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Autore: hikachu    18/09/2015    3 recensioni
Resoconto dei trentuno giorni che sconvolsero la vita di Usagi Tsukino, strappandola alla sua ordinaria vita da ordinaria liceale. Oppure: di come le favole siano solo sogni ad occhi aperti, e i mostri spesso si travestano da principi.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demando/Diamond, Seiya, Un po' tutti, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo IV



6/8/1992, ore 9:07



Un soffitto sconosciuto accoglie Koan al suo risveglio. Ha la testa pesante, imbottita di segatura che le appesantisce i pensieri, diluisce i ricordi, spezza ogni filo logico prima che lei possa cercare di seguirlo. Koan cerca di guardarsi intorno: riesce a piegare appena il collo, la guancia tocca al superficie fresca di un cuscino pulito, ma il corpo non la segue, ne ha perso il controllo come se fosse ubriaca. La tempia sinistra pulsa dolorosamente. Koan arriccia il naso e digrigna i denti. Quando riapre gli occhi, nota il tatami giallino e la porta di carta di riso, chiusa, e ricorda di trovarsi ancora in Giappone; miglia e miglia ed un oceano intero tra questa terra ostile e casa, Parigi. Questa non è la sua stanza d'albergo, qualcuno l'ha raccolta chissà dove per poi stenderla come una bambola inerme su questo barbaro materassino: l'austerità del futon non ha nulla a che vedere con gli alti materassi e ai cuscini di piuma d'oca a cui è abituata; Koan si sente a disagio, scomoda, indispettita, non le riesce, tuttavia, di provare alcuna sensazione d'allarme o pericolo; i suoi pensieri sono ancora troppo rarefatti.

Un alto bicchiere di ceramica, artificiosamente lavorato in modo da apparire grezzo, essenziale e spartano come la tipica mobilia nipponica, è stato posato accanto a lei, ad una distanza sufficiente perché non lo ribaltasse accidentalmente, muovendosi nel sonno o alzandosi di colpo, ma comunque abbastanza vicino da essere raggiungibile senza difficoltà da quella posizione supina. I polpastrelli di Koan ne sfiorano la consistenza liscia, laccata dallo smalto che si pone sul biscotto dopo la colorazione, e la condensa che cola in goccioline minute dalle scanalature del bicchiere produce piacevoli brividi che le attraversano il braccio in una frazione di secondo, prima di propagarsi per tutto il suo sistema nervoso: improvvisamente, Koan si rende conto di avere la gola riarsa e le labbra screpolate per la secchezza. La fresca bevanda contenuta nel bicchiere le sembra la cosa più deliziosa che si possa ingollare, sebbene non sappia neppure di cosa si tratti di preciso. È proprio questo che la trattiene dall'afferrare il bicchiere e mandarne giù i contenuti con avidità: deve essere attenta, molto attenta, a ciò che introduce nel suo corpo.

La porta di carta scivola, sovrapponendosi ad un altro pannello, svelando la figura inginocchiata di una una giovane in abiti rossi e bianchi che Koan non ha mai visto, ma suppone appartenere a qualche tradizione autoctona. Senza proferire parola, la ragazza fa scivolare un vassoio di alluminio sul tatami. I suoi movimenti sono talmente fluidi e precisi che pare, piuttosto, che stia spingendo una barchetta di carta in acqua. Un'abbondante manciata di quelli che sembrano biscotti secchi è stata disposta graziosamente su un largo piatto dipinto a mano, a sua volta posto sul vassoio. Solo a quel punto, la ragazza sposta la sua attenzione su Koan e le offre un sorriso amichevole ma composto. È bella ed elegante senza essere appariscente. Koan ne studia per un attimo i polsi sottili che emergono, a tratti, dalle ampie maniche bianche: divora la sporgenza delle ossa delicate e i guizzi delle vene azzurrine quando questo o quel dito si piega, e prova invidia. È invasa da un fuoco amaro che le risveglia di colpo i sensi.

“Ben svegliata. Come ti senti?” Koan non è fluente in giapponese come sua sorella Berthier, è in grado, tuttavia, di catturare l'inflessione fine e tipicamente femminile del linguaggio dell'altra che, sempre di più, le sembra una musa evanescente, discesa sulla terra, in quel maledetto paese e quella maledetta città al solo scopo di rammentarle le proprie inadeguatezze. “Non spaventarti: ti ho trovata priva di sensi ai piedi delle scale del tempio e ti ho portata qui con l'aiuto di un allievo. Soffri di pressione bassa?”

Prima di annuire, Koan assume un'espressione guardinga e gelida. Pressione bassa, bacino largo e grasso che va a depositarsi immediatamente sulle sue cosce e mille altre cose orribili: il suo corpo è difettoso, inutile, maledetto; per questo, deve lavorare sodo. La consapevolezza di un simile destino la mette costantemente di cattivo umore, la angoscia e le procura ansia, come se si trovasse a penzolare su un baratro immenso che la vuole inghiottire.

