Rukia è morta.
Ogni tanto devo ricordarmelo: nonostante tutto, nonostante
ciò che si agita
sotto i miei occhi, Rukia non vive. Rukia se n’è
andata molto tempo fa, così
tanto tempo che non posso nemmeno enumerarlo.
Eppure io… eppure, eppure la guardavo vivere in ogni istante
con un incanto che
giorno dopo giorno mi lasciava più sorpreso.
Rukia.
È strana. Sì, è strana. A volte non la
posso sopportare. No, non è vero; il
fatto è che a volte vorrei vederla sorridere, ecco tutto.
Quando mi sgrida. Quando mi dà dello
‘stolto’. Quando mi lancia le sue occhiate
sdegnose.
No, non riesco a odiarla. È solo che ha un viso
così triste.
E perfino quando a volte ride, perfino quelle volte, perfino quelle
volte le
sue sopracciglia sono aggrottate in un’espressione
imbronciata. E io l’osservo
e m’innervosisco, mi arrabbio, ma non con lei; mi arrabbio
con me stesso che
non sono ancora stato in grado di donarle un sorriso.
L’ultima volta che ho visto i suoi occhi, erano velati dalle
lacrime.
E il suo ultimo gesto, è stato per me.
Era pronta a gettare vent’anni del suo futuro in un carcere
della Soul Society,
pur di stringere la mano al mio cadavere. Si è gettata tra
le braccia dei suoi
esecutori, pur di non coinvolgermi.
E io, in tutto questo tempo, non l’ho mai fatta sorridere.
L’ho accolta nella mia vita con un calcio.
L’ho lasciata vivere nell’armadio, le ho portato
gli avanzi di cibo, mi sono
lamentato in continuazione.
La mia famiglia è già abbastanza caotica, e a mia
discolpa posso dire che non
ero pronto per l’arrivo di questa strana ragazzina morta nel
guardaroba della
mia camera.
Ma, in effetti, non ho mai fatto nulla affinché la sua
permanenza sulla Terra
fosse un poco più piacevole.
Ho ancora i suoi stupidi disegni, da qualche parte. Ricordo con
precisione la
sua risata a braccia incrociate, la mia sorpresa nel vederla coinvolta
da
qualcosa di terreno. Ricordo come sono stato felice di vederla, per un
istante,
più umana.
E poi a scuola, seduta di fianco a me. La vocina dolce con i
professori. I modi
gentili con i nostri compagni di classe. L’uniforme, che le
stava decisamente
meglio di quell’informe tunica nera.
Piccola com’è, era decisamente più
adatta al ruolo di scolaretta, che a quello
di Dea della Morte. Per questo, quando si è insediata nella
mia vita, nel mio mondo,
e forse nel mio – ok, fermiamoci – per questo,
quando me la sono ritrovata
vicina in ogni singolo istante, non mi è mai sembrato
strano. Perché lei, per
me, era viva. Era viva e strana, e mi rompevo la testa per cercare di
capirla,
ma questo è avere sedici anni.
È guardare la creatura accanto a te e chiederti cosa si
agita nel suo cuore.
E ora che se n’è andata, ora che
l’ammazzano per avermi vissuto a fianco, mi
sto chiedendo: cos’è che si agita nel mio?
Cos’è quella cosa che lo sta stritolando?
Perché ho voglia di piangere?
Kon che si dimenava, imbavagliato e legato dietro al cesso. Kon che
diceva:
“neesan è l’unica da cui mi lascerei
fare una cosa del genere!”. Kon che si
appiccicava a lei, Kon che non poteva farne a meno.
Kon che nonostante fosse disposto ad appartarsi con lei da qualche
parte,
piangeva perché neesan se n’era andata.
E quando mi sono reso conto che non c’era più, per
un attimo, mi sono sentito
smarrito.
Lui ha perso la sorellona. Io avevo perso la mia guida.
Era lei che mi diceva cosa fare, come combattere, dove dovevo essere, e
chi
erano questo e quello e come ci si doveva comportare.
Ma non sarebbe stato così importante, avrei combattuto tutti
gli Hollow
convocati da Ishida da solo, se fosse stato necessario; il fatto
è che ad un
tratto mi sono reso conto di una cosa.
Lei mi aveva sempre protetto.
Adesso, però, era arrivato il mio turno.
E così mi sono scrollato Kon di dosso e sono corso da lei,
anche se mi aveva
detto di non farlo. E quando l’ho vista lì,
piccola, esile, con quel vestitino
addosso e lo zainetto, mi sono sentito cedere.
No, non intendo che ho perso la forza per combattere; quella era
più viva che
mai.
Intendo che qualche parte di me ha deciso che era ora di finirla, e mi
ha
detto: d’accordo, Kurosaki, adesso smettila di chiederti cosa
si agita qui
dentro. Lo sai benissimo, cosa c’è qui dentro.
Ed io in silenzio, straziato dall’amore, ho risposto: Rukia.
Tutti i giorni in cui, inconsapevolmente, l’ho osservata. I
giorni in cui l’ho
ammirata, i giorni in cui l’ho guardata combattere nonostante
non avesse i
mezzi per farlo. I giorni in cui mi sono sentito schiacciato dal suo
coraggio,
dalla sua determinazione, dai suoi occhi saggi. I giorni in cui mi ha
trasmesso
le sue abilità, le sue conoscenze, in cui ha cercato di
frenare la mia
impulsività per rendermi migliore. Il modo in cui mi ha
sempre posto
un’alternativa alla scelta più dura.
E quello sguardo blu come la notte. Quello sguardo che scrutava il
mondo come
se lo stesse vivisezionando, quello sguardo che a volte vedeva senza
capire.
Quello sguardo che si perdeva lontano, lontano da noi, dove nessuno
poteva
raggiungerla.
La sua perenne serietà. L’incapacità di
godere della vita. Quella sensazione
che si sentisse sempre superiore a noi.
E l’ultima espressione che le ho visto in volto, quella che
mi ha svelato
tutto. L’espressione che mi ha detto: non odiavo essere qui.
Avevo soltanto
paura del giorno in cui me ne sarei andata.
“Non osare seguirmi. O non
potrò mai
perdonarti.”
Sono io che ti chiedo perdono.
Perdono per non aver capito. Perdono per non averti mai reso questa
vita un po’
più bella.
Perdono per aver dimenticato che eri morta, che non avresti mai potuto
mescolarti a noi; perdono per non aver mai fatto nulla per non farti
sentire
un’ospite.
Rukia, mi manca il tuo corpo. Mi mancano quelle membra fragili e
bianche, mi
mancano i tuoi folti capelli neri. Mi manca quel ciuffo che ti copriva
il viso
a metà, mi manca il blu di quegli occhi.
Mi manca il tuo visino cupo.
Lasciami arrivare da te e salvarti; lascia che, per una volta, quelle
labbra si
curvino in un sorriso. Lascia che sia io a occuparmi di te. Per una
volta
soltanto, lascia che sia io a insegnarti qualcosa.
Voglio portati al karaoke, al luna park, al mare; voglio farti vedere
la
televisione, voglio portarti al cinema, voglio farti mangiare al
ristorante.
Voglio stringerti e voglio che quel tuo essere così
minuscolo sia per una volta
al sicuro, perché, cieco com’ero, soggiogato dal
tuo sguardo notturno, non
m’ero mai reso conto di quanto fosse piccolo e fragile di
fronte ai mostri che
affrontavi.
Il posto giusto per quel corpicino, Rukia, per quegli occhi enormi che
riuscivano a convincere tutti della tua forza, è tra le mie
braccia.
Lascia scivolare le palpebre, Rukia, fermati per un momento, lascia che
ti
massaggi le tempie. Raggomitolati sul mio petto, dammi le tue mani,
nascondile
nel mio palmo. Non guardare più nessuno con
quell’aria battagliera, non sentire
più la gravità del peso che ti porti addosso.
Dimentica tutto. Dormi tra le mie
braccia.
Ma Rukia è morta.
Sì, lo dimentico sempre.
Tendo troppo spesso a vederti come un uccellino ferito; spesso scordo
che non
sei di questo mondo, che non sei la ragazza che gli dei hanno scelto per
me. Sei
Dimentico sempre che sei potente, che sei ultraterrena, che hai visto
quel che
io non vedrò mai.
Che il tuo posto non è tra noi.
E me l’ha detto anche Inoue; mi ha detto che tu hai la tua
famiglia lassù, che
non puoi voler stare con noi, che non è giusto trattenerti
qui.
Ma posso lasciarti a un fratello che vuole giustiziarti?
Posso dimenticare le lacrime che ballavano sui tuoi occhi?
E posso tralasciare il fatto che non voglio passare nemmeno un minuto
senza di
te al mio fianco?
Voglio vedere i tuoi assurdi coniglietti dappertutto. Voglio vedere Kon
che
vola da una parte all’altra della stanza dopo uno dei tuoi
calci. Voglio
voltarmi alla mia destra, in classe, e vedere il tuo volto concentrato.
E come posso pensare che sei morta, quando sei stata così
viva nella mia
esistenza?
Quando il buco che hai lasciato mi angoscia così
profondamente già da ora?
D’accordo, basta melodrammi. Ci dev’essere una
soluzione.
Ecco, facciamo un patto.
Io ti faccio una promessa se tu prometti di tornare da me, va bene?
I termini sono questi: ricordi quando ti ho detto di non chiamarmi
Ichigo,
perché volevo evitare i pettegolezzi? E tu, con sarcasmo,
ogni volta
sottolineavi la parola Kurosaki?
Quando tornerai, non ti chiederò più nulla di
simile.
Quando tornerai mangerai a tavola con noi, e dormirai nel futon accanto
al mio,
e mangeremo il bento assieme sul terrazzo della scuola.
E davanti a tutti, con orgoglio, sperando di veder rasserenarsi i tuoi
occhi
blu,
prometto che ti chiamerò Rukia.
E allora, mia esile dea, tornerai da me?
Prometti che sarà il mio petto la tua casa?
(Nda: innanzitutto, perdonatemi il titolo. Proviene da una canzone
bellissima
di Gavin Rossdale ma non so perché non mi convince;
d’altronde non sapevo che
altro metterci, perché questa storia mi è uscita
fuori in meno di mezz’ora e
non so davvero da dove mi sia venuta O___O’’
Cioè, sì, sono una Ichigo/Rukia convinta, ma
questa fanfic mi lascia davvero
perplessa o_o non so se sia assolutamente confusa o lineare, troppo
povera o
piena di ripetizioni, troppo dolce o troppo fredda.
Aspetto di leggere qualcosa di più che il settimo volume per
scrivere qualcosa
di sensato ‘’XD tra l’altro questa fanfic
era partita con tutt’altra idea, ma
tant’è…
Ditemi lo stesso cosa ne pensate ;.; ci tengo, è la prima
volta che scrivo su
Bleach XO.)