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Autore: Kanako91    18/09/2015    5 recensioni
Separata dalla guardia con cui suo fratello Turgon le ha concesso di lasciare Gondolin, Aredhel raggiunge i cugini Celegorm e Curufin, ma non li trova in casa. Durante le passeggiate per i loro territori, Aredhel si spinge troppo lontano e finisce invischiata nelle tenebre di Nan Elmoth. Dopo giorni di girovagare alla ricerca di una via d'uscita, solo un palazzo, spuntato dal nulla le offre riparo dalla foresta.
Per una promessa impulsiva, Aredhel si ritrova a vivere con cinque strani servitori e un padrone di casa che è tutto fuorché gentile e ben disposto.
[What if? del Capitolo 16 del Silmarillion: come avrebbe potuto essere tutto consenziente?]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aredhel, Eöl
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tempi di Alberi, di Fiori e di Frutti'
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Doverosa premessa:


Ho iniziato a scrivere questa storia per vedere se fosse possibile tirar fuori una relazione senza abusi dalla situazione tra Aredhel ed Eöl che Tolkien ci presenta nel Silmarillion. La versione originale della loro storia, che troviamo nel saggio “Quendi and Eldar”, nella History of Middle-earth (Volume XI – The War of the Jewels), è tutto tranne che arcobaleni e unicorni obesi, per quanto consista per lo più nella citazione di seguito:

Eöl found Írith, the sister of Turgon, astray in the wild near his dwelling, and he took her to wife by force: a very wicked deed in the eyes of the Eldar.


Nella versione pubblicata (e appena edulcorata) nel Silmarillion, si dice “It is not said that Aredhel was wholly unwilling”, che dalle mie parti non vuol dire che era “willing”, e la traduzione italiana non scherza nell’altro senso: “Si dice che Aredhel non fosse poi molto riluttante”. Alla fine, in qualsiasi versione, ci viene lasciato intendere che lei fosse persino contenta di stare al palazzo di Eöl (come? Mistero! Tutti gli indizi che abbiamo dicono il contrario), mentre prima era del tutto unwilling, tanto che il loro era preso a esempio come l’unico caso di stupro tra gli Eldar.

Non so dire se Tolkien avesse tentato di rendere il matrimonio di Aredhel ed Eöl del tutto consenziente (dopotutto, Eöl ha pur sempre fatto uso di incantesimi per attirarla nelle sue aule e le ha imposto limiti che dubito stessero bene ad Aredhel) o se si è limitato a traformare lo stupro in... coercizione? Prigionia? per non andare contro le regole che lui stesso ha imposto al suo mondo. Non lo sappiamo, possiamo solo fare ipotesi, ma di certo le ipotesi non renderanno mai questo matrimonio un buon matrimonio. Non lo è nella vita reale, non lo è neppure nella finzione.

Ora, a me questo risultato lascia insoddisfatta e a disagio, tra le altre cose. Seguo la versione di Eöl Tatyar (e quindi uno degli Avari) e trovo tremendo che l’unico Avar che incontriamo sia così… disgustoso, ma mi dispiace prima di tutto per Aredhel, che non meritava una vita e un matrimonio del genere, perché poi? Solo perché se n’è andata in giro liberamente quando i maschi della sua famiglia le hanno detto di non farlo? Perché Mandos ha maledetto i Noldor? Perché serviva una vita familiare disagiata per spiegare Maeglin?

Così, mi son chiesta: come sarebbe stato se, con tutte le loro differenze, Aredhel ed Eöl si fossero semplicemente innamorati? E avessero scelto insieme di sposarsi? Se Aredhel fosse stata con lui così a lungo per scelta, per considerazione nei confronti delle sue mille paturnie (e perché tanto la cosa, alla fine, non le creava problemi) e non perché lui le vietava di uscire dalla foresta?

Ho iniziato il mio lavoro di ricamo sul capitolo 16 del Silmarillion, “Maeglin”, con qualche incursione nella HoME per il contorno. Ma la stoffa era tutta del Silmarillion, perciò in alcuni punti troverete i frammenti del capitolo, della traduzione di Francesco Saba Sardi a partire dalla versione originale di Tolkien (che ne detiene i diritti ecc., ovviamente). Mi sembrava inutile ripetere scene che erano già state scritte e a cui non avrei potuto aggiungere nulla.

Spero che il risultato sia leggibile!




Di seguito, un piccolo dizionario per gli amici dei Sindar:
Curufinwë/Curvo: Curufin
Írissë: Ireth, il nome paterno di Aredhel Ar-Feiniel
Írimë: Lalwen
Itarillë/Itarillinkë: Idril, il secondo è un nomignolo non ufficiale (grazie Elleth!)
Elwë Singollo: Elu Thingol
Ondolindë: Gondolin
Turukáno/Turno: Turgon
Tyelkormo/Tyelko: Celegorm
Laurefindil/Lauro: Glorfindel
Melyanna: Melian






Capitolo I. Bianco baluginio




Aredhel Ar-Feiniel, la Bianca Signora dei Noldor, figlia di Fingolfin, viveva nel Nevrast con Turgon suo fratello, e con lui si trasferì nel Regno Celato. Ma s’annoiava nella chiusa città di Gondolin, e a mano a mano che il tempo passava sempre più desiderava tornare a cavalcare per ampie terre e aggirarsi per le foreste, com’era stato suo costume in Valinor; e quando furono trascorsi duecent’anni dacché era stata completata la costruzione di Gondolin, parlò con Turgon e gli chiese licenza di andarsene. Turgon era restio a concedergliela, e a lungo gliela negò; alla fine, però, cedette col dire: «Vattene dunque, se proprio vuoi, benché io non lo approvi e preveda che ne verrà male sia a te che a me. Ricordati però che puoi solo andare a trovare Fingon, tuo fratello; e coloro che invierò con te dovranno tornare a Gondolin il più presto possibile».