La ragazza giapponese si porta una mano sul cuore e sillaba, “Io sono Rei, una sacerdotessa di questo tempio. Prima di tornare a casa, dovresti rifocillarti o crollerai di nuovo: questa stagione è dura per chi soffre di pressione bassa, lo so bene anche io.”

Koan digrigna i denti: no, tu non sai nulla.

“Qual è il tuo nome?”

Per tutta risposta, Koan si volta dall'altra parte con uno sbuffo. Non è qui per stringere amicizia, né tanto meno per volontà propria. Quello che non ha preso in considerazione, o che, comunque, non può sospettare, è che, a scapito del suo aspetto, Rei è ben lontana dall'essere una qualche eterea creatura. Rei è una regina dei ghiacci ed un demone che sputa fuoco a un tempo. Rei è forte e indipendente e per questo non riesce a tollerare l'amaro spettacolo di altre ragazze che si lasciano consumare da una società che le vuole sempre più piccole, sempre più diafane, quasi trasparenti, sempre meno ingombranti, pronte a svanire quando non la loro presenza non aggrada, e a materializzarsi, su richiesta, secondo precisi schemi estetici decisi da uomini che le vogliono divorare. Rei ha notato la maniera in cui le ossa delle ginocchia di Koan sporgono sotto il tessuto dei leggings viola scuro, l'una verso l'altra, creando una specie di X; si è accorta che, oltre al trucco, sono le guance scavate che rendono i suoi zigomi affilati come quelli di una modella su una rivista patinata. Rei non pensa che simili cose siano colpa di questa Koan o di tutte le altre del mondo, non oserebbe mai, tuttavia, è ben cosciente che, in questa realtà, nessuno può salvare un'altra persona, se questa non decide prima di salvare se stessa.

Con un tono fermo e una voce potente, enuncia: “È buona educazione presentarsi, soprattutto quando chi ti sta davanti ti ha già rivelato il suo nome.” Presa alla sprovvista, Koan sobbalza e balbetta, d'istinto, il proprio nome. L'espressione di Rei si ammorbidisce. “Vedi? Non era poi così difficile. Ora, per piacere, bevi il tè e mangia almeno un biscotto.”

Da quel momenti in poi, Koan è smarrita. Fatica a riconoscersi. C'è uno scarto, tra ciò che il suo cervello le dice di fare e quel che il suo corpo fa, che non riesce a colmare. Ha la mente leggera mentre prende finalmente la tazza tra le mani, e sospira di sollievo assaporandone la freschezza, prima con i palmi a contatto con la ceramica, e poi sulla lingua, nella gola e giù nello stomaco. C'è una strana pace, nell'aria, un calore diverso da quello estivo che sa di nostalgia. Le immagini sbiadite dei giochi con le sue sorelle, bambine, le offuscano la vista per un istante, e lei le ricaccia indietro scuotendo la testa.

Rei la osserva che si irrigidisce dopo quella prima sorsata spontanea, intenta a scrutare il resto dei contenuti della tazza con sospetto. “Non è zuccherato,” mente, perché, checché ne pensi, in questo momento, Koan ne ha un forte bisogno, imprescindibile. Indossa abiti all'ultimo grido, del tipo che Minako indica spesso con aria sognante alle amiche, mentre sfoglia riviste dedicate a quel genere di abiti che si indossano in una serata spesa in una qualche live house a seguire la band indie del momento, oppure, nel fine settimana ad Harajuku. A ripensare a Minako, Rei sorride, prova ad immaginarla che incontra Koan e la travolge con il suo spirito espansivo e la sua curiosità senza ritegno; pensa che, in fondo, c'è qualcosa che le accomuna, ma, quasi immediatamente, quest'idea le provoca una fitta al cuore, per un motivo che non riesce ancora a decifrare con chiarezza.

Quando alza lo sguardo, Koan la sta fissando con insistenza. Ha posato in terra il bicchiere di ceramica. Ciò che resta del tè sfavilla sotto la luce del mattino che sta gradualmente inondando la stanza. Un biscotto, riposto nuovamente sul piatto assieme agli altri, è stato fatto a pezzi con le dita; ne manca appena un terzo. In quel momento, Rei capisce che Koan non toccherà altro. I suoi occhi sono tornati diffidenti, la linea della sua bocca piccola e piena è dura e seccata. “Voglio un taxi. Devo andare al lavoro,” proclama con un'impostazione che non ammette repliche e cancella ogni traccia di esitazione nella pronuncia causata dal pesante accento francese. Rei si sente sfiancata e sconfitta, come se, in qualche modo, le decisioni di questa ragazza fossero una sua responsabilità; come se, fallendo con lei, avesse tradito anche l'amicizia di Minako.

“Molto bene,” sospira soltanto, poi si alza per raggiungere l'ingresso, dove è situato l'unico telefono di casa oltre al cordless nella sua stanza.

