SOTTO
CIELI SCONOSCIUTI
I RICORDI CHE NON CI APPARTENGONO
C’è
una maledizione. È quella ad unirli, non il filo rosso delle leggende popolari
cinesi.
Non
ricordano chi sono o cosa sono stati e intanto le vite si susseguono, come
abiti che si cambiano con il mutare delle stagioni, sempre e comunque.
Ci
ricordiamo davvero di qualcosa che ci è accaduto anche dopo che sono trascorsi
anni o sono solo echi illusori e piatti, come la luminosità delle stelle
esplose che ci raggiunge ad una distanza di miliardi di anni luce e illumina il
nostro cielo ogni notte, anche quando di quelle stelle ormai non è rimasta che
cenere cosmica?
Lei
non lo sa. L’unica cosa di cui è certa ogni volta, l’unica sicurezza è che
riaprendo gli occhi lo ritroverà dall’altro lato, ovunque esso sia.
Sa
che sarà triste, senza conoscerne il motivo e che questo stato di cose
peggiorerà quando i ricordi cominceranno a tormentarla sotto forma di sogni.
D’altronde siamo tristi perché dentro di noi conserviamo la memoria di quando siamo
stati felici e con felici lei intende davvero felici. Quel tipo di felicità che
si trova una volta nella vita, che si prova unicamente con una persona.
C’è
una maledizione e questa maledizione ha sparso frammenti di lei, i suoi ricordi,
a manciate nel tempo. Ogni volta riavrà un nuovo dei vecchi ricordi.
E
anche se non ne ha idea, anche se lo dimentica ogni volta per poi doverlo
ricordare daccapo, è lui a trovarli per lei, a raccoglierli, pezzo dopo pezzo,
ricomporla come Iside fece per Osiride.
C’è
una maledizione e si spezzerà quando entrambi ricorderanno nella stessa vita.
Divisi
anche quando insieme, infelici adesso e per sempre.
I. (1891)
Gli inverni di Parigi sono di una bellezza straziante e
questo Molly non può che riconoscerlo. Ma, ma.
Non può non ricordare altri inverni, altre nevi, altri
tramonti sanguigni e notti strappate all’Inferno.
Non può non ricordare com’era ‘casa’ quando casa erano spazi infiniti da percorrere
di corsa, in cui tutta la vita consisteva nell’avanzare sotto cieli di
splendida fattura, ricami dai colori ineguagliabili.
Non può non tratteggiare con precisione la sensazione
del vento sulla pelle, dolore e piacere a rincorrersi e intensificarsi come
baci scoccati a tradimento sulle piaghe aperte dal freddo.
Ricordare nelle immagini di allora la complessità di
mantenere il passo e un precario bilanciamento, con il cavalletto sotto braccio
e la rigida valigetta contenente le tempere e l’occorrente per lavorare sotto
l’altro. Ritrovare i ricordi come vecchie cartoline spiegazzate sul fondo di un
baule in una soffitta piena di ragnatele e polvere, riconoscerli, ma non
sentirli più propri. Veri, sì, ma della verità fallace di un’esistenza che più
non sussiste, non le appartiene, non riconosce come sua.
E infine, più importante di tutti, la realtà dello
scoprirsi donna, profondamente diversa dalla ragazzina che aveva eletto le
sterpaglie delle campagne a suo rifugio, che aveva fatto tana nei campi di
grano arsi dal gelo, bruciati dalla brina, nei torrenti e negli alberi nudi e
contorti, nelle enormi vallate bianche come spuma di mare in tempesta, in un
focolare con braci all’apparenza sempre sul punto di estinguersi, in fasci di
rametti aromatici ed erbe dall’odore penetrante appese a testa in giù e messe a
seccare su travi di legno mangiate dai tarli e dall’umidità, in una
sovrabbondanza di coperte, tutte troppo leggere per affrontare il morso del freddo
senza tempo, in calzini spaiati e maglioni da marinaio, in trappole per lepri
spesso vuote e stufati di radici, sempre avvolta nell’abbraccio senza calore
della pelliccia di sua nonna nei momenti peggiori, quelli privi di luce o
speranza in cui l’alba appariva più lontana che mai e la notte serrava i ranghi
oltre il vetro della finestra, nei suoi respiri assiderati.
Ripensare a quello e metterlo a confronto con il
presente è impensabile. Il confronto è impensabile. Non può esserci.
Sono due persone differenti quelle che li hanno
vissuti, quei lunghi inverni dalla glacialità immobile, inalterata e quieta e
quelli che adesso si susseguono come quadri invitanti e brulicanti di sfumature
che appartengono ad altre stagioni.
Parigi non conosce mezze misure e in questo, almeno, è
uguale alla campagna. Il freddo buca la pelle come acido, corrode le pareti di
cartapesta del solaio che è la sua nuova casa.
Casa, rifugio, tana.
Diversi nomi per descrivere un’identica realtà, ma non
è similmente sofferto e complicato il processo per dipingere? Di un singolo
tramonto lei potrebbe realizzare numerosissime bozze, tentare di forgiare nel
grigio lucente del mercurio quelle scaglie di metallo in fiamme che sono i
lampioni dei ponti, ricavare nell’ambra la tonalità esatta del sole che smorza
il suo lucore annegando nel piombo della Senna, nel turchese e nei lapislazzuli
il sopra del cielo che divampa in nero di ossa, nel verde che è quasi più
azzurro il cupreo dei tetti a spiovente propri ai quartieri più aristocratici.
Tentare, tentativi, tutto si riduce a quello. La vita,
come la pittura, insieme a tutto ciò che è arte, è un’enorme ventaglio di
esperimenti, sforzi, manovre e prove. Una lotta continua contro i limiti che ognuno
si impone da solo.
L’appartamento che ha preso è un’unica stanza dalle pareti
spoglie da cui le sue tele a metà la squadrano con occhi tutt’altro che
benevoli, incentivandola a prendere il pennello per compiere il proprio dovere
e ultimarle.
Il suo studio è il letto sfatto, il bagno è in comune
con gli altri inquilini, ma ha un lavandino di porcellana sbeccata che scarica
acqua stagnante dal tifone e sul cui rubinetto cresce un sottobosco di funghi.
Non ha cucina se non un fornello a gas di quelli da bivacco e la versione in
miniatura di camino è tristemente lontana da quella mastodontica della cascina
della sua adolescenza, che le sbuffava addosso fuliggine e su cui metteva a
cuocere zuppe insapori e allungate o appendeva ad asciugare gli stivaletti di
cuoio. Questo camino, perennemente spento e con la cappa sigillata, funge da
ricovero per i suoi libri malati d’acquosità.