Ma Aredhel replicò: «Io sono tua sorella e non la tua serva, e fuori dai tuoi confini andrò dove mi aggrada. E se malvolentieri mi dai una scorta, partirò da sola».

Rispose Turgon: «Non voglio rifiutarti nulla di ciò che ho. Non desidero tuttavia che nessuno il quale sappia di come stanno le cose qui da noi se ne stia fuori delle mie mura; e se mi fido di te, che mi sei sorella, ho meno fiducia che altri controllino la propria lingua».

E Turgon scelse tre signori della sua casa perché scortassero Aredhel, ordinando loro di condurla da Fingon nello Hithlum, sempreché riuscissero a spuntarla con lei. «E state con gli occhi bene aperti» raccomandò loro. «Perché, sebbene Morgoth sia ancora confinato nel Nord, molti sono i pericoli della Terra di mezzo, di cui la Bianca Signora nulla sa». Aredhel partì dunque da Gondolin, e il cuore di Turgon ne fu rattristato.

E giunta che fu al Guado di Brithiach sul fiume Sirion, disse ai suoi accompagnatori:

«Volgiamo adesso a sud anziché a nord, poiché non ho nessuna intenzione di andare nello Hithlum; il mio cuore desidera piuttosto trovare i figli di Fëanor, gli amici di un tempo». E, visto che non si riusciva a trovarli i tre signori volsero a sud com’essa voleva, chiedendo il permesso di entrare nel Doriath. Ma i guardiani delle marche di frontiera si rifiutarono di concederlo loro, poiché Thingol non voleva che nessun Noldor superasse la Cintura, eccezion fatta per i suoi parenti della Casa di Finarfin, e meno che mai chi fosse amico dei figli di Fëanor. Sicché, le sentinelle dissero ad Aredhel: «Per recarti nella terra di Celegorm dove sei diretta, Signora, non puoi in nessun modo transitare per i territori di Re Thingol, ma devi passare al di là della Cintura di Melian, a sud ovvero a nord di questa. La strada più breve è quella che conduce a est dal Brithiach passando per il Dimbar lungo il margine della marca settentrionale di questo regno, fino al ponte di Esgalduin e ai Guadi di Aros, da cui si accede alle terre che stanno al di là del Colle di Himring. Lì dimorano, se non andiamo errati, Celegorm e Curufin, e può darsi che tu ve li trovi; la strada tuttavia è perigliosa».

Aredhel allora tornò sui propri passi e imboccò l’ardua via che correva tra le valli infestate da presenze degli Ered Gorgoroth e le difese settentrionali del Doriath; e come s’avvicinavano alla mala regione del Nan Dungortheb, i quattro viaggiatori si trovarono immersi tra ombre, e Aredhel si sviò dai suoi compagni e si perdette. A lungo e invano quelli la cercarono, timorosi che fosse caduta in qualche trappola o annegata nelle correnti attossicate di quella terra; ma le feroci creature di Ungoliant che dimoravano nelle rovine ne furono disturbate e si diedero al loro inseguimento, sicché a stento i tre la scamparono. Quando alla fine tornarono e riferirono com’erano andate le cose, grande fu il dolore in Gondolin; e Turgon stette a lungo solo, in silenzio, a covare dolore e ira.


«L’abbiamo persa, Turno– sire».

Itarillë non ebbe bisogno di guardare suo padre, per sapere che si era girato verso la finestra nel tentativo di non tradire alcun sentimento. Cugino Lauro lo aveva seguito sempre, era uno dei migliori guerrieri al loro seguito ed era un cugino: non meritava lo sguardo di rimprovero che sarebbe sfuggito a papà e lui lo sapeva. Non era colpa sua, Cugino Lauro aveva di certo fatto del suo meglio per non perdere zia Írissë, e non era stato neppure da solo. Fuori dalla porta aspettavano Ecthelion ed Egalmoth, che erano stati con lui e la zia.

«Raccontaci» disse Itarillë.

«All’inizio, il viaggio è andato come avevamo concordato, finché Írissë non ha detto di voler andare a Est, al di là dell’Himring» disse cugino Lauro, chinando il capo. Non ebbe bisogno di aggiungere chi si trovasse in quelle terre. «Abbiamo pensato che non ci sarebbe stato nulla di male, finché avessimo viaggiato lungo la Cintura di Melian, e così abbiamo fatto».

«Perché non camminare dentro la Cintura?»

Cugino Lauro abbozzò un sorriso, ma non riuscì a fare niente di meglio. Era strano vederlo così sconsolato. Lui era riuscito a sorriderle anche durante la traversata dell’Helcaraxë, quelle volte in cui zia Írimë non aveva avuto occasione di raccontarle qualcosa per ridere insieme.

«Perché non ci è stato concesso, Itarillë. I guardiani della Cintura ci hanno però indicato la direzione più sicura da prendere e quali pericoli evitare. Sono stati gentili».

Itarillë annuì. Se solo fossero riusciti a diventare persone gradite agli abitanti del Reame Nascosto…! Ma non poteva dare la colpa ai rapporti difficili con la gente del Doriath per la sparizione di sua zia, non più di quanto potesse dare la colpa a cugino Lauro. Írissë aveva avuto le idee chiare, prima di partire.

Non ho la minima intenzione di restare qui a… marcire, aveva detto Írissë, lo sguardo fisso fuori dalle mura. Ho bisogno di vedere cosa sta succedendo là fuori e, soprattutto, ho bisogno di vedere spazi più ampi di questa cintura di montagne.

Itarillë aveva capito, per quanto non condividesse il desiderio della zia. Ma lei era sempre stata in giro, quando erano stati a Vinyamar, e anche nel Tumlanden Írissë era sempre andata in esplorazione con altri curiosi. Questo era durato pochi anni, perché presto la gente di Ondolindë aveva conosciuto quei territori come il palmo della mano e non aveva trovato molto da esplorare. Molti erano gente del Mithrim e non condividevano la stessa curiosità di loro Noldor.

