Titolo: Roma, una sera che piove
Personaggi: originali.
Prompt © Giada Fraccaroli e Alex Lucci: Originale, romantico. Piove a dirotto, mi sono infilato/a per sbaglio nella tua macchina e tu ti sei comunque offerto/a di darmi un passaggio a casa. + Intropettivo & romantico - "Cosa mi hai rubato?" "In realtà, se parliamo di ladri, sei tu ad avermi rubato qualcosa."
Note: Il titolo è ripreso da una canzone del '84 di Loredana Bertè, "Una Sera Che Piove".
OoOoOoOoOoO
D’estate,
l’aria di Roma è il fiato umido di una bestia in calore.
Quando piove non piove, diluvia: le gocce formano un muro compatto,
perpendicolare; non un tuono né un lampo, solo
l’impressione di trovarsi sotto lo scroscio incazzato di una
cascata.
E’
lunedì sera – anzi, già martedì, lo
contraddice l’arancio dei numeri sullo sfondo nero del quadrante
di plastica dell’orologio da polso. Mario stira gli avambracci e
inarca il petto, le dita in una stretta leggera sul volante; gli occhi
stanchi seguono pigri il taxi di un’azienda concorrente che passa
col rosso al semaforo e si immette sulla corsia principale – in
culo alla sede della Finanza, proprio dirimpetto all’isola di
traffico.
Mario si prende
il suo tempo per accostare l’auto al marciapiede, di fronte alla
tabaccheria chiusa. Parcheggia, tira il freno a mano e spegne il
motore, tastando mesto la tasca dei jeans, cercando con le dita il
pacchetto delle cicche e l’accendino.
Teoricamente
non dovrebbe fumare sul posto di lavoro – la puzza di tabacco
intasa l’abitacolo e non c’è bomboletta di Oust che
tenga contro quell’attufarsi ostinato. Ma è anche vero che
è fuori orario, piove, non fuma da ore, e una cicca,
l’ultima cicca, è la madre di tutti i rimedi… E lo
sportello dietro si apre e si chiude con energia, facendogli quasi
spezzare la sigaretta agognata, che ora tiene tra le dita, per lo
spavento.
Glielo dicono
da mesi, che se lo deve aspettare, e una calma pesante si impadronisce
di lui mentre si prepara a scattare
con la mano sotto al sedile, dove tiene lo spray al peperoncino
(ché non ha i soldi per tirarsi fuori dalla galera per aver
pestato uno stronzo).
“Poteva anche venire più vicino, questa pioggia mi ha quasi affogato.”
Una voce
querula, il rumore di un peso che si deposita sgraziato sul sedile.
Interdetto, Mario si volta nel buio, imprigionato dalla cintura di
sicurezza, riprende a respirare.
“Che cazzo..?”
“Moderi
il registro, sa. Sarò anche in debito, ché mi ha
raccattato fuori orario, ma non c’è bisogno di alzare
tanto i toni.”
Il suo, di
tono, è scocciato, da cliente insoddisfatto. Una voce
particolarissima. Mario, che quasi vede le stelle per il sollievo,
cerca di guardare meglio nel buio. Chiunque sia, sta battendo i denti
dal freddo.
“In
realtà ho finito le cicche ed ero in zona.” Solleva le
dita della mano destra, la sigaretta imprigionata tra di esse.
“Se hai qualche lamentela, dovresti rivolgerti al taxi che era
qui prima, perché quello sì che ti ha lasciato a culo per
terra.”
Tutto sommato è pacifico.
Ha sonno, vuole
solo allungarsi sul materasso e cadere in un coma per quelle poche ore
che il turno diurno di domani (oggi) gli concederà; non gli va
di riaccendere la macchinetta, la radio, il navigatore, il gps.
Però guarda fuori, e Roma rovescia sulle loro teste anche
l’anima de li mortacci loro, e gli viene pena per quella vocina
(vocione?) da gatto, resa più rauca piuttosto che acuta dallo
sdegno, ora quietata dall’imbarazzo palpabile.
Allunga una
mano, Mario, preme un dito sull’interruttore e infine riesce a
vedere la persona seduta sul sedile posteriore, uno zaino grigio
vicino, una giacca zuppa di diverse taglie più grandi addosso.
Qualcosa non gli quadra, nella luce giallastra, e sulle prime non
riesce a piazzarlo. Stringe appena gli occhi, registrando i capelli
lunghi alle spalle, fradici, decolorati; il viso macchiato di nero
(trucco colato?), e poi capisce.
La situazione
di stallo li zittisce entrambi, il ragazzo (ragazza?) con una mano
sulla maniglia, già, e lo sguardo puntato sul muro di pioggia; e
Mario, che si dibatte nell’indecisione per non fare una gaffe
colossale - è che la faccia del suo cliente starebbe bene ad un
maschio, ad una femmina, a un elfo di Gran Burrone. Porta il mascara,
ma non vuol dire niente; la voce è profonda, quasi da uomo,
priva di smorfiette – ma la cadenza è dolce, da donna; i
lineamenti sono delicati, gli occhi piccoli e chiari, forse verdi, le
labbra un cuore sottile.
D’improvviso,
l’ispirazione e una decisione. Per non sbagliare, lo battezza
“Cliente”; per non far torto a nessuno, non le assegna un
sesso.
“Dai, ti
accompagno,” delibera Mario, e mette in moto prima che quel
gattino affogato possa cambiare idea, ma senza far partire l’auto
per non fare la figura del rapitore maniaco.
Un respiro trattenuto.
“Non
so…” Le trema la voce di freddo, i denti le cozzano
rumorosi gli uni contro gli altri. Si stringe nella giacca troppo
pesante, e pare una bambina che ha giocato coi trucchi della madre e un
bambino nei vestiti del padre insieme.
“Ti ci
vuole una sigaretta”, sentenzia Mario, dall’alto della
saggezza dei suoi ventotto anni. Dice addio tra sé alla cicca,
la accende e la offre al randagio, tenendola sospesa nello spazio tra
loro, la punta che arde arancione, facendosi cenere.
Esitazione. Silenzio.
Cliente allunga la mano – le dita corte e sottili – e l’accetta, portandosela alla bocca cerea.
“Acqua Bullicante”.
Ed ecco tutto.
La tensione
nell’aria umida si scioglie, la lingua di Cliente inciampa nel
filtro della cicca ma si scioglie anche lei. La voce ha smesso di
tremargli e il tono è allegro mentre gli racconta
dell’amica che si è fermata a una festa vicino Villa
Torlonia (“Troppi stronzi e poche cicche”), della pensata
di raggiungere Nomentana e prendere la metro (perfettamente logica,
annuisce Mario), irrealizzabile per la pioggia battente; che il tizio
del taxi concorrente ha un la voce da pusher (qui, Mario replica che
alle una di notte di un giorno lavorativo, per i tassisti quello
è il tono regolamentare) e di quanto sia carina la propria
(“carino” non è l’aggettivo col quale Mario
definirebbe il raglio prodotto dal vibrare delle proprie corde vocali,
ma lascia correre e si concede un sorriso).
La strada li
insegue, e Mario, con la sua voce carina, racconta a Cliente del suo
buco a Testaccio; che è venuto a Roma come studente di
ingegneria fuori sede e c’è rimasto come fuori corso a
tempo perso. Le luci di Tiburtina illuminano il viso pallido di lei,
gli occhi chiari sul nero del trucco scolato che li cerchia, il sorriso
bianco delle labbra sottili (perché Mario si prende con
filosofia e la fa sorridere), che lui ricambia dallo specchietto.
Commentano
quello snodo dove il traffico rende loro la vita impossibile, Mario sul
taxi, Cliente (Ro. Roberto? Rossella? Nel dubbio, preferisce
“Cliente”) sul famigerato 409; passano di fronte al Kubo e
improvvisano un balletto da discoteca, Cliente agitando le mani, Mario
solamente la testa.
L’asfalto
è umido sotto le ruote, l’aria gli appiccica i capelli
sulla nuca; il profumo residuo di cicca brucata gli solletica la gola,
ma Cliente racconta del tizio con gatto a mo’ di sciarpa che ha
avvistato (“proprio qui, proprio in questo punto!”) sulla
bici scassata e Mario ride, e ride e ride e, arrivati a Bullicante,
è fregato, cotto, e non gli ha neppure chiesto se è
femmina o maschio, a Cliente, che gli mostra quei dentini bianchi tra
le labbra sottili.
“Quanto
ti devo?”, domanda quello, quando si fermano di fronte a un
palazzone tra palazzoni tutti uguali, illuminati dal neon
dell’insegna della farmacia all’angolo della strada.
“Mi devi
una cicca,” risponde Mario, onesto, tirando il freno a mano e
contorcendosi per voltare il busto all’indietro
nell’abitacolo stretto.
Si guardano, e
Cliente esita, ma si vede che è tentata di accettare: il labbro
inferiore trema di una protesta inespressa, ma Mario alza una mano
ammonitrice e sorride minaccioso, stroncandola lì dove la culla.
Cliente
armeggia nello zaino e le zip gemono nel silenzio di Roma di notte.
Mario toglie la cinta di malavoglia e scende, l’aria che lo
carezza mentre un notturno passa loro accanto placidamente, ninnando i
passeggeri.
Ha smesso di piovere. Oltre le nuvole grigio fumo, uno spicchio di cielo nero, qualche stella.
Si aspetta di
dover lottare contro un altro tentativo di pagamento, ma Cliente scende
(è basso, la sommità della testa arriva appena
all’altezza della sua spalla), lo zaino in spalla e le mani
vuote, con cui afferra la sua, gli apre le dita.
Mario si guarda
il palmo, alza di nuovo gli occhi ed è solo, lui e il neon
dell’insegna, e un foglietto di carta umido di pioggia,
spiegazzato. Un numero di cellulare, un’iniziale.
Nella tana a
Testaccio, sul materasso bagnato della luce dell’alba, Mario
compone quel numero, e attende fissando il soffitto con un sorriso
assonnato. E’ presto, prestissimo, ma la sua pazienza è
tutta per la stronzaggine del traffico di Roma, e prende la linea e
“Mi devi ancora una cicca”, ricorda.
Dall’altro capo, uno sbadiglio delicato, basso. “Sei pesante e hai la voce da pusher di prima mattina.”
“E tu sembri un gattino col mal di gola, e si sa che i gatti sono ladri.”
Se ha azzeccato col genere, Cliente, Ro, non ne da indizio.
“Le
gazze, non i gatti. E in realtà, se vogliamo parlare di ladri,
la tua è stata un’offerta spontanea; sei tu ad aver rubato
qualcosa a me.”
“Lo rivuoi indietro?”
“Non se in cambio mi darai il tuo.”
Le guance di Mario sono rosee come le dita del primo mattino.