Rei è una ragazza molto forte e razionale, ma, sempre di più, sente che l'inizio dell'estate ha portato con sé uno strano veleno che sta pian piano cambiando il suo mondo e le persone che ama di più. Sente che sta andando tutto storto e, sempre di più, ha paura di non essere in grado di aiutare nessuno.

 

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Ore 15:30


C'è elettricità nell'aria, un odore di ozono misto ad un vago sentore d'umido: è la promessa che pioverà, la premonizione di una tregua dalla canicola estiva tanto dovuta quanto inaspettata e, per questo, forse non tanto gradita a coloro che hanno tolto da borse e valigette ombrelli pieghevoli ed altre contromisure d'emergenza da un bel po'. Usagi percorre la via di casa a passo svelto. Di tanto in tanto, a denti stretti, alza lo sguardo verso il cielo con un certo timore; poi riprende a camminare con più rapidità. Le riesce facile, dopo anni di marachelle e brutti voti, figurarsi la sfuriata di Ikuko qualora dovesse presentarsi a casa con gli abiti fradici: conosce sua madre e sa che farle presente le lampanti mancanze delle previsioni meteorologiche non la salverà, non davanti allo spauracchio dei pavimenti, tirati a lucido il giorno prima appena, inzaccherati da fanghiglia e acqua piovana.

Le strade che serpeggiano tra le costruzioni del quartiere residenziale sono deserte. Dalle villette disseminate lungo la via, non si sentono provenire né le solite discussioni delle coppie sposate che vi risiedono, né le risate o i pianti dei loro bambini. Ovunque regna un silenzio pesante ed innaturale. Questa è una dimensione parallela, la pellicola di una città fantasma che si è misteriosamente sovrapposta alla realtà familiare di ogni giorno. Usagi rabbrividisce. Conosce queste strade come il palmo della sua mano, eppure, si sente sperduta. Svolta l'angolo, immettendosi nella via che dà sul parco giochi, con le ginocchia rigide: si è accorta che stava velocizzando ulteriormente il passo per la tensione e si è vergognata di se stessa. Sotto il cielo coperto, il giallo vivace dello scivolo a forma di elefante che troneggia incontrastato tra le altre giostrine appare sbiadito, scolorito, vecchio: un relitto inquietante. Usagi mormora, mammina; il cuore le batte forte, lei deve tornare a casa prima che esploda, quel cuore di coniglio – c'aveva visto giusto, Ikuko, quando le aveva assegnato quel nome bizzarro –  allora che corra, corra a perdifiato, lei che nelle prove di educazione fisica arriva sempre ultima, dopotutto, si racconta, la disperazione rende il corpo umano capace di miracoli. Dunque, Usagi stringe i pugni e strizza gli occhi, serra le palpebre così forte che fanno male, incrocia mentalmente le dita augurandosi che in quella cieca corsa non le si pari nessuno – persona o, peggio, fantasma che sia – davanti, e si getta in avanti come un cavallo imbizzarrito, o, forse, sarebbe più preciso dire come un ippopotamo impazzito, se si considera l'assoluta mancanza di grazia che ha sempre caratterizzato ogni movimento di Usagi (impossibile dimenticare i disperati – quanto vani – tentativi di Ikuko di correggere quel difetto, nell'infanzia, tramite il peso delle pile di libri dalle copertine dure, che fanno male, poste in bilico sulla testolina di Usagi mentre le diceva con un sorriso forzato, su, vieni da mamma, ce la puoi fare!) ma poi c'è un rumore.

Il rumore è un lamento, o qualcosa di simile, che le fa rizzare i capelli più corti sulla nuca e le congela il cuore per un lungo istante: quando riprende, batte più forte di prima, così forte che rimbomba in gola, dolorosamente. Il rumore proviene dal parco giochi. Potrebbe essere un gatto, probabilmente un cucciolo separato dalla madre che piange perché non sa come ritrovarla o procurarsi del cibo da solo, una circostanza che Usagi non sarebbe mai in grado di ignorare, nonostante il timore che si tratti della trappola di uno spettro rimanga lì, strascico di ogni altro pensiero o ipotesi: è una fifona per indole e natura ma, soprattutto, è l'aspetto surreale che questo spaccato di mondo, così familiare, ha assunto; in questa dimensione irriconoscibile e parallela, tutto sembra possibile. 

La spessa coltre dei nembi si squarcia e si richiude immediatamente: un lampo rischiara i colori cupi dell'ambiente circostante ed un potente tuono lo segue a ruota. La pioggia prende a cadere senza alcun altro preavviso, fitta e pesante: una secchiata d'acqua gelida sulla nuca e le spalle di Usagi che fa male come uno schiaffo. “Ahi,” si lamenta. Il miagolio riprende. Usagi scuote la testa. Accantona ogni idea di cercare in fretta un qualsiasi riparo di fortuna per incamminarsi, invece, verso il parco giochi. Il rumore proviene da uno dei tunnel di legno in cui, nelle giornate di sole, i bimbi del vicinato si divertono a gattonare. Quando li raggiunge, Usagi ha la punta delle dita intorpidite. Ci siamo, pensa. Fa' che non sia un fantasma, fa' che non sia un fantasma, prega con il cuore che le martella nelle orecchie mentre si china con cautela davanti all'ingresso del tunnel dipinto di rosso ciliegia.