No, Itarillë non credeva che ci sarebbe stato un modo per fermare Írissë. Vietarle di partire alla sua prima richiesta era stato un errore che l’aveva fatta intestardire. Ma suo padre era anche fratello della zia e, così come non riusciva a essere sempre saggio con Itarillë, non riusciva a esserlo con Írissë. E così Írissë aveva deciso di comandare la sua scorta appena ne aveva avuto l’occasione.

E ora era dispersa.

Forse addirittura– no. No, la zia doveva essere in giro per l’Himlad, ridendo di Lauro e gli altri, perché non erano riusciti a tenerle dietro. Avrebbe fatto quel che doveva fare e sarebbe tornata.

Papà si era girato a guardare cugino Lauro.

«Mi auguro che sia ancora viva, Laurefindil» disse suo padre, la voce bassa e controllata. Non era mai bello sentirlo così.

«Mi dispiace, Turno, abbiamo fatto l’impossibile per ritrovarla, ma abbiamo fallito lo stesso. Se potessimo–».

«No». Papà si avvicinò a Itarillë e guardò cugino Lauro, il volto tirato.

Oh, povero papà, come avrebbe fatto se anche la zia lo avesse abbandonato?

«Non posso sacrificare la sicurezza della gente di Ondolindë per il vostro fallimento o la cocciutaggine di mia sorella. Vi avevo avvertito che lei non conosceva i pericoli delle terre al di fuori, avevo avvertito lei che non si trattava di un viaggio da fare». Papà inspirò. «Abbiamo fatto il possibile per fermarla. Non è servito a niente. Va’, Lauro».

Cugino Lauro rivolse un inchino a papà e a Itarillë e uscì dalla stanza.

Ma neanche allora papà lasciò andare la rabbia e il dolore che Itarillë sapeva che lui stava provando.

«Tornerà» gli disse e lo guardò, senza osare toccarlo. «La zia tornerà».

Papà le avvolse un braccio intorno alle spalle e la tirò a sé.

«Lo spero, cuore mio, lo spero proprio».


* * *


Intanto Aredhel, dopo aver cercato invano i suoi compagni, continuò il cammino, poiché era impavida e dal cuore fermo come tutti i figli di Finwë; e, senza deviare dalla propria strada, superò il ponte di Esgalduin e i Guadi di Aros, giungendo nella terra di Himlad, tra i fiumi Aros e Celon, dove Celegorm e Curufin dimoravano in quel torno di tempo, prima che venisse infranto l’Assedio di Angband. Al momento, però, non erano in casa, ché con Caranthir si erano recati a est, nel Thargelion; la gente di Celegorm però le diede il benvenuto, invitandola a restare con loro, che ne sarebbero stati ben lieti, in attesa che tornasse il loro signore. E Aredhel per un po’ ne fu contentissima, e assai gioì vagando liberamente per i boschi; ma il tempo passava, e Celegorm non faceva ritorno, e Aredhel tornò a farsi inquieta e prese a spingersi sempre più oltre nelle sue cavalcate, alla ricerca di nuovi sentieri e di folteti vergini. E così accadde, mentre l’anno declinava, che Aredhel giungesse nello Himlad meridionale e superasse il Celon; e, prima di rendersene conto, si trovò irretita nel Nan Elmoth.


* * *


Vindálf era sembrato interessato dalla proposta di Eöl e lui aveva tutte le intezioni di convincerlo fino in fondo. Non gli avrebbe mai dato la formula del galvorn, ma avrebbe potuto produrre strumenti di precisione con un’anima di galvorn e gli avrebbe dimostrato come fossero cento volte più forti e duraturi di quelli di cui si servivano del Nogrod e Belegost.

E, per quanto la prospettiva fosse incerta, Eöl fremeva dalla voglia di tornare alla sua fucina e rimettersi al lavoro. Aveva promesso tre punte, per diversi usi, a Vindálf e i suoi entro la loro prossima visita e aveva accettato la sfida in Khuzdul, perché Eöl era serio e deciso a convincerli. Per quanto gli strumenti dei Naugrim fossero molto buoni, Eöl poteva farne di ancora migliori.

Sapeva cosa fare appena fosse tornato a palazzo e sapeva di cosa avrebbe avuto bisogno–

Eöl si fermò sui suoi passi e corrugò la fronte.

C’era qualcuno in Nan Elmoth. Qualcuno che non vi apparteneva e che non sapeva dove stava andando. Come, si raccontava, era successo a Elu Thingol, quando le lampade celesti non offuscavano la luce delle stelle, e questo bosco cresceva ancora rigoglioso e giovane al canto di Melian la Máya.

Ora il Nan Elmoth non era più un luogo in cui vagare senza rischiare la vita e presto, chiunque vi si fosse perso, se ne sarebbe accorto.

Ma Eöl voleva sapere quale cadavere avrebbe trovato durante una delle sue passeggiate, così proseguì guidato dai sussurri degli alberi, fino al luogo in cui sentiva la presenza estranea. E fu costretto a fermarsi.

Una creatura di luce stellare, ecco chi era la presenza, ecco chi si era persa nella sua foresta.

Come altro spiegare quella pelle e quegli abiti candidi, quel cavallo di un bianco lucente anche nell’oscurità? Solo i capelli, lunghi, neri e arruffati come un cespuglio di rovi, intaccavano quella vista e la ancoravano alla realtà.

La donna cantava a mezza voce, in una lingua proibita, accarezzando la criniera del cavallo, alla ricerca di conforto o nel tentativo di trasmetterlo alla bestia, non gli era dato sapere. Era persa e se ne rendeva conto, ma aveva smesso di vagare, forse in attesa di un segno che la conducesse fuori da Nan Elmoth.