Non c’è spazio per scrivanie o lunghi tavoli o grandi
armadi dal fondo immenso. Ce n’è, invece, a malapena, per un tavolino da
toeletta, uno specchio ovale, una sedia spaiata e una cassapanca di rovere che
custodisce più pennelli e blocchi di fogli arrotolati, trattenuti da lacci di
spago, che vestiti.
La pelliccia di sua nonna campeggia sul materasso come
una carcassa di animale e presto o tardi potrebbe diventare merce di scambio
con la signora Thibault, la padrona di casa, che ad ogni giorno di saldo
dell’affitto la valuta con gli stessi occhi di cupidigia con cui ha già
accettato in pegno l’orologio da taschino di suo padre e l’anello di
fidanzamento di sua madre.
Memorie d’altri tempi, di giorni che non sono più, a
tratti sembrano non esserci mai stati, di fantasmi che sono ai margini del
presente e a cui è precluso il domani. Lo stesso, memorie importanti da cui da
ragazza le sarebbe sembrato impossibile allontanarsi, figurarsi poi allentarne
il legame che li convoglia in linea diretta al suo cuore.
Memorie, però, che non la terrebbero in vita nelle
loro custodie di rimpianti e nostalgia, ma che possono farlo nelle tasche di
estranei, in cambio di pane e latte e un tetto sopra la testa, per quanto
misero possa apparire. Le memorie sono i riflessi di specchio delle persone che
si è stati una volta.
Nella battaglia che Molly si appresta ad affrontare
tutti i giorni al risveglio, quelle memorie non si fanno più labili o
stemperate, colori diluiti nell’olio, semmai le si affollano intorno.
Il passato la tallona, il presente le viene incontro
con rabbiosa malevolenza, il futuro le volge le spalle con lugubre trionfo. Il
passato solo, figura macilenta e malata di un amore morboso, vorrebbe darle il
conforto di menzogne già palesate.
È in quei balenii più che mai, incubi che assumono
forme folli da vaneggiamento, che Molly impugna il pennello come fosse un
coltello e mormora preghiere per se stessa. Non le rivolge a nessuno, quelle
preghiere. Ha smesso di credere alla natura sovrannaturale di divinità la cui indifferenza
trova immorale. Preferisce credere in se stessa e nel mondo, anche quando il
mondo è tutto fuorché bello o gentile, anche quando lo ritrae con il carbone e
ciò che ha in testa non conosce spazio per i colori di cristallo smerigliato delle
vetrate di Notre-Dame, per gli arcobaleni dopo la pioggia, per i profumi dei
fiori di strada e del pane caldo di forno, per i sentimenti buoni.
Crede nel mondo anche quando il mondo è un abisso che
invita al tuffo nel vuoto con toni suadenti e sorrisi da canaglia. Crede nel
mondo e in stessa, anche se la fiducia diventa sottile e fragile,
l’increspatura di un attimo, come lo strato di pellicola ghiacciata che ricopre
l’acqua nel secchio sotto il lavabo.
Lei crede. Crede.
Credere la fa andare avanti negli inverni opachi e senza stelle di Parigi,
della città che non conosce riposo o sonno, che si addormenta contro il peso
morbido dell’amante di turno, nell’effluvio friabile della cipria con cui le
dame si imbellettano le guance o quello seducente della colonia con cui i signori
si irrorano la mandibola e che permane nei colletti inamidati della camicie per
una storia d’avventura lunga un giorno.
Molly crede. Dipinge cieli di zaffiro che non esistono
se non nella fantasia, sopravvive alla parte brutta del mondo e a quella ancora
più brutta e spenta di se stessa.
Sherlock non pensa. O meglio, quello che fa è l’equivalente
che lui conferisce al termine ‘non pensare’. Il pensiero andrebbe dedicato a
cose grandi e importanti e in un posto come quello sono entrambe utopie.
Non pensa, quindi, ma osserva.
Osserva il mondo che lo circonda e che nel presente è
costituito da una stanza affollata dai soffitti cascanti e i pavimenti lerci.
Il mondo è ridotto a una sfilza di patetici individui,
imbrattatele squattrinati, riuniti in semicerchio nel salone disabitato di un
palazzo in rovina, comodi sulle loro seggiole pieghevoli e impettiti nella concentrazione
con cui provano a ritrarre la nudità di un uomo, lui, che ora, al centro dell’attenzione e della scena, mostra un
lampo rapidissimo di dispetto che per qualche istante scalza il tedio che
dall’inizio della sessione gli ha coperto il volto ombroso come la maschera di
cera di un attore consumato.
Nessuno sembra notare il cambiamento. Sherlock si
chiede se al disgusto dell’intera situazione possa sostituire uno scampolo di
rivalsa. Sì, perché no, cercare vendetta al disprezzo del proprio stato inerme
e rifarsi sulla massa che lo attornia.
Come? Il come è facile. Muovendo un piede, sgranchendo
i muscoli anchilosati delle spalle, serrando un poco la linea della bocca
cosicché assuma un’espressività del tutto dissimile dalla precedente.
Accorgimenti minuscoli, ma che possono fare tutta la differenza del mondo.
Mondo. Mondo.
Il mondo, il suo mondo che ora si
riduce a brandelli di luce grandi come coriandoli che si riversano da finestre affacciate
su strade livide e un cielo rannuvolato, a pittori spiantati dalle tasche
sfondate e che per quanto lo concerne lui più che volentieri getterebbe a
mucchi nelle acque gelide e torbide della Senna, tutto il mondo presente per una sigaretta.
Una smorfia gli fregia le labbra a quel pensiero,
involontaria. Lui non fa in tempo a ricomporre la piega più leggera del sorriso
distratto e vacuo che dovrebbe mantenere che un discreto tossicchiare
proveniente dalla zona di fondo, sul lato dell’unica finestra con balcone, lo sorprende,
suonando simile a un richiamo per riportarlo all’attenti.
Coincidenze, liquida subito la questione.
Il valzer di altre considerazioni, dopo l’attenzione
con cui perlustra nuovamente la stanza per mancanza d’altri passatempi, lo
porta a serrare e a flettere le dita della mano destra, tamburellandole contro
il piano su cui è steso.
Questa seconda volta a coglierlo in errore è meno un
tossicchiare e più un colpo di tosse vero e proprio e il suono sa davvero di rimprovero
ed è perciò assai più sgradevole. Di più, è intollerabile.
Sherlock si mette alla ricerca dell’artefice che lo ha
prodotto. Non ci sono segni di interesse o alcunché che attesti un minimo
coinvolgimento da parte di nessuno nell’area da cui è sicuro che il rumore sia
provenuto. Tutti sembrano troppo distratti dalla loro idea di arte come spassionata
resa di ciò che trasportano su tela, ma senza coglierne l’essenza più vera e
intima, mere riproduzioni che esibiscono figure ostentate, come immagini di
specchio che non hanno anima né messaggi da ispirare in chi le osservi,
soltanto riflessioni cave: specchi di specchi.
