la carta di un mazzo normale – se solo avesse saputo di essere paragonato ad una carta da gioco, apriti cielo! –: era la carta di un mazzo di carte da “Uno”.
Tony era la carta Più Quattro, quella con cui martori il malcapitato dopo di te e che ti permette di scegliere un nuovo colore. Magari quello che il giocatore successivo non ha in mano e non è riuscito a pescare per colpa del tuo supplizio, se hai fortuna.
Ma Tony era ancora di più. Era la carta Più quattro, quando sei baciato dalla dea bendata e riesci ad indovinare il colore che il martire successivo non ha in mano e non ha pescato, magari proprio mentre ha solo una carta in mano e sta per chiudere la partita.
La carta più bastarda mai inventata, insomma.
Se Tony fosse stata donna, molto probabilmente avrebbe girato con la pelliccia e un chihuahua – o un barboncino, è indifferente – nella borsetta. Essendo uomo invece, si divertiva a comprare i modelli più recenti di qualsiasi aggeggio elettronico, anche quello che meno gli serviva, solo per criticarlo fino alla morte.
Dopo di che si chiudeva in sé stesso progettando e inventando fino a creare qualcosa che sul mercato non aveva eguali, rimpolpando così i già straripanti conti bancari ereditati dal padre.
Et voilà, ecco Tony Stark e la Stark Industries.
E poi c’era lui, che nemmeno si era contato. Descriversi da soli è un po’ scorretto, considerando che si finisce sempre con l’essere poco obbiettivi sia nel bene che nel male.
Fortunatamente Steve Rogers era stato graziato con lo splendido dono dell’umiltà e non si sarebbe di sicuro attribuito un ruolo altisonante come alcuni di quelli che aveva già assegnato.
No, lui si immaginava più simile ad una di quelle carte come i fanti o i re in uno di quei giochi in cui il loro ruolo è secondario; suggeriscono grandi cose, ma alla fine sono più comuni di quanto ci si aspetti.
Se un uomo fosse stato bendato e costretto a pescare sei nomi per formare un’altra compagnia, non sarebbe stato capace di fare un lavoro peggiore di quello che loro avevano fatto consapevolmente.
   
 
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