Eöl non aveva dubbi sulla stirpe a cui apparteneva quella donna. Era una Golodh e una di quegli invasori che avevano messo a ferro e fuoco il Beleriand. Strinse gli occhi e voltò le spalle alla scena, premendole contro un tronco.

Doveva fare qualcosa a riguardo, non poteva lasciarla andare e minare la protezione che gli davano le voci su Nan Elmoth. Ma non voleva neppure avere a che fare con lei. Avrebbe potuto chiedere agli alberi di celarle qualsiasi via d’uscita e in qualche giorno, lontana dalla luce delle lampade che avevano accompagnato l’arrivo della sua gente, sarebbe avvizzita e avrebbe finito per nutrire la terra, come gli sventurati prima di lei. Oppure avrebbe potuto usare il giavellotto avvelenato che ora era schiacciato tra la sua schiena e il tronco dell’albero.

Oppure...

Eöl si strinse nel mantello e si incamminò per tornare sul suo sentiero, verso casa. Era un’idea folle. Non capiva a cosa fosse dovuta, magari agli incanti di Melian la Máya di cui gli alberi si erano nutriti nei primi secoli della loro vita. Ma non era sua. Non poteva esserlo. Quale Kwende della Seconda Tribù avrebbe mai voluto aver a che fare con dei Disertori? I Disertori Sindar erano più simili agli antichi Kwendi, ma i Disertori della Seconda Tribù, i Golodhrim, loro avevano attraversato il mare ed erano tornati in quelle terre con la guerra e con il Signore della Notte. Persino Elu Thingol aveva preferito proteggere la sua gente da loro, piuttosto che lasciarli entrare e uscire a piacimento dal suo regno.

Eöl non poteva comportarsi in modo diverso. Non poteva avere alcun contatto con quella donna dei Goelydh.

Eppure, allontanandosi dal luogo in cui lei cantava al cavallo, Eöl rivolse una preghiera agli alberi.

Se dovesse trovarsi allo stremo, vi prego, guidatela al mio palazzo.


* * *


La quaglia gonfiò le piume, fino a diventare una palla con due occhi e un becco, e non emise alcun verso. La fissò con un occhietto, seduta su quello che sembrava un nido. Era difficile capirlo sotto tutte quelle piume!

Írissë aveva fame. Quella quaglia era il primo animale commestibile che incontrava e doveva avere anche delle uova, sotto le zampe.

Ma era anche una bestia minuscola e Írisse non si sarebbe sfamata rosicchiando intorno alle costole, dopo aver mangiato il petto e le cosce troppo piccole. Almeno le quaglie di Aman erano grandi.

Alcuni Cacciatori avrebbero avuto da ridire su quella preda. Se non altro, perché avrebbe avuto dei piccoli, e i Cacciatori erano attenti ai ritmi delle bestie che cacciavano. Anche Írisse lo era. Così, lasciò andare i rami del cespuglio e tornò da Ilkalinto.

«Almeno tu hai trovato qualcosa per riempirti lo stomaco?»

Ilkalinto sollevò la testa dal ciuffo di erba che stava addentando con poca convinzione e la guardò, con le orecchie rivolte verso di lei. Írissë si piego sul collo di Ilkalinto e sospirò, la guancia poggiata contro il manto bianco e caldo. Tutto il contrario di quella foresta.

«Inizio a non capire più dove sia il Nord e dove l’Est» mormorò al cavallo. Lui non c’era stato durante la traversata dell’Helcaraxë, quando le tormente offuscavano le stelle e li obbligavano a fermarsi, per non perdere la via. E ora lei si era persa, in un bosco come ne aveva visti a centinaia a Valinor.

Nessuno dei metodi che le avevano insegnato i Cacciatori di Oromë le fu d’aiuto. O forse, la maledizione di Mandos influiva anche su quello. Ma Írissë non credeva che quegli insegnamenti funzionassero solo con la benedizione dei Valar, era questa foresta a rifiutare qualsiasi logica. Esistevano solo oscurità e sentieri contorti, quasi fosse stato un maleficio a renderla così.

Più a Sud, c’è quel che rimane della foresta in cui quel pollo di un Elfo Scuro si perse e incontrò Melyanna.

Le parole di Tyelkormo decisero di tornarle in mente proprio in quel momento. E Írissë poté quasi capire come avesse fatto Singollo a perdersi. Era più grave che si fosse persa lei, una cacciatrice esperta, temprata dagli scherzi di pessimo gusto con cui l’avevano addestrata i Cacciatori e con cui si erano divertiti i suoi cugini.

E proprio i suoi cugini l’avrebbero presa in giro per l’eternità, se l’avessero vista aggirarsi per la foresta, stanca e senza una direzione da seguire!

Írissë si raddrizzò sulla schiena di Ilkalinto. Doveva fare un ultimo tentativo. Anche se le forze le venivano meno e la fame la tormentava. Quanti giorni erano che non mangiava? Aveva perso il conto! Potevano essere passate ore o settimane da quando aveva messo piede in questa trappola di foresta e lei non se ne sarebbe resa conto. Era come nell’Helcaraxë, senza il gelo e il ghiaccio traditore.

«Andiamo, Ilkalinto». Írissë accarezzò il suo collo, più per calmare se stessa. «Troviamo un posto in cui riposare.» Magari fuori di qui.

Ilkalinto sbuffò e scosse la testa, ma si mosse, con passo sicuro, tra gli alberi.

Chissà se Lauro, e i due signori di Ondolindë che lo avevano accompagnato, erano tornati da Turno. Sperò di sì, non sarebbe stata felice di sapersi la causa della sparizione di suo cugino. Chi l’avrebbe guardata più in viso, la zia Írimë? Ma chissà cosa avevano detto a Turno e a Itarillinkë. Quello era un altro pensiero da farle stringere il cuore. L’avrebbero creduta morta o perduta per sempre?