Sta quasi per arrendersi nella ricerca, sicuro di aver
frainteso, di aver sopravvalutato la capacità di intelletto del qualcuno in
questione, quando un movimento cattura il suo sguardo, un corrugamento della
fronte in un viso tremendamente serio e stranamente intento, vigile
perfino.
Non la nota subito e perché dovrebbe? Lei è
una qualsiasi faccia anonima che si perde nella moltitudine di facce dalle
fisionomie senza rilievi, i lineamenti poco marcati, piatti o insignificanti.
Minuta, scura di capelli e d’occhi, labbra pressoché inesistenti sotto un naso
dalla punta leggermente schiacciata verso l’alto e sopracciglia che
disegnerebbero un arco fine se fossero spianate, di questo è certo. Una cosetta graziosa, senza dubbio, ma niente
che valga la pena di una caccia all’identità di colei a cui la figura e faccia poco
importanti appartengono.
Sherlock sposta lo sguardo e lo riporta al punto cieco
che osserva da ore, sul soffitto, là dove decadi prima, quando quegli spazi
giganteschi e ora privi di qualsiasi orpello opulento appartenevano alla
nobiltà francese, un lampadario di cristallo deve aver fatto piovere gocce di
cera sulle parrucche e le gonne vaporose, sui corpetti preziosamente intessuti
e sulle giubbe di velluto degli ospiti di un ballo elegante.
Non sa perché né cosa lo spinga di preciso a
guardarla. O forse sì. È la monotonia, il fastidio dell’inattività,
dell’immobilità che lo costringe al centro di quella stanza, come un insetto
catturato nella trappola di un bicchiere capovolto.
Si sente in prigione e tra le sbarre di quella che
sarà la sua cella per le prossime tre ore ancora, intravede una possibilità,
un’alternativa alla noia e quest’alternativa è lei, la ragazza che dà le spalle
alla finestra, una tra i pochi che indossa il grembiule di foggia antiquata che
si dovrebbe portare per evitare di macchiarsi i vestiti, che nulla ha da
spartire col gruppo di scolarette in divisa che ridacchiando stanno sprecando
una profusione di carta e imbrattandosi le dita per divertimento e per lo svago
di un pomeriggio rubato alle lezioni del Convitto, l’unica che sembra osservare e non semplicemente vedere.
La ragazza incrocia il suo sguardo e per un attimo
quello di lei assume una luce inedita di divertimento e poi di rinnovato
rimprovero. Senza volerlo, questa volta non realmente perlomeno, Sherlock ha
appena mosso il braccio su cui è poggiato, mutando impercettibilmente, ma
drasticamente l’intero asse di tensione.
Lui sbuffa piano, seccato dall’imprevisto e lei si
acciglia e col pollice gratta via con rabbia qualcosa dalla tela. Lo fissa come
se fosse sua la colpa e forse è davvero così. Non che gli importi. Il compenso per
prestarsi a modello per quei fanfaroni è a malapena sufficiente a ripagarlo
della molestia della loro compagnia forzata.
La ragazza è inaspettata, una distrazione.
L’osservato diventa osservatore e mentre la ragazza lo
dipinge su tela con quel suo volto tremendamente serio, lui analizza l’unico
artista che forse, in effetti, potrebbe aspirare al titolo.
Non avrà modo di esaminare i capolavori che le sue sei
ore di supplizio hanno contribuito a produrre, tuttavia l’omissione non gli lascerà
appiccicata dentro né una scia di curiosità né una scintilla di desiderio.
Esce da dietro il paravento, dopo essersi rivestito in
fretta e furia, stringendo in una mano il cappotto e nell’altra la sciarpa e fa
per dirigersi meccanicamente alla porta.
Non si era aspettato l’assalto del suo datore di
lavoro, ovvero l’eccentrico professore che ha prestato gli spazi e messo a
disposizione di allievi sconosciuti consigli, perle di carattere generale sulla
resa del colore nelle sue disparità di gradazioni e sulla prospettiva. La
ragazza, gli pare di ricordare, è parsa distratta durante la spiegazione, non
per scortesia, è portato a ritenere, quanto per motivi puramente pratici.
Probabilmente le nozioni che quello snocciolava, lei già le possedeva.
Non per tutti risentire una lezione, per quanto coinvolgente
possa essere, esercita il fascino della prima volta che la si è ascoltata. Alla
seconda, per alcuni, la cognizione fa subentrare l’istinto nel compiere il
procedimento ormai afferrato. Lei sembra appartenere al genere sfortunato di
chi è facile preda della noia e la sua non è la memoria dei vecchi che
accolgono con gratitudine i racconti del passato. È quella dei giovani che
tutto vogliono, che amano il nuovo e lo ricercano all’infinito.
- Venite, monsieur Holmes.
Prevenendo la sua fuga, il professore lo prende
amichevolmente per il gomito e lo sospinge verso le prime file di aspiranti
artisti, impedendogli di attuarla.
Della folla presente durante la sessione è rimasto un
gruppo sparuto, una cerchia ristretta di soggetti. Le loro tavolozze, come deflagrazioni
variopinte di uccelli tropicali, le mani sporche di colorante e il modo esperto
in cui stringono il pennello, mentre danno i tocchi finali e scorgono dettagli
impropri nel frutto del loro lavoro, questo basta a posizionarli una spanna al
di sopra del sedicente resto di vanagloriosi che invece sono già scappati via
alla fine della seduta di ritrattistica. Non saranno mai artisti affermati, c’è
poco da scommettere in contrario, ma rimangono artisti, questo va loro
riconosciuto.
Al modo in cui non tutti gli uomini diventano uomini,
non tutti gli artisti diventano artisti.
- Non gradite dare un’occhiata? – lo invita il
professore con un sorriso affabile e una certa dose di orgoglio ben visibile.
Sherlock lo squadra dall’alto, è più alto di lui di
una buona spanna e mezzo e quasi lo sovrasta, ma quello non sembra minimamente
badarci. Gli sorride con semplicità, la stessa semplicità con cui l’ha convinto
a prestarsi per quel lavoro, quando lo ha trovato a bere assenzio in un café chantant di Pigalle senza avere abbastanza soldi con sé per pagare il conto a
suo carico e quando la situazione sembrava sul punto di degenerare in rissa.
Cosa ne pensa, lui? I pensieri sono per cose grandi e importanti, non vanno sprecati per
opinioni su opere di dubbia qualità.