“Chibi.”

Vi è, effettivamente, un gatto, nascosto nel tunnel. Nero, col viso tondo, ed una strana macchia sulla fronte. Tuttavia, intorno al gatto, è raggomitolata una bambina. Una creaturina vera, in carne ed ossa, con tanto di scarpine di vernice lucida e calzini bordati di pizzo, come una bambola d'altri tempi. Non è uno spettro ed ha molta paura: ha gli occhi colmi di lacrime, il volto – affatto familiare – impiastricciato, la bocca spalancata. Squadra Usagi con i suoi occhioni nel tentativo di decidere se fidarsi o meno.

“Piccola, dov'è la tua mamma?”

“Chibi.”

“Non... Non sei di queste parti, vero?”

“Chibi.”

Usagi sbatte le palpebre. I capelli, fradici, si attaccano alla fronte, si intrecciano alle ciglia, facendole pizzicare gli occhi. Forse, la bambina è più piccola di quanto sembri, o forse lo shock per il temporale o per essersi perduta le impedisce di parlare correttamente, ma, quale che sia la verità, non può certo abbandonarla in questo posto. Usagi si accovaccia; cerca di tirare fuori il sorriso più rassicurante di cui è capace, anche se ha freddo e gli abiti sottili non la proteggono dalle sferzate della pioggia.

“Vuoi venire con me? Ti porto in un posto molto bello, dove fanno dei parfait buonissimi, giuro. I miei amici lì ci aiuteranno a trovare la tua mamma. Che ne dici?”

Senza lasciar andare il gatto o proferire parola, la bimba si getta tra le braccia di Usagi, sotto la pioggia.

 

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Ore 15:57


La sala da tè del Crown è semideserta. Il maltempo non fa bene agli affari, specie se le precipitazioni improvvise scoppiano quando la cittadinanza è sparpagliata tra uffici vari per il turno pomeridiano o a casa a smaltire il pranzo in attesa che le ore più calde del giorno passino: non vi è quasi nessuno, in strada, che necessiti di un rifugio, né coloro che si trovano già tra quattro mura avranno un qualsivoglia incentivo ad abbandonarle. Motoki si muove con maestria tra i tavolini rotondi disseminati in sala; trasporta il vassoio d'alluminio con una tale nonchalance che lo si direbbe un'estensione del suo braccio. Con un sorriso cordiale, appoggia due tazze fumanti davanti alle sue uniche ospiti in questo pomeriggio piovoso.

Usagi, avvolta in una delle uniformi di riserva per le cameriere, smette di strofinare con un asciugamano i capelli della bambina, ora decisamente più calma e a sua volta avviluppata in abiti asciutti, ma troppo grandi per lei, per voltarsi verso di lui. “Grazie mille, per la cioccolata ed i vestiti. Oh, e il latte.” A terra, anche il gatto che aveva tenuto compagnia alla trovatella, sta per l'appunto gustandosi un piattino di latte, diluito a dovere.

“Figurati.” L'ennesimo tuono porta lo sguardo di Motoki automaticamente alla vetrata del negozio. “Non mi aspettavo che quest'anno avrei preparato della cioccolata calda in piena estate. È stata una fortuna che foste nelle vicinanze, ma spero comunque che non vi buschiate un raffreddore.”

“Eh già, sarebbe una bella tragedia,” sentenzia Usagi, un secondo prima di starnutire.

“Accidenti. Salute.”

Per tutta risposta, Usagi tira fuori una manciata di tovagliolini dal dispenser e si soffia poderosamente il naso. Motoki, che è un animo buono, non commenta su quell'infrazione dell'etichetta. “Forse, l'idea migliore sarebbe di attendere che spiova per portare la bimba alla sede della polizia più vicina e lasciare loro le ricerche.”

“Forse hai ragione, Motoki-oniichan, ma non vorrei lasciarla sola. Poverina, se l'avessi vista al parco: era così spaventata.”

“Ci credo: trovarsi da sola nel bel mezzo di un temporale, così piccola, dev'essere stato tremendo. Resta però il fatto che la bimba non sembra in grado di dirci nulla e la polizia è l'unica che saprebbe da dove cominciare una ricerca come si deve.” Come al solito, Motoki, che ha la stessa età di Mamoru, si rivela la voce della saggezza e del buonsenso. Cercando un compromesso che le metta il cuore in pace, Usagi si ripromette di accompagnare la bambina alla stazione di polizia e di non muoversi da lì prima che la sua famiglia venga a prenderla. D'altra parte, i suoi genitori saranno senza dubbio molto preoccupati; vorranno delle risposte, delle spiegazioni. Annuendo felice, Usagi solleva la tazza per ingollare il primo sorso di quella cioccolata fuori stagione. La bimba la imita con una certa soddisfazione; forse, ripetere i gesti di Usagi la fa sentire grande. Almeno, Ami direbbe qualcosa di simile.

“Dov'è Chibi-Chibi?”

Una terza voce rompe la quiete pacifica di quel frangente. La segue il rumore della porta d'ingresso che sbatte nel chiudersi. Il campanellino fissato all'arcata si agita con veemenza, producendo una cacofonia che riempie d'ansia Usagi. Motoki si volta all'istante. “Posso aiutarti?” Dal suo tono, Usagi capisce che è irritato, anche se sta cercando di parlare con la solita gentilezza che riserva ai clienti. Non che questo maleducato se la meriti, pensa. Gestire un bar è un lavoro duro che richiede pazienza.

“Sto cercando una bambina. Ho chiesto in giro e alcuni negozianti mi hanno detto di aver visto una ragazza correre qui con—Ehi! Ma tu sei quella del cercapersone!”

Usagi sgrana gli occhi: davanti a lei c'è il tipo irritante dell'altro giorno, il fratello del principe-delinquente con gli occhiali da aviatore e, se possibile, un atteggiamento ancora più riprovevole. Seiya. Ha l'aria allarmata e stringe un ombrello grondante che non si è curato di lasciare all'ingresso, nell'apposito cestino, come se fosse una spada. Usagi ne studia per bene il viso, cerca tracce che rivelino un'età maggiore di quella che aveva indovinato in precedenza, ma, “No, non puoi essere suo padre!” sputa parandosi davanti alla bambina, sospettosa. L'esclamazione coglie tutti di sorpresa, e non ci vuole molto prima che questa si trasformi in risa: persino Motoki è piegato in due, proprio lui che dovrebbe essere dalla sua parte, eppure, la tensione si è spezzata, spazzando via anche l'ansia che aveva pervaso Usagi poco prima. Le sfugge addirittura un sorriso.

Qualche minuto dopo, sono tutti seduti attorno allo stesso tavolino, avvolti dal profumo di caffè e cioccolata appena fatti che esala dalle tazze. La bimba – Chibi-Chibi – ha cominciato a fare le feste a Seiya, non appena compresa l'identità del nuovo arrivato, pretendendo di salirgli in grembo quando si è seduto, e lì si è assopita dopo aver fatto fuori i contenuti della sua tazza che, rifiutando di prendere tra le proprie manine perché improvvisamente troppo calda, Seiya le ha portato alla bocca per ogni sorso. Una dinamica tanto precisa da odorare di tenera abitudine. Usagi, notevolmente ammorbidita dalla scena, avverte una sorta di tenerezza mista ad invidia davanti a quel tipo di rapporto. Prova ad immaginare Mamoru nei panni di Seiya, ed una creatura dal volto ed il sesso sfocati sulle sue gambe, ma, per qualche ragione, quell'immagine dai contorni sfumati le provoca una morsa allo stomaco, simile a quella che l'attanaglia quando ripensa ai dépliant nel cassetto della scrivania. Allora, scuote la testa, cercando di scacciare quel doloroso sogno ad occhi aperti dalla mente. Ritorna al presente, si dice, tu sei qui, al Crown, a Tokyo, e Mamoru è a miglia e miglia di distanza. C'è tempo per il futuro.

“Mi spiace per l'ingresso brusco di prima, ma ero fuori di me per la preoccupazione.” Seiya china il capo verso Motoki in un gesto non troppo formale ma sinceramente contrito. È strano, poiché, in fondo, Usagi non può dire di conoscerlo, eppure la prima cosa che pensa è che quel modo di fare gli si addice: privo di fronzoli ma onesto, e non privo di empatia.

“Figurati, Seiya-kun, posso immaginare. Devi esserti preso un bello spavento.”

“Già, io e la sorella che stava badando ai bambini prima che iniziasse a piovere. È uscita per richiamarli dentro ed ha scoperto che questa monella era riuscita a svignarsela, probabilmente per inseguire quella gatta: è qualche settimana che gironzola nei giardini dell'istituto, e Chibi-Chibi le si è affezionata tantissimo.”

“Oh, così è una micina,” Usagi mormora, carezzando la pelliccia lucida della gatta che subito risponde, compiaciuta, attorcigliandosi alle sue caviglie.

Il sorriso di Seiya si allarga. “Sì. I bambini hanno preso a chiamarla Luna per via di quella macchia che ha sulla fronte. Persino le sorelle, ormai, la conoscono con quel nome. Pare che si sia affezionata molto anche a te, Usagi. Di solito, Luna è parecchio diffidente nei confronti degli estranei. Deve aver capito che sei una brava persona perché hai aiutato Chibi-Chibi.”

“Hai davvero ottimi gusti in fatto di persone, Luna,” Usagi ridacchia. “Ma, Seiya, lavori anche tu per l'istituto? Come mai sei venuto tu a cercare Chibi-Chibi?”

“Oh no, io mi... occupo di altro insieme ai miei fratelli. L'istituto è stato fondato dall'ordine religioso che attualmente lo gestisce in completa autonomia. È solo che, ecco, in passato ne siamo stati ospiti anche noi, così, di tanto in tanto, andiamo a trovare i bambini e a dare una mano alle sorelle.”

Il viso di Motoki si contorce in un'espressione d'imbarazzo. “Seiya-kun, per favore, non sentirti obbligato a rivelare cose troppo personali o dolorose, per te.”

Seiya scuote la testa, sorridendo bonariamente. “Figurati. Non c'è nulla di doloroso: le suore più anziane sono state tutte delle mamme per me, mentre trascorrere del tempo con i bambini mi fa sentire come se avessi tanti altri fratelli minori, a parte Yaten. So che l'assenza di due genitori è generalmente vista come un fatto triste, ma è mia opinione che una famiglia sia qualcosa che può formarsi a prescindere. Non ci siamo mai sentiti soli. E poi, non si tratta di un segreto anche se... vi chiederei, qualora in futuro qualcuno dovesse farvi domande su di me, di non rivelare nulla.”

Usagi e Motoki si scambiano uno sguardo interrogativo: perché mai qualcuno dovrebbe chiedere loro dei trascorsi di quello che, a tutti gli effetti, è un ragazzo come ogni altro? Forse, c'è un motivo serio, una ragione valida e forse un po' oscura che Seiya non può rivelare e che loro non osano chiedere: così, in sincronia, si affrettano a rassicurarlo che niente paura, saranno muti come pesci.

“Grazie, ragazzi. Sarebbe davvero un bel problema, se le mie fan cominciassero a speculare anche su questo.” Usagi s'imbroncia, pensando che, adesso sì, questo Seiya è proprio quello dell'altro giorno. Le mie fan. Che tipo. Tra il modo in cui si concia e il suo modo di fare, è l'immagine sputata di un host pieno di sé. Considerando la sua esitazione poco fa, non sarebbe sorprendente se lui e i suoi fratelli si occupassero proprio di questo: sedurre delle donne fondamentalmente sole con bugie bianche ed adulazioni varie per spillare loro soldi davanti ad un drink, sicuro offerto dalle loro stesse clienti. Forse leggendo l'intenzione di qualche battuta al vetriolo negli occhi di Usagi, Motoki si affretta a deviare il flusso della conversazione verso lidi più innocui.

“Ah, Seiya-kun, sbaglio o 'Chibi-Chibi' è un nomignolo? Questa piccina non fa altro che ripeterlo.”

Qualcosa, nell'espressione di Seiya, cambia: il suo sorriso non cade ma appassisce; c'è un'ombra, ora, che colora i suoi occhi, come un velo leggero che ne oscura la luce. Sarebbe facile non notare questi cambiamenti sottili, in un'atmosfera meno raccolta. Motoki intuisce che, dopotutto, nemmeno questo deve essere un argomento molto facile, ma Seiya apre bocca prima che possa rimangiarsi la domanda.

“In effetti, dici bene. A quanto ne so, è stato suo padre ad averlo coniato. Quando è arrivata in orfanotrofio, era molto piccola, ancora faticava a dire le prime parole, e presto ha cominciato a ripetere solo quel nomignolo. È come se si rifiutasse di dire altro, nonostante gli sforzi delle sorelle e degli specialisti a cui si sono rivolte. Secondo il terapeuta che la segue, è un modo per sentire i genitori ancora vicini a sé.”

“Loro sono...”

“Loro... C'è stato un brutto... incidente, in seguito al quale non possono più prendersi cura di lei.”

In qualche modo, la vaghezza di quelle parole rende Usagi certa che, a scapito della sua tipica curiosità, non può assolutamente permettersi di pretendere chiarificazioni o dettagli. La tristezza nello sguardo di Seiya, che forse rivive la propria esperienza in quella di questa bambina, e Chibi-Chibi stessa che, così piccola, deve portarsi dentro una sofferenza enorme, sono un brusco risveglio dalla realtà ovattata a cui è abituata: restare orfani, subire traumi, parlare con un terapeuta—sono tutte frasi che appartengono a fumetti drammatici e sceneggiati televisivi, indicatori di cose troppo amare e troppo brutte per accadere davvero, a lei, ma anche a persone che fanno in qualche maniera parte della sua vita, eppure, tutto questo sta accadendo davvero; le parole di Seiya sono reali, raccontano la verità personale di un essere in carne ed ossa. 

“Ah, scusate ragazzi: non volevo rattristare nessuno! Oggi è già abbastanza grigio con tutta questa pioggia,” Seiya ride. Si gratta la nuca, impacciato, più una macchietta che se stesso: vuole disperatamente diradare l'atmosfera pesante che si è creata, è chiaro. “Motoki-san, Usagi: vi sono infinitamente grato per esservi presi cura di Chibi-Chibi. Riferirò tutto alla Madre Superiora, e sono certo che vorrà ringraziarvi di persona. Però, se posso essere egoista e chiedervi ancora un favore dopo tutto quello che avete fatto, sarei felice se continuaste ad essere amici di Chibi-Chibi.”

Per la seconda volta quel pomeriggio, Usagi e Motoki si rivolgono un'occhiata interrogativa, ma, questa volta, i dubbi svaniscono in men che non si dica: puoi scommetterci!, esclamano all'unisono.

 

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7/8/1992, ore 24:02


“—insomma, si dà certe arie, ma credo sia un bravo ragazzo, in fondo in fondo. Gli ho lasciato il mio numero, così potrò rivedere la bimba e—”

“Eh?” c'è una risata, dall'altra parte. “Cos'è questa storia, Usako? Devo ingelosirmi?”

“Spiritoso. Ti ho appena detto che è un bellimbusto, per niente adulto e maturo come te, uffa. E poi, lo sai che per me ci sei solo tu, Mamo-chan!”

“Beh, non è mica roba da tutti i giorni, per una ragazza fidanzata, uscire con un altro uomo ed una bambina piccola. Sembra quasi...”

“Smet-ti-la! Lo so che mi stai prendendo in giro,” Usagi si sforza di suonare petulante, imbronciata ma non troppo come quando lei e Mamoru sono insieme e lei cerca di convincerlo a fare il bis di gelato, oppure a studiare un po' meno e coccolarsi un po' di più, eppure, quelle parole le riportano alla mente l'illusione su cui aveva fantasticato quel pomeriggio, al Crown: non saprebbe spiegarsi perché, ma la voce di Mamoru, adesso, la fa apparire ancora più lontana e dolorosa.

“Scusa, scusa. Perdonami, piccola. Lo sai che mi fido di te, non sono geloso.”

Usagi aggrotta le sopracciglia; rotola sul letto e mostra una smorfia al soffitto, decorato da dozzine di stelle fluorescenti. Sono lì da quando aveva cinque anni. Usagi pensa, ma non dice: forse, vorrei che lo fossi, appena un poco, soprattutto adesso che non posso vederti. Non lo dice, perché non sembra una cosa matura da dire. Usagi si preoccupa spesso di apparire matura agli occhi di Mamoru: vuole essere presa sul serio; teme che lui possa stancarsi dei suoi capricci, delle sue sciocchezze. Vuole essere all'altezza dell'uomo che ama. Così, inghiotte mezze frasi, dubbi e battute che crede dipingerebbero sul volto di Mamoru quell'espressione a metà tra l'imbarazzato e l'accondiscendente che fa capolino nei momenti più infantili di Usagi.

“Ad ogni modo, Usako, il mio relatore mi vuole qui, anche per agosto: c'è un progetto di ricerca che sta portando avanti con un gruppo di studenti e sta pensando di affidarmene la supervisione.”

“Oh, ma è fantastico, Mamo-chan.” Usagi inghiotte: no, non lo è affatto, ma non ho osato aspettarmi altro; non era mio diritto. “Sapevo che questi americani avrebbero riconosciuto il tuo talento.”

“Grazie, tesoro. Grazie per aver sempre creduto in me. Sono felice di questa opportunità, però, sai bene che avrei voluto trascorrere un paio di settimane lì con te, a Tokyo, così la settimana scorsa ti ho preso un regalo. Dovrebbe essere lì a giorni.”

Da brava ragazzina accecata dall'amore quale è, Usagi avverte un tuffo di gioia al suo piccolo cuoricino materialista, e subito si profonde in lodi e grazie mille e non vedo l'ora. Mamoru ride di nuovo e lei cerca di non badare a come la sua voce sembri lontana e diversa, filtrata dallo statico di una chiamata internazionale.

Riattaccano dopo dieci minuti buoni di smancerie, dopo che Mamoru ha promesso: sarà diverso per Natale, vedrai, e poco importa, stanotte, se a Natale mancano quattro mesi, perché il regalo di Mamoru arriverà presto e Usagi è stata così brava, a reggere finora, che può reggere all'infinito, contro qualsiasi nemico od ostacolo, se è per il suo amore. Canticchiando tra sé e sé un motivetto di cui non conosce il nome, balza giù dal letto e tira da parte le tende che nascondono l'ampia finestra; poi, apre le imposte per assaporare l'aria frizzante che la pioggia si è lasciata dietro come una piacevole scia. Le luci della Tokyo notturna sono più brillanti che mai, questa notte. Rifulgono come stelle. Usagi si sente amata, felice; sospira e continua a canticchiare.

“Io canterò per te, sino al giorno che non ti ritroverò tra le stelle lassù, principessa del cielo blu.”

Un'altra voce si unisce alla sua, facendola sobbalzare. Per la seconda volta, quel giorno, Usagi crede di trovarsi di fronte un fantasma, ma le basta guardarsi intorno per scorgere la figura di Demando, affacciato al balcone della stanza degli ospiti, proprio accanto alla finestra della camera di Usagi. Ha il petto nudo e, pallido, brilla come una perla, come una stella e la città, nel buio. Usagi ha un secondo sussulto: gite in quel mondo parallelo dove le soglie del pudore si abbassano come per miracolo, che è la spiaggia, a parte, Mamoru è l'unico uomo che abbia mai visto svestito in qualsiasi misura, ma, più di ogni altra cosa, è la bellezza evanescente di quest'uomo che la coglie impreparata, volta dopo volta, come fosse la prima.

“Oh? Cantavo così male?”

Demando la fissa con occhi di gatto, mezzelune che trattengono una risata un po' benevola, un po' maliziosa. Usagi scuote la testa così energicamente che, quando si ferma, il panorama continua ad ondeggiarle davanti agli occhi per qualche secondo. “No, no, no, no. Demando-san. La, la sua voce è meravigliosa e-e poi, il suo giapponese è—” 

“Usagi. Ti ho detto che solo Demando va bene.”

“Sì, scusa.”

“Sei una fan dei Three Lights?”

“Eh? Oh, no, le mie amiche li adorano, ma, ad essere onesti, non ho la più pallida idea di chi siano.”

“La canzone di prima è loro.”

“Davvero? Non ne ricordavo neppure le parole. Credo di averla sentita alla radio, per caso.”

“Sì, effettivamente è difficile evitarla, in questi giorni. Io stesso ho finito col memorizzarne il testo soltanto perché in ufficio la si sente di continuo.” Demando sposta il proprio peso sui gomiti, appoggiati alla ringhiera, e si spinge in avanti, in modo da poter guardare Usagi negli occhi più facilmente, mantenendo una postura rilassata. “Queste tue amiche sono quelle che inviterai all'inaugurazione?”

Usagi annuisce con una sorta di timidezza che non le è consona. “Sì... Se non è un problema.”

“Certo che no, sono stato io a dirti che potevi invitare i tuoi amici. Tra l'altro, penso che queste ragazze ti saranno grate per gli anni a venire, considerando che la colonna sonora della serata è stata affidata ai Three Lights—non da me, che sono avvezzo ad altri tipi di musica e non so davvero cosa sia in voga tra gli adolescenti di questo paese, ma, per fortuna, lo staff di locali che mi sta aiutando ad aprire la boutique sa il fatto suo.” Demando fa mostra di un sorriso insolitamente aperto, pulito, quasi come quello di un bambino. “Ah, ci incrociamo poco, ma, quando succede, ti sommergo di chiacchiere. Spero di non averti annoiata.”

“Per nulla! Lei, ah, tu, hai sempre cose molto interessanti da dire.”

“Dici sul serio?”

“Certo!”

“Ne sono felice. Sai, spero di non spaventarti dicendo questo, ma parlare con te mi riesce così naturale che mi sembra quasi di conoscerti da tempo, come se tu fossi una figura del mio passato, o come se ci fossimo conosciuti in un'altra vita.”

Eppure, non è timore, quello che riempie la mente di Usagi in quell'istante, ma sorpresa, smarrimento, imbarazzo, una felicità simile a quella che prova addentando il primo boccone del suo dessert preferito. Se vi è alcun tipo di paura, nel realizzare che l'essere umano che hai di fronte può decifrare alcuni dei lati più reconditi del tuo cuore senza bisogno di parole, questa si sublima troppo in fretta in un senso di meraviglia travolgente, per permettere ad Usagi di esitare anche un solo momento.

Con la coda dell'occhio, intravede la schiena di Demando che disegna una curva sinuosa mentre lui si stiracchia. “Credo sia ora di andare a letto, per me: mi aspetta una giornata piena e, perlomeno, sono certo che adesso riuscirò finalmente a prendere sonno.” La frase rimbomba nelle orecchie di Usagi come per spingerla a cogliere un significato, sotteso e nascosto ma non troppo, tra quelle parole. “Grazie per avermi ascoltato, Usagi. E buonanotte.”

Le riesce di mormorare solo un “Buonanotte,” mentre resta inebetita, con i piedi incollati al pavimento, per un tempo incalcolabile, prima di realizzare appieno quanto è successo nell'arco di questa giornata e correre, con un sorriso a trentadue denti, dritta dritta in stanza, saltando, praticamente, sul letto per affogare un gridolino di gioia in uno dei cuscini. Ci sono forse nuovi amici, nuovi legami che ha stretto e che potrebbero diventare preziosi. C'è un adulto, una persona importante, che la prende sul serio, dà peso alle sue parole e la capisce. C'è il regalo di Mamoru, che arriverà presto.

Questa notte, Usagi Tsukino può ancora credersi una ragazza fortunata.








 


Per anteprime, spoiler sui prossimi capitoli e le fic a venire, vi ricordo che c'è la mia pagina FB!

   
 
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