Turno avrebbe avuto la conferma dei suoi timori e su quello c’era poco da fare, davvero.

Ma Itarillinkë… Oh, non poteva pensarci. Quella foresta le stava portando pensieri poco allegri e Írissë temeva di fermarsi in mezzo al cammino e mettersi a urlare, solo per sfogarsi un attimo. E poi avrebbero chiamato anche questa foresta Grande Eco.

Il pensiero riuscì a strapparle un risolino.

Írissë si accorse allora di essere finita su un sentiero che non aveva percorso nei suoi giri, segnato da cespugli di bacche e piante mai viste, dalle foglie ad ago. Inospitali come la foresta in cui crescevano.

Che avesse trovato la via per uscire? Di sicuro, non le sembrava di esserci già passata, né ricordava alcun sentiero così ben tracciato quando, dal limitare della foresta, si era immersa tra gli alberi più scuri e minacciosi, attirata dalla sensazione che quella era la via per una bella avventura da raccontare a Tyelko e Curvo quando fossero tornati dai loro viaggi.

Gli alberi sul sentiero cambiarono, si fecero più alti, più grossi, più antichi, al punto che Írissë alzò lo sguardo per vedere dove finissero i tronchi e incontrò solo l’oscurità più fitta, senza alcuna traccia della chioma o dei primi rami. A terra, quel che credeva sottobosco, si rivelò essere un intrico di radici, mentre il sentiero scendeva e il terreno ai lati restava dov’era. Forse non era una buona idea proseguire su quella strada. La stava portando da qualche parte, sì, ma forse non dalla parte che lei voleva. Írissë tirò le ciocche di criniera che aveva tra le mani e disse a Ilkalinto di fermarsi.

Il cavallo obbedì con uno sbuffo e Írissë scrutò la strada davanti a sé. Il sentiero non era marcato per terra, nulla cambiava nel terreno, rispetto al resto della foresta, se non quel lieve dislivello che si era formato senza che lei se ne accorgesse. Nelle ombre che vedeva lungo la strada, Írissë non sapeva cosa aspettarsi.

Ma qualcosa la chiamava. C’era qualcosa in quell’oscurità, qualcosa che non era al servizio del Moringotto, ma rifuggiva da lui come ne rifuggivano Turno e la gente di Ondolindë. Gli alberi stessi le sussurravano parole dolci e confortanti, su un luogo sicuro in cui riposarsi prima di riprendere le ricerche per la via d’uscita. Era la prima volta che le parlavano, da quando Írissë era entrata nella foresta, e le loro voci erano antiche e misteriose.

Írissë colpì piano i fianchi del cavallo con i talloni e Ilkalinto riprese la marcia, giù lungo in sentiero.

Camminarono a lungo, finché una collina spuntò a sbarrare loro la strada, ricoperta di erba e radici, avvolta in gran parte nell’oscurità che impregnava la foresta.

Non le era dato sapere come si potesse trovare una collina nel mezzo della foresta che Írissë aveva girato in lungo e in largo, camminando solo su terreno piano e ricoperto di sottobosco. Non c’erano dubbi, però, che questa collina non fosse un collina qualsiasi. Írissë smontò da cavallo e, una mano sul collo di Ilkalinto, vi si avvicinò a piedi.

Come spuntata dall’oscurità, una porta le confermò la sensazione che quella non fosse una semplice collina. Írissë bussò a uno dei battenti, che si rivelò spesso e pesante, al punto che bussò di nuovo, per timore di non esser stata udita la prima volta.

Il portone si schiuse e a coprire la fessura apparve una sagoma scura, poco più bassa di Írissë, l’unico occhio visibile era grigio scuro, il viso pallido.

«Mi son persa nel bosco» disse Írissë in Sindarin, «sto vagando da non so quanto tempo. Posso chiedervi ospitalità per il tempo necessario per riposare?»

Il battente si richiuse e Írissë sospirò e lasciò cadere le spalle. Niente. Avrebbe cercato rifugio tra quelle radici, qualcuna doveva essere abbastanza comoda per riposarci su per qualche ora. Accarezzò il collo di Ilkalinto e si voltò, per allontanarsi dalla collina.

Un cigolio e Írissë si voltò per vedere il portone spalancato. Nell’ingresso, la figura a cui aveva parlato prima era un Elfo vestito con abiti semplici e grezzi, di un grigio scuro come i suoi occhi, i capelli neri legati dietro il collo in un’acconciatura severa.

«Il mio signore ti dà il benvenuto per restare finché avrai bisogno di riposare, gentile signora» disse il servitore, con un lieve sorriso.

Írissë sbatté le palpebre, ma non dimenticò le buone maniere. Portò una mano al petto e chinò il capo. «Ringrazio te e il tuo signore».

«Le stelle brillano sul tuo arrivo» disse il servitore e le fece segno di entrare.

Írissë non se lo fece ripetere due volte. Una mano stretta alla criniera di Ilkalinto, entrò nella collina e seguì il servitore nel corridoio. Il cigolio del portone che si chiudeva alle sue spalle fu un’eco lontana, quasi soffocata dagli zoccoli del cavallo sul pavimento di pietra.

Il servitore si fermò in un grande salone in cui radici si intrecciavano agli alberi scolpiti nelle pareti, trasformandosi in rami che tendevano verso la volta. A Írissë si mozzò il fiato: il soffitto si apriva sul cielo stellato e lei credette quasi di trovarsi di fronte a un dipinto. Ma era aria fresca quella che sentiva circolare nella sala, quell’aria che non sentiva da giorni.

«Si occuperà Nordal del tuo cavallo, signora» disse il servitore e la riscosse dal suo stato di contemplazione. «Se vuoi seguirmi da questa parte». Le indicò un corridoio alla sua sinistra e Írissë annuì.

Spuntato dal nulla, lo stalliere si affiancò a Ilkalinto e, con un’ultima carezza, Írissë si allontanò da lui. Non poteva entrare a casa della gente col suo cavallo, se ne rendeva contro, e si sarebbero presi cura di lui. Si ritrovò a seguire di nuovo il servitore lungo un corridoio, con una gran voglia di far domande e la sensazione che nessuna di loro avrebbe ricevuto una risposta.

Il servitore aprì un portone e le fece segno di entrare. Questo salone era arredato e scuro, illuminato solo dal fuoco nel grande camino che occupava l’intera parete di fronte all’ingresso. E dire che non aveva notato fumo levarsi da nessuna parte della foresta, quando si era trovata al di fuori. Troppe cose le erano sfuggite, era così che metteva in pratica gli insegnamenti dei Cacciatori di Oromë?

«Accomodati pure, signora. Il mio signore arriverà tra poco».

Con quelle parole del servitore, il portone si chiuse alle spalle di Írissë e lei andò a sedersi a uno scranno vicino al fuoco. Un altro scranno era di fianco al suo e altri due dal lato opposto, posizionati su un tappeto di pelliccia, in mezzo al quale si trovava un tavolino basso. Il mobilio del resto della stanza era composto da mobili bassi.

Era un salone piccolo, oltre che scuro, le pareti coperte da tessuto che forse era stato un arazzo, ma ora sembrava solo nero e semplice. Nelle intenzioni di chi lo aveva arredato quel salone avrebbe dovuto essere accogliente, forse, ma Írissë non riuscì ad apprezzare la cosa. Persino lo scoppiettare del fuoco non servì a tranquillizzarla.

Che il signore di questo palazzo la stesse facendo attendere non era molto promettente.

Il servitore tornò per posare sul tavolino davanti al fuoco una tazza che emanava un odore dolce.

«Per spezzare la fame, signora» le disse e sparì da dove era comparso.

Írissë portò la tazza alla bocca e quel liquido, caldo e denso dal sapore dolce come il profumo, placò i crampi dello stomaco. Non aveva idea di cosa fosse, avrebbe detto qualcosa simile al miele, ma era più probabile che fosse qualche miscuglio a lei sconosciuto. Le aveva ridato energia, però, e quello le bastava.

Dove si era cacciata? Aveva fatto bene a chiedere ospitalità in questo palazzo invisibile a un qualsiasi viandante? Era sospetto, così sospetto che fosse comparso sulla sua strada solo ora. Írissë era certa di aver percorso ogni pollice di questa foresta e mai aveva notato qualcosa di diverso, mai aveva visto gli alberi che circondavano il palazzo. Si strinse nelle braccia e sfregò le mani sulle maniche. Non si sentiva del tutto a suo agio, per quanto fosse contenta del fuoco e del tetto sopra la sua testa.

Non c’erano stati neppure animali notturni. Non si era resa conto del sorgere del sole e della luna.

Meglio in un palazzo inquietante, che fuori nella foresta.

In lontananza, le sue orecchie colsero solo allora un suono familiare. Così familiare che credette di star sognando. Come poteva sentire il rumore del mantice, e poi il battere sul metallo che aveva sentito solo quando aveva visitato Curvo? Il suo udito e la stanchezza le stavano giocando brutti scherzi.

Oppure c’era un fabbro in quel palazzo?

Írissë si alzò dallo scranno e seguì il rumore della fucina lungo un corridoio che non aveva visto prima, nascosto nelle pareti scure e mal illuminate del salone. Il corridoio aveva una leggera pendenza verso il basso e, al fondo, si aprì in una sala da cui partivano altri corridoi. Ma solo da uno di questi proveniva il rumore metallico che lei stava inseguendo e Írissë lo imboccò senza fermarsi un attimo.

Il nuovo corridoio presto si concluse in una rampa di scale a spirale. I piedi di Írissë scivolarono rapidi sui gradini, dimentichi della stanchezza che li aveva appesantiti fino a poco prima. C’era una fucina, da qualche parte, in quel palazzo. I fabbri le erano familiari e, in quel momento, aveva bisogno di qualcosa di familiare.

Il canto del martello e dell’incudine era così dolce per le sue orecchie, dopo il silenzio irreale della foresta. Il calore che aumentava a ogni gradino era quello di cui aveva bisogno per scaldare il gelo che le era entrato nelle ossa, insieme ai brutti ricordi secoli prima.

Írissë non aveva più fame, non era più stanca. Era sostenuta dalla speranza di trovare un qualche conforto in quella fucina.

Discese l’ultimo gradino e si trovò in un salone in pietra dal soffitto a volta, abbozzato in maniera rozza, e un grande forno che rendeva l’aria soffocante per il calore che emanava. Davanti al forno, si trovava una figura scura e lei si mosse in quella direzione.

Da vicino, Írissë si accorse di essere davanti a un uomo, un Elfo, alto e dai lunghi capelli scuri raccolti in una treccia. Le sue spalle erano ampie, gli avambracci che spuntavano dalle maniche arrotolate erano muscolosi. Tutto in lui era Noldo. Eppure, ai suoi occhi, lui non brillava della luce degli Alberi. Era scuro come la notte, il sudore che gli imperlava la pelle brillava al fuoco come costellazioni di stelle mai viste.

Il martello batté sul metallo incendiato e Írissë rilassò le spalle.

«A cosa stai lavorando?»

L’uomo le lanciò un’occhiata di sbieco e risollevò il braccio. Il suo viso, dai lineamenti austeri e spigolosi, non cambiò espressione. Si era accorto di lei da prima che Írissë parlasse. Il braccio calò un’altra martellata su quella che somigliava la punta di un piccone, da cui scaturì una pioggia di scintille come stelle cadenti.