L’uomo lo guarda con una sorta di fiduciosa aspettativa e Sherlock
stringe i denti. È stato pagato per posare come modello, non per esprimere
giudizi. Vorrebbe scattare e manifestare il proprio risentimento, trovare in
minima parte sfogo all’irritazione, ma tace. Fa un passo avanti e rivolge un rapido
cenno di riconoscimento al primo uomo dietro la tela, il più prossimo per
vicinanza. Con occhi insondabili, si china a fissare quello che c’è aldilà del
cavalletto. Non è un mondo a parte, non è neppure un mondo diverso. Non è
niente, a stento una fedele imitazione del qualcuno che ha finto di essere
durante l’intero pomeriggio. Guarda i vari se stesso, sempre più cupo e
taciturno, passando da un uomo all’altro, poi verso le poche donne. Sono
quattro in tutto e tra questa c’è lei, la ragazza che l’ha colto in fallo.
Quando le arriva di fronte, lei non sembra neppure accorgersene,
concentrata com’è a cancellare la sbavatura di una linea poco definita, un
tendine che non dovrebbe essere un guizzo debole nella curva del braccio
piegato, ma qualcosa di massiccio ed energico.
Le altre trasposizioni di sé avevano un’aria altezzosa, a tratti vaga e
imperturbabile, anche imbambolata in un attimo di estatica e rapita meraviglia,
questo sé è qualcosa di completamente nuovo. Suo malgrado impressionato,
Sherlock trova nel suo volto ritratto avvallamenti e angoli appuntiti e niente,
né un sorriso né una sfumatura tenue, che ne ingentilisca l’aria di bufera che
porta incisa nei tratti come l’impronta di una maledizione. È il volto scavato di
un uomo nauseato e stanco, che ha negli occhi la voglia insana di fuoco, di
mettere al rogo e ridurre in cenere il qualcosa che con tale evidenza sembra
detestare.
- Mia cara – sente il professore rivolgersi alla ragazza e lei volta il
busto di tre quarti e gli nasconde la vista del mostro assetato di distruzione
che ha dipinto e che dovrebbe rappresentarlo.
Sherlock però non dimentica, non può. Il modo in cui i suoi stessi
occhi lo hanno trapassato da parte a parte, la durezza dell’impatto della furia
polare che trasmettevano, l’insofferente avversione di quegli occhi, i suoi stessi occhi. Ed è stata quella ragazza a dipingerli, quella ragazza.
In quel momento, Sherlock sa di avere nello sguardo lo stesso lampo che
lei ha così efficacemente, precisamente ritratto. Non gli importa. A che pro
nasconderlo? A che pro nascondersi? Lei
l’ha visto e tanto basta.
- Mia cara, potete spiegarmi il vostro lavoro? È assai differente da
qualsiasi altro che oggi abbiamo avuto il piacere di osservare.
La ragazza inclina la testa (se fosse un poeta, Sherlock scriverebbe
che il collo di lei è perla scolpita, avorio plasmato su un puntello di ferro),
soppesa lui e il professore e per un lungo intervallo non pronuncia alcunché,
non si difende. – Ed è un male? – chiede alla fine, con una certa innocenza che
nella sua schiettezza è anche spavalderia.
- Certo che no, non necessariamente – la rassicura il professore e si china
a studiare con rinnovato impegno la tela, grattandosi la radice del naso, lì
dove la molla degli occhiali a pince-nez devono stringere spiacevolmente.
Sherlock ha visto a
sufficienza. Rivolge un’occhiata sprezzante alla ragazza, che ha già ripreso ad
armeggiare con i pennelli, e volta decisamente le spalle alla scena.
Via dalla ragazza, lontano da lei e dal quadro, dagli occhi
maledetti che ha ritratto. Occhi tormentati, occhi di un dannato che non
conosce riscatto, ma solo una notte perpetua.
Via, sotto cieli che non gli sono mai stati sconosciuti, anche quando
erano pieni di segreti.
La ragazza che svela segreti che non le appartengono. La pittrice che
dipinge il vero, che lo rende vero.
Ed entrambe osservano, dedite a ciò che fanno. La dedizione è qualcosa che
Sherlock può comprendere, anche arrivare ad ammirare. L’abnegazione assorta nel
fare quanto si ama, il mestiere di essere liberamente chi si vuole e che solo
pochi, quelli con un intelletto flessibile e una volontà abbastanza forte da
non lasciarsi abbindolare dalle lusinghe di soldi e gloria, riescono a cucirsi
addosso come una seconda pelle, l’ombra di un vestito che una volta indossato è
per sempre.
Nasciamo nel dolore e con dolore ci destiniamo a noi stessi. A volte ci
smarriamo per strada, perdiamo di vista chi siamo, ci confondiamo tra ciò che
vorremmo e potremmo e dovremmo essere, dimentichiamo chi siamo stati o già
siamo. Il cambiamento è una scelta, ogni cosa lo è.
Anche in questo caso si tratta di una scelta e la moneta, dopo essere
stata lanciata, pende da entrambe le parti, senza decidersi a cadere su un lato
e decretare la vittoria di uno e il fallimento dell’altro.
L’osservato, che ha dimostrato la sua doppia natura nell’identificarsi
anche come osservatore, è uscito in fretta e furia dalla stanza in cui è stato
un quadro vivente, oltre che un manichino. In quella stanza ha scoperto una
verità scomoda. Ha scoperto che la noia che prova non è poi distaccata come
sperava. La smania di sangue e fuoco che gli scorre nelle vene sotto forma di
adrenalina, che è un nervo scoperto, non è più un segreto che appartiene a lui
soltanto e questo perché lei, quella ragazza dal volto qualunque e il collo di
cigno, glielo ha rubato. Ha fatto di peggio. Ha gettato in pasto al mondo il
suo segreto. Chiunque abbia occhi per osservare, ora saprà, vedrà.
Oh. L’illuminazione è come uno strappo. Che sciocco è stato. Occhi per
osservare. Nessuno ha occhi simili. Fa parte del gioco, è il motivo della sua
voglia di fare tutto a pezzi, che lo spinge a giocare al rimpiattino con quel
mondo ogni giorno più scontato, claustrofobico, banale fino ad essere
imbarazzante. Come ha fatto a non pensarci? Lui è al sicuro. Paradossalmente,
nel mondo che odia perché non ha più segreti per lui che valga la pena di
scoprire, il suo segreto è al sicuro. Solo lei, lei sola lo possiede. Lei che,
a differenza del resto, possiede gli occhi giusti, gli occhi che osservano,
catturano la verità del tempo. Lei sola conosce il suo segreto, così facendo
conosce lui.