«Tra i miei parenti ci sono grandi fabbri della mia gente» gli disse e quando lui la ignorò, si sentì quasi ridicola in quella sua volontà di parlargli. Era stata da sola per giorni e, a parte qualche parola a Ilkalinto, non aveva potuto parlare con nessuno che le potesse rispondere, e ora si lanciava a chiacchierare con uno sconosciuto–

Che stupida!

Nel suo bisogno di dare aria alla bocca, gli aveva parlato in Quenya!

Ovvio che non le aveva risposto.

«Perdonami» gli disse in Sindarin. Abbozzò un sorriso e si strinse nelle spalle. «È stato sciocco da parte mia non prestare attenzione alla lingua. Temo sia un errore dovuto alla stanchezza».

Il fabbro affondò la lama tra i carboni, senza dire una parola.

Forse non capiva neppure il Sindarin? In che lingua poteva parlargli? Conosceva solo quelle dei predatori notturni e dubitava che quest’uomo avesse avuto l’araldo di Oromë come insegnante.

Írissë mosse un passo verso l’uomo e portò una mano al petto.

«Stavo aspettando il signore di questo palazzo, quando ho sentito il rumore delle fucine e non ho potuto fare a meno di scendere a curiosare». Írissë si lasciò sfuggire un risolino dalle labbra. Le sembrò così isterico, ma temeva di star scivolando a tutti gli effetti nell’isteria. Aveva sperato di trovare qualcuno con cui parlare in questo palazzo buio e silenzioso, e invece…! «A cosa stai lavorando?»

Il fabbro estrasse il pezzo di metallo dai carboni e lo posò sull’incudine. Il martellare riprese, non più familiare ma minaccioso, e Írissë non si avvicinò oltre.

«Se non puoi parlarmi lo capisco, ma potresti almeno farmi un segno che mi stai ascoltando?»

Era una richiesta sciocca, soprattutto fatta al di sopra del rumore del martello sul metallo. Ma quando il fabbro affondò di nuovo il lavoro nei carboni, girò la testa per guardarla e strinse appena gli occhi. Sembravano neri, tanto erano scuri.

«Torna di sopra, signora» disse l’uomo, la voce bassa come un tuono lontano, «non c’è nulla per te qua sotto».

Írissë corrugò la fronte e aprì la bocca per parlare, ma il fabbro tirò fuori il metallo dai carboni e riprese a martellare. Non c’era nulla di diverso nel suo comportamento rispetto a prima, ma che le avesse parlato le fece capire che non lo avrebbe fatto di nuovo e che per lui il discorso, per quanto breve, era chiuso.

Non era una donna che si faceva dire cosa fare dagli altri, Írissë, men che meno quando non era quello che lei desiderava. Ma era così frustrata da quella parete contro cui si era scontrata, proprio là dove si era aspettata di trovare un abbraccio familiare, che indietreggiò di qualche passo, diede le spalle al fabbro e risalì per le scale fino alla sala dei corridoi.

Peccato non sapesse più da dove fosse arrivata.

L’odore del pane appena sfornato giunse al suo naso e Írissë lasciò che la guidasse lungo un corridoio. Almeno sarebbe finita nelle cucine e avrebbe potuto mangiare in attesa di quello zotico del padrone di casa.

Oh, ma cosa le faceva dire che si trattava di uno zotico! Solo perché aveva incontrato quel fabbro fastidioso!

Come aveva intuito, l’odore del pane la portò nelle cucine, in cui due servitori erano occupati uno al forno e l’altro al lavello.

«Scusate?» Questa volta era certa di aver parlato in Sindarin.

Il servitore al lavello sollevò la testa, dalle stoviglie e saltò sul posto, i capelli disordinati e con un ciuffo tagliato all’altezza del mento, come per errore.

«Sei tu l’ospite?»

Írissë strinse la testa nelle spalle. «Immagino di sì».

Il servitore al forno, che si rivelò essere una donna con i capelli avvolti in un turbante, batté le mani sul grembiule e le fece segno verso il tavolo. «Siediti, signora, tanto stiamo preparando per te. Il padrone ha già mangiato da un pezzo, sarà occupato dalle sue faccende se ci sta mettendo tanto ad arrivare. È normale, non ha nulla contro di te».

Il servitore al lavello asciugò un piatto e un bicchiere e li posò davanti al posto lungo la panca a cui Írissë stava per sedersi. Rimase in piedi a scrutarla con la fronte corrugata e la testa piegata di lato. Poi andò al lavello e tornò con delle posate in mano.

«Vi ringrazio, tutti e due. Ho una fame tremenda, avrei cacciato qualcosa nel bosco se avessi incontrato bestie».

La cuoca scosse il capo. «Non è per chiunque cacciare in questi boschi. Se non sai come muoverti, signora, non sai come cacciare».

Írissë raddrizzò le posate che il servitore aveva messo di fianco al piatto. Lei sapeva cacciare e sapeva muoversi nella selva. Era questa foresta a essere ingannatrice.

«Quando ti rimetterai in cammino, ti riempirò una borsa di cibo» disse la cuoca e scrollò le spalle. «Ma Nan Elmoth dovrebbe lasciarti uscire a quel punto».

Con un’altra scrollata di spalle, la cuoca tornò al forno e l’altro servitore versò a Írissë qualcosa di caldo e fumante nel bicchiere, dall’odore di erbe selvatiche, e lasciò un vassoio di bacche e frutti scuri di fianco al suo braccio.

«Nel mentre cuoce il pane» le disse, con un cenno del capo.

Írissë rispose con un sorriso e le guance le fecero quasi male, come se si fossero disabituate a quel movimento. Eppure prima di entrare nella foresta, aveva riso e riso e riso, pensando ai suoi cugini e alle scappatoie che le aveva raccontato zia Írimë.

Da quanto tempo era entrata in quella foresta?

«Lammaite» disse una voce familiare. «Lainedhel ti ha dato ordine di preparare un piatto per–».

Írissë si voltò verso la porta e lo vide. Il fabbro era fermo sulla soglia della cucina, la fronte corrugata e la mascella serrata, gli occhi puntati su di lei. Aveva indossato una camicia pulita, le mani pallide erano sollevate nell’intento di allacciarla sul petto, i polsini slacciati e svolazzanti attorno ai suoi polsi nerboruti.

Era proprio lui, il fabbro.

Ed era il signore di quel palazzo.

Quello zotico!

«Non ti mancano le parole, quindi» gli disse Írissë, guardandolo negli occhi, e mise in bocca uno dei frutti scuri. Con una scrollata di spalle, tornò a guardare il piatto vuoto. «Forse ti manca solo la buona educazione».

Il fabbro comparve nel suo campo visivo, giusto al margine.

«Non amo intrusi mentre lavoro».

«Bastava dirmelo e me ne sarei andata senza altri tentativi di conversazione. Ho avuto a che fare con altri fabbri di pessimo carattere, so come comportarmi». Írissë prese un altro frutto dal vassoio e se lo rigirò tra le dita. «Ammetti che non sai comportarti con una signora e ripartiamo col piede giusto, questa volta, che ne dici?» Sollevò lo sguardo verso il fabbro e inarcò un sopracciglio.

Il viso di lui sembrava essersi trasformato in pietra. Come una di quelle sculture piene di vita di sua zia Nerdanel, salvo che aveva tutto l’aspetto di una brutta copia, senza vita, solo indignazione.

La cuoca comparve al fianco del fabbro. «Hai ragione, signora, purtroppo non siamo abituati ad avere ospiti. Ma è anche vero che il padrone, quando lavora, non deve essere disturbato».

«Non lo farò più, ma non potevo saperlo prima, non trovi?»

La cuoca annuì. «Senza dubbio, ma tienilo a mente la prossima–».

«Allora, qual è il tuo nome?»

Írissë incontrò gli occhi del fabbro. Aveva davvero dei modacci. Ma lei era superiore a questi comportamenti da zotici, era stata educata come si doveva e sapeva come rispondere a un comportamento così scortese. Si alzò dalla panca, prese un lembo della gonna in una mano e portò l’altra al petto. Chinò la testa al fabbro – e padrone del palazzo! – e disse: «Puoi chiamarmi Ireth, se vuoi. O puoi continuare a chiamarmi signora e mostrarmi rispetto».

Il fabbro aveva raddrizzato la schiena, le labbra serrate. Sembrò considerare il suo nome e una linea gli si era formata tra le sopracciglia. Aveva sciolto i capelli nel tragitto dalla fucina e solo ora Írissë se ne accorse. Erano sottili e lucenti come seta, fin troppo belli per un uomo con tali modi.

«Puoi chiamarmi Eöl» disse lui. «E di certo una stella brilla sul nostro incontro, dama Ireth».

Oh, poteva giurarci.






Nota dell'autrice


Ed eccomi, dopo aver fatto i salti mortali, con questa mini-long su Aredhel ed Eöl. È passato un po’ di tempo da quando ho accennato a qualche amica l’idea di scrivere una What if su di loro, per il semplice gusto di esplorare una strada diversa da quella tracciata dal Silmarillion, pur sempre costeggiandola lungo tutto il racconto.

Prima di procedere con le note, devo ringraziare melianar e tyelemmaiwe per la preziosissima assistenza nella creazione dei nomi dei personaggi originali elfici che compariranno e anche per il cavallo (Caproooon!)
Vindálf, invece, me lo sono recuperato dalla Völuspá, come richiede la tradizione!

Ora, via con le note:

  • Glorfindel cugino di Turgon e Aredhel e co.: secondo il mio headcanon lui è figlio di Írimë/Lalwen, sorella di Fingolfin e quindi questo fa di lui loro cugino. (capitan Ovvio!)
  • Mancandomi i nomi in Quenya di Ecthelion ed Egalmoth, ho dovuto tenere quelli Sindarin, per quanto la cosa mi turbi nel profondo (OCD!)
  • Come detto nel dizionarietto, Itarillinkë è un soprannome spuntato fuori da melianar, che ricorda di averlo letto in qualche fanfiction, ma non ricorda quale. Magari qualcuno lo ricorda? Google non riesce ad aiutarmi! Almeno possiamo dare un minimo di credits a chi lo ha creato :) EDIT: grazie alla Chià, che mi fa notare che ho probabilmente fallito nelle mie ricerche per una "ë" mancante, posso finalmente ringraziare Elleth (su AO3 e su TheSilmarillionWriters'Guild) per aver coniato il nomignolo per queste sue storie: Many Journeys - 67. Not on Hope Alone e Lift Her Brow Toward Morning.
  • La Máya: secondo Quetteparma Quenyallo, sarebbe la versione arcaica di “Maia” (e mi sono fidata) e mi sembrava estremamente adatta a Eöl, mentre fargli usare un giro di parole nel caso di Melian (cavolo, “Melian la Maia” è quasi un tutt’uno, non avrebbe reso “Melian del popolo dei Belain”!). Il problema è, ancora una volta, la mancanza di traduzione. Certo che i Sindar hanno una Maia per Regina e non hanno un termine Sindarin per “Maia”. E chiamare i Maiar “gli Gnocchi” non va bene. Sigh.
  • Per la serie Eöl e i termini arcaici, Kwende/Kwendi rientra in questo insieme, con altri termini che appariranno qua e là durante la storia.

Per il resto, lascio che la storia proceda per precisare altre cosucce, ma per ora eccoci qui con il primo capitolo e spero non sia stato un’esperienza terrificante. Anche perché quelli successivi potrebbero essere peggiori!

Detto questo, sperando che qualcuno lo legga, ci vediamo la prossima settimana, di giovedì, alla stessa ora (circa), su questi schermi!

Grazie in anticipo a chi leggerà e deciderà di seguirmi :)

Kan


   
 
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