Ciò non toglie che voglia protezione, una sorta di garanzia che lo
tuteli. Un modo c’è, deve esserci. La soluzione in effetti è di una semplicità
che disarma. Basta che la pittrice gli renda il quadro incriminante e il
problema sarà risolto, l’inquietudine smantellata via dal suo animo. Sherlock
aspira un’ultima volta la sigaretta e poi la pesta sotto la suola della scarpa
con ferocia.
Lei è appena uscita dal portone strombato, sotto braccio reca la tela
enorme, incartata alla meglio con carta marrone da pacchi e cordicelle di
spago.
Non sapendo cos’altro fare, Sherlock la segue.
Molly si ferma. Tranne alcuni signori attempati che sfamano i piccioni,
assiepati intorno alla fontana, Place des
Vosges è deserta, col crepuscolo che scolora sui tetti blu ardesia dei
caseggiati e preme alle mura della città, pronto ad entrare senza bussare o
attendere che qualcuno faccia gli onori di casa.
La neve sotto i suoi passi cricchia come ghiaia e allo stesso modo lo
fa sotto quelli di lui che la tallona.
Molly non crede che lo stia facendo con cattive intenzioni. Se così fosse,
sarebbe un pessimo inseguitore. Ma non sa perché lo stia facendo e la cosa la
impensierisce, anche se non nella misura in cui dovrebbe. Impensierita, non
spaventata. No, Molly non ha paura. Che cosa dovrebbe temere? Lui è come l’uomo
nero delle storie. È scuro in volto, neri i capelli che sono una criniera
indisciplinata e neri il lungo cappotto, i guanti di pelle che indossa. Macchie
di colore in quel mare nero inchiostro sono la bella sciarpa di seta blu e gli
occhi, di un colore indefinito tra il verde e l’azzurro, simile al verderame
dei tetti della Parigi che ama.
Restia a trovar rifugio nell’abbraccio sicuro, ma gelido del proprio
appartamento, Molly si volta con determinazione e cammina a passo svelto nella
direzione opposta a quella che stava percorrendo, verso di lui. Non sa come si
chiami, sa solo che c’è qualcosa di selvaggio e indisciplinato in lui, che deve
essere un contestatore per natura e che questo le piace e molto. A pelle, senza
che abbia aperto bocca, lui le piace già più di quanto sia lecito o di quanto
lei apprezzi.
Infatuazioni degli occhi, le chiama tra sé. Non le capita spesso, ma non è la prima volta. Di
solito si tratta di entusiasmi brevi, non duraturi, lampi di ispirazione di cui
si serve per dipingere, che sfrutta a proprio vantaggio. Questa volta,
presagisce, arrivandogli di fronte e fermandosi di colpo, non sarà quello il
caso.
- Vi ho notato, sapete – esordisce con una nota di durezza che per lei
è rara. – Che mi fissavate, durante la sessione.
Il che è un modo abbastanza brusco per iniziare una conversazione o
cominciare a conoscere qualcuno, ma a lui non sembra importare. Un angolo di
bocca gli si solleva ed è un sorriso recalcitrante quello che le concede, quasi
un premio per la sua impertinenza.
– Uno studio reciproco – dice e la sua voce ha un pizzico di divertita
provocazione, l’invito a una sfida al confronto.
- Io l’ho fatto perché dovevo.
- Anche io. Mi annoiavo terribilmente.
Qualcosa nel suo tono sembra sottintendere che lei sappia di cosa
parli. Molly non è sicura di sapere a cosa si riferisca. Lo diventa nel momento
in cui coglie lo sguardo di lui che, di sottecchi, osserva il quadro che ha
sottobraccio.
- È per questo che mi avete seguita? – domanda a bruciapelo.
Lui esita visibilmente prima di affermare in modo asciutto: - Non
gradisco l’idea che qualcosa di mio possa andarsene in giro per proprio conto.
Molly si morde le labbra. Una parte di lei propenderebbe per offrirgli
il quadro su due piedi, talmente è lampante ormai che sia quello il motivo per
cui l’ha seguita. In fondo l’idea che il suo dipinto l’abbia colpito a tal
punto da costringerlo a pedinarla la diverte. D’altro canto a quel quadro già
tiene. Se ne rende conto adesso che sta prendendo seriamente in considerazione
l’eventualità di disfarsene. Lo farebbe a malincuore, ammette a se stessa. Non
perché sia uno dei suoi quadri migliori, tecnicamente parlando, né perché sia
particolarmente riuscito o ben realizzato, ma c’è qualcosa, nel risultato
finale, che le è sembrato di buon auspicio, che l’ha soddisfatta.
– Andrete a reclamare come vostri anche i quadri di tutti gli altri?
È una richiesta legittima la sua, lui stesso deve riconoscerlo e il
modo in cui serra la mandibola ne è un attestato.
- No.
Molly lo fissa in faccia, quella stessa faccia che dopo ore di studio
sa che riuscirebbe a dipingere ad occhi chiusi, appellandosi alla memoria,
senza remore o timidezza. – Dunque è solo il mio che volete.
Un cenno di assenso, insieme a una bassa imprecazione, è quanto ottiene
da lui in risposta.
Lo fissa a lungo, stabilendo il da farsi, anche se in fondo ha già
preso la sua decisione. – D’accordo, ve lo darò.
Lui sgrana gli occhi ed è così ridicolo a vedersi che Molly riesce a
stento a trattenersi dal ridere. È ovvio che non se lo aspettasse. C’è da chiedersi
cosa si aspettasse, di preciso, come pensasse di agire. Temeva di essere
costretto a sfilarle il quadro da sotto il braccio, rubarglielo e scappare via
come un ladro? Ladro
di quadri. In questo caso, ladro di
specchi. L’idea è assurda e la fa ridere di cuore.
Gli occhi di lui la osservano ridere, confusi nella loro incomprensione
di quanto sta accadendo.
- Ve lo consegnerò, ma a una condizione.
- Sono disposto a pagarvi.
- Non voglio denaro – nega Molly con fermezza. – Solo questa promessa:
che voi non distruggiate il quadro e che mi permettiate, qualora ne avessi
voglia, di vederlo.
Le sopracciglia di lui sono così aggrottate che le sembra di avere
davanti il suo quadro. – Queste sono due condizioni.
- Avete ragione – commenta Molly, mitemente. – Accettate?
Lui sospira. – Accetto.
- Bene. Come intendete siglare la trattativa? Col sangue? Facciamo
all’irlandese? Uno sputo e una stretta di mano?
Non è seria, naturalmente. Intende solo punzecchiarlo un po’. Con
quella sua altezza torreggiante che lo fa svettare sopra di lei, l’aria
impenetrabile di boria e le scure sopracciglia che quasi mai si distendono,
assomiglia al personaggio di una favola dei fratelli Grimm, il Cacciatore Infaticabile
che mai conosce riposo perché deve dare la caccia al Lupo Cattivo o il Gemello
d’Ombra di un principe maledetto da una Strega. Naturalmente lui non sta al
gioco, ma neppure sembra prenderla sul personale.
– Non sono irlandese – replica, flemmatico – e dubito che voi lo siate.
Non ne avete l’accento.
- Vero – concede Molly con un sorriso che non riesce a scucirsi dalle
labbra, per quanto ci provi. È ancora inverno, ma quell’uomo in nero sembra
averle portato un brivido che le ricorda l’autunno, con il sidro di mele e le
castagne cotte. – Allora facciamo così.
Prima che lui possa prevederlo, dandosi da sola della pazza, Molly
segue l’impulso del momento. Si solleva sulle punte e afferrandolo per il
bavero del cappotto lo tira a sé, verso il basso. Le sue labbra trovano quelle
di lui ed è un bacio casto quello che segue, entrambi hanno gli occhi
spalancati (in quelli di lui la sorpresa rincorre sprazzi di un’emozione che pare
agitazione e insieme smarrimento), in petto il cuore le batte come un tamburo.
È un bacio che funge da sigillo alla promessa che si sono scambiati.
- Affare fatto – gli soffia sulle labbra che sono screpolate quasi
quanto le sue e gli porge il quadro, scansandosi. Senza aspettare un secondo di
più, si gira e inizia a incamminarsi verso casa, il tepore del bacio rubato che
le scotta sulle labbra e assomiglia all’improvviso bruciore provocato da una
bevanda calda assaporata troppo in fretta.
- Sherlock – lo sente dire quando è abbastanza lontana da correre il
rischio di scambiare la voce di lui per il richiamo del vento.
Si volta e lui è lì dove lo ha lasciato, nell’identica posizione, ma
con un’espressione solenne, a tratti formale, che ha sradicato quella di
strabiliato stupore del dopo bacio e non ha nulla a che vedere con la riservata
compostezza che ha mantenuto durante l’intera conversazione.
Mette le mani a coppa ai lati della bocca ed esclama di rimando: -
Molly!
Lo vede assentire prima che si volti e lo segue finché può, finché lui,
Sherlock, non scompare nell’orizzonte che ora è una linea nera e sfocata dalla nebbia.
II.
(1891-92)
Quell’inverno non è da
annoverarsi tra i più miti, inoltre appare interminabile.
Nelle giornate che lo compongono,
che si accorciano come una veste lisa per i troppi anni di utilizzo, non è il
riverbero dell’aurora a svegliarla ogni mattina, ma la tenebra fluida e compatta
che la precede, che le si stringe sopra come un sudario.
Ed è nelle nebbie che serpeggiano
inesorabilmente per i vicoli di Parigi, nella fragranza appetibile delle baguette dei panifici (le saracinesche ancora abbassate come ghigliottine sulle
entrate, quando lei vi passa davanti) che le fa svaporare il freddo pungente
dalla mente; è nelle aurore che avanzano con placida calma, per strade
conosciute palmo a palmo, familiari come il cortile di una casa che non ha mai
avuto da bambina o che non ricorda più; è quando Molly è già per le vie della
città da così tanto da avere l’impressione di aver dormito all’addiaccio; è allora che l’alba la coglie, pronta alla sua postazione, attrezzata, i pennelli
pronti e la distesa di Parigi che si dischiude come la corolla di un enorme
fiore alla vigilia del nuovo giorno, impigrita e neanche lontanamente saziata
dalle lunghe ore notturne.
Si prospetta un inverno pesante, quello e la fatica inizia a farsi
sentire ben prima di Natale.
Natale è qualcosa di triste, nonostante i riverberi da festa ininterrotta
che abbelliscono i boulevard e i quartieri raffinati o le graziose chincaglierie che nelle stradine
meno panoramiche comunque fanno il loro avvento nelle vetrine, ornate per
l’occasione con ghirlande e nastri. La neve si tinge di petali fuori stagione
ed è impregnata dell’aroma di caramello e canditi, della cioccolata calda che
viene venduta all’ingrosso nei chioschi ambulanti.
Natale è sempre triste, lo è dai suoi sedici anni, dall’addio alla sua
prima casa. Natale serve a ricordarle la sua solitudine.
Il gioco delle smorfie allo specchio non serve più, non basta a
contenere lo sfacelo.
Lo specchio non mente, è come i ricordi: perseguita. Non mente quando
le mostra occhi sanguigni per i troppi capillari rotti dall’insonnia, un
colorito esangue e occhiaie che disegnano strisce violacee di confinamento attorno
alle palpebre. L’interno del pollice ha una vescica che è scoppiata, non ha
ancora fatto in tempo a rimarginarsi e sulle altre dita l’acqua freddissima del
rubinetto le ha procurato screpolature che si sono spaccate in tagli, non
troppo profondi, ma che quando muove le mani suonano una cacofonia di fitte
dolorose. Inoltre, da un paio di giorni, una tosse acuta le perfora la schiena,
la squassa come se un’accetta la stesse spaccando dall’interno.
Pensando alla tosse, l’istinto di tossire è quasi incontenibile, occupa
lo spazio destinato a qualsiasi altro pensiero. Si vieta di assecondare
l’impulso. Si porta invece una mano alla bocca, la copre col dorso e aspira
l’aria profondamente, a boccate, come un annegato che riesca a sfuggire al
risucchio del mare grosso.
Tutto quello che Molly desidererebbe è rintanarsi nel letto. Gli occhi
le bruciano e sente la pelle scottare sotto le dita. Il pagamento dell’affitto,
tuttavia, è prossimo, insieme al Natale. A Natale nessuno presta attenzione a
un’artista di strada e ai suoi dipinti. I passanti si rivolgono alle vetrine
che luccicano per le ghiottonerie che contengono, sono come girasoli che
cercano nella luna d’inverno la luce del sole d’agosto e si accontentano.
Tornare a letto e restarci. Abbandonarsi all’oblio di un sonno che non
sarà senza sogni e probabilmente non la ristorerà, ma la rimetterà in forze. Se
lo fa, dovrà dare in pegno alla padrona di casa la pelliccia di sua nonna.
Dovrà dire addio a un altro pezzo del passato, svenderlo perché non è capace di
provvedere a se stessa.
Tremando malamente nel maglione da marinaio, Molly fa la sua scelta.
Le scelte, si sa, sono sempre i primi passi che conducono al
cambiamento.
Il cavalletto non è mai stato leggero, ma neppure tanto pesante e la
strada verso La Butte, la collina che si affaccia sugli arrondissements che predilige, le risulta impraticabile.
Nella neve che le cade sulle spalle, sulla testa china come cenere,
avanza lentamente, testarda.
La pelliccia di sua nonna, è la riflessione che si rincorre negli anfratti cavernosi della mente
e ne sparge l’eco in un accento di inesorabile risoluzione.
Questa è l’ostinazione degli sciocchi, la avvertirebbe sua nonna.
Nonna. Mani ossute in cui la fede nuziale oscillava visibilmente senza
riuscire più a far presa sulla carne. Occhi di un azzurro acquoso, ma limpido,
pulito. Alla fine, no, Molly preferisce non pensarci.
Non rimuginare sulle cose vecchie, Molly
tesoro, guarda a quelle che ancora ti aspettano e sono davanti a te.
Fiocchi di neve le si posano sulle guance, sul naso, sulla fronte come
lacrime ghiacciate. Molly serra la presa intirizzita sull’attrezzatura mentre
tutto si fa nebuloso, i contorni degli edifici, dei balconcini, delle persiane
diventano imprecisi e l’acciottolato del marciapiede irrompe bruscamente nel
suo campo visivo, surclassando il resto.
L’ultimo barlume di coscienza è occupato dall’angoscia, dal ronzio di
un intero alveare nelle orecchie, poi il buio le schiaccia le palpebre. Nessuno
chiama aiuto e il silenzio aldilà del ronzio è suo unico compagno insieme
all’ululato del vento.
La prima volta che si sveglia è perché qualcuno sta cercando di farle
bere un intruglio amaro. Le va di traverso e Molly è scossa dagli spasmi della
tosse. Mani rugose e ferme la bloccano allora per le spalle, cotone ruvido di
lenzuola sfrega contro le sue gambe nude mentre un’altra persona le tiene fermo
il braccio e l’ago di una siringa si fa strada nella carne, in una vena. La
resa è coercizione.
Il secondo risveglio è come la scalinata che percorre per recarsi alla
sua postazione preferita, più impervia che mai. Infiacchita nei movimenti,
sentendosi una tartaruga o un castoro dopo il letargo, Molly spazia con gli
occhi socchiusi per la troppa luminosità, divora fin dove le è possibile i
particolari dell’enorme locale in cui si trova e che le è del tutto estraneo.
Ci sono letti ai lati del suo e una lunga fila gemella di letti da
campo le è dinanzi. Ampissime finestre a riquadri si aprono in alti soffitti a
volta color ocra, sverniciati e con pezzi di intonaco che sembrano sospesi nel
nulla. Malgrado lo stato di deterioramento e lieve incuria che dilaga,
l’ambiente sembra pronto a raccontare storie antiche, intenzionato a seguire il
corso degli eventi secolo dopo secolo e a non lasciarsi abbattere dal tempo o
dalla volubilità dell’uomo, ora alleato ora nemico.
Molly prova un’immediata affinità con il luogo e cerca di non badare
all’esalazione di medicinali e secrezioni umorali che respira, ai catini
sporchi di sangue, alle bende giallastre per le infezioni, alle urla che di
quando in quando squarciano il velo di calma, ai medici che si fanno largo
nell’affaccendarsi delle suore-infermiere. Si concentra invece sul profumo
affusolato che proviene dalle finestre aperte, probabilmente dal giardino che
si affaccia su un cortile interno: terra bagnata e pioggia e orti.
L’ospedale ospita altri malati, alcuni sono poveri disgraziati dalle
barbe incolte e dalle espressioni stralunate, che salmodiano suppliche e questuano
oboli in un mantra ininterrotto, battendo i pochi denti che possiedono. Nel
letto dirimpetto al suo c’è una giovane donna dai capelli folti e morbidi in
avanzato stato di gravidanza, con lo sguardo perso nel vuoto. Non porta anelli
e la disapprovazione delle suore-infermiere più anziane le sarà valsa
l’imperitura amicizia delle più giovani, per motivi di solidarietà, forse
perché anche loro sottoposte in passato allo stesso trattamento di censura e
critica.
C’è un uomo con una gamba steccata, a cui un dottore sta parlando con
tono di voce amichevole e straordinariamente pacato. È di spalle e Molly ne
considera distrattamente il profilo corpulento. Si sofferma piuttosto sull’aura
di bonarietà che emana e la competenza che dimostra mentre lo segue nel suo
giro di visite, prima che arrivi il suo turno e che si fermi di fianco al suo
letto.
- Oh,
siamo svegli! – esclama il dottore con un’allegria che non suona affatto forzata.
– Bene, più che bene. Ci avete fatto molto preoccupare, chère Mademoiselle. C’è stato un momento, la scorsa notte, in cui abbiamo seriamente
temuto di perdervi, ma è tutto passato ora. State meglio, vedo. O quantomeno lo
è il vostro colorito. Negli ultimi tempi non avete trattato con la dovuta
cortesia il vostro fisico, vero?
All’accusa implicita Molly si sente arrossire, ma è la vergogna di un
secondo. Le priorità sono i conti da saldare e ora quelle priorità sono
retrocesse di fronte a una nuova fiammante.
– Il mio lavoro non me lo ha permesso – ribatte, cincischiando le sillabe
come ha sentito fare alle prostitute dei bordelli. Si accorge all’istante di
aver commesso un passo falso. Avrebbe dovuto accompagnare la dichiarazione con
un’occhiata sfacciata, invece l’abitudine e la stanchezza l’hanno condotta per
un diverso sentiero: tono dimesso e sguardo rivolto in basso. Non il modus
operandi di una donna di strada, poco ma sicuro.
L’occhiata di cauta diffidenza del dottore le conferma che la tattica
non abbia funzionato e che sia ben lontana dal convincerlo del contrario.
- Sarete lieta di sapere che la vostra attrezzatura è in custodia
presso la guardiola nell’atrio.
Molly non batte ciglio, non conferma né fornisce indizi che servano a reclamarne
il possesso e l’uomo sospira, divertito e per buona parte rassegnato di fronte
alla lotta che lo attende. Prende la sedia e se la porta vicina, poi si accomoda,
si gratta un sopracciglio e intreccia le mani sopra le ginocchia, scrutandola
apertamente, ma senza la minima traccia di ostilità o antipatia. – Siete un
tipo deciso, Demoiselle …?
Molly non intende rivelarglielo. È al corrente di come funzionino gli
ospedali e non ha abbastanza soldi per permettersi il trattamento di riguardo
che fino a quel momento solo l’anonimato le ha concesso in grazia. Una donna
mezza morta trovata in un vicolo di Parigi al sorgere dell’alba. No, non ha
intenzione di sviare i sospetti che devono averla accompagnata fin lì, scorta ambigua
e indesiderata, ma che ora hanno il suo benestare.
- Immagino che possiate comprendere per quale motivo mi occorre la
conferma del vostro nome e che su questa base giustifichiate l’insistenza con
cui sono costretto a chiedervelo. Sono informazioni strettamente necessarie per
la compilazione della vostra anamnesi e di conseguenza anche di grande
rilevanza per la scelta dei farmaci che dovrò prescrivervi. Potete almeno
rispondere ad interrogativi basilari? Età, dipendenze, malattie ereditarie in
seno alla famiglia di origine? Devo avvertirvi che in base a quanto ho potuto
osservare siete al primo stadio di malnutrizione, pertanto vi consiglio di
variegare la vostra alimentazione. Posso procedere con le mie domande?
Di fronte al suo silenzio prolungato, il dottore afferra finalmente il
concetto, tuttavia non sopraggiunge acrimonia.
Molly si accorge che dietro le lenti ovali degli occhiali da vista c’è
un paio di occhi gentili, di una calda tonalità di grigiazzurro e che, se anche
assomiglia a una smorfia affaticata in quel momento, il suo sorriso è quello
delle persone che non si arrendono, che sono abituate a cercare i lati buoni di
ogni situazione.
Si chiede cosa veda in lei, se ci siano ancora lati buoni su cui gli
occhi di questo dottore sconosciuto, di quest’uomo perbene possano far presa. Sorprendendo
il dottore, ma per prima se stessa, Molly risponde: - Può.
- Quanti anni avete, Mademoiselle?
- Ventitré.
Il dottore si avvia a trascrivere tutto su un taccuino che aveva nella
tasca del camice, ma già distoglie lo sguardo dagli appunti e le rivolge una
breve occhiata stupita. Sì, Molly conosce la solfa su quanto sembri più giovane.
La statura, il fisico acerbo e il viso da ragazzina non l’aiutano esattamente
nel ruolo di femme
fatale.
Se anche la sua faccia manifesta palesemente dubbi al riguardo, il
medico non esprime a voce la sua perplessità e procede come se nulla fosse.
– Domicilio in città?
Molly tentenna sulla risposta da offrirgli.
Intuendone la ragione, il medico le sorride con fare bonario. – Non
intendo sapere dove abbiate residenza, ma solo se questa si trovi in città.
Lei si rilassa. – Fino ai sedici anni in campagna, dai diciassette qui
a Parigi.
- Stato di famiglia?
- Nubile.
- Avete parenti prossimi?
- Nessuno. Mia madre è morta per complicazioni durante il parto, mio
padre di tifo quando avevo nove anni, mia nonna li ha seguiti quando ne avevo quattordici.
- Quattordici – ripete atono il dottore. – Chi si è preso cura di voi
nei successivi tre anni?
Le labbra di Molly si piegano in sorriso storto. – Non vedo come questo
possa ritornarvi utile ai fini della mia anamnesi.
- Chiamatelo difetto del mestiere.
- La curiosità è donna o così dicono.
- Dicono anche che spalanchi le porte dell’inferno, che uccida felini incolpevoli
e che sia sintomo di squilibrio mentale. L’ultima volta che ho avuto modo di accertarmene
non ero un gatto, non ero pazzo e mi è stato assicurato di avere ancora molti
anni a venire prima che quelle porte si aprano per me, perciò indulgete nel mio
desiderio di essere indiscreto.
Il dottore le strizza l'occhio e la presa con cui Molly stava
stritolando le coperte si allenta di colpo e un insospettabile risata le si fa
largo in gola. Suona esageratamente rumorosa e squillante, ma anche ansimante,
come il verso di un animale braccato troppo impegnato nella fuga per riprendere
fiato. Alla fine è con un rantolo e il bicchiere d’acqua che il dottore le
porge con sollecitudine insieme a un acciglio preoccupato che Molly sprofonda
nei cuscini, svuotata e senza energie.
Soltanto quando si è accertato che la crisi sia davvero superata, il
dottore le rivolge un sorriso che cerca d’essere sagace. – Era una battuta, ma
neppure particolarmente buona, sapete. Per il futuro dovrò ricordarmi di
contenere al minimo la mia verve in vostra presenza. Vi ho curata dalla
polmonite, ma dubito che sia stato scoperto un farmaco che curi i danni di un
pessimo umorismo. Ora riposate.
Il dottore le dà un buffetto paterno sulla spalla e l’associazione è
completa, ogni tessera ha trovato il suo posto, ricomponendo il disegno finale.
Ora Molly sa perché, non appena l’ha visto, ha provato quel prepotente istinto
di autoconservazione. Sa chi le ricorda e la somiglianza è meno astratta che
mai.
- Magdalen Hooper – dichiara d’impulso. – È il mio nome. Molly, per gli
amici.
È evidente che il dottore non capisca. Molly non lo biasima, fino a un
attimo prima neppure lei c’è riuscita.
- Mi ricordate mio padre – rivela. – Anche lui era un dottore e l’ho
visto fare per anni proprio quello che voi vi apprestavate a fare. Sono nata in
un ospedale e ci ho trascorso tutta la mia infanzia, conosco le dinamiche
interne del sistema sanitario e so perché era vostro dovere insistere sul mio
nome. Vi serviva per l’anamnesi, ma conosco la procedura e so che, in caso di
pazienti non identificati, il Sistema Statale detrae le spese delle loro cure
mediche dal salario del medico che li ha avuti in cura. – Molly si puntella sul
gomito per stare più dritta, non sa se è la febbre a parlare o ciò che ne
rimane. Sorride con tristezza. - Ma voi siete come mio padre. Non mi avreste
mai costretto a rivelarvelo perché sapete che probabilmente non posso
permettermi le spese di un ricovero prolungato.
Lui la valuta con una strana fissità negli occhi che le risulta
impossibile da decifrare. - Mike Stamford – dice, alla fine.
- Come, prego?
Il dottore si stringe nelle spalle con naturalezza. - È come mi chiamo.
E sappiate che non vi credo, Mademoiselle.
Molly sta per rispondergli per le rime, ma lui la tacita con una mano
sollevata e uno sguardo significativo. Il messaggio è chiaro. Fidatevi. Lasciatemi fare.
- Non credo che siate chi dite di essere. Non intendo perciò macchiarmi
di spergiuro, scrivendo il falso nelle mie cartelle cliniche.
Il dottor Stamford le fa un cenno d'intesa prima di passare oltre,
dedicarsi al prossimo malato.
Molly si stende su un fianco, assimilando la portata di quanto è appena
successo e nasconde sotto il lenzuolo il groppo commosso che ha in gola, gli
occhi che sono lucidi, ma non di febbre.
Nelle settimane che seguono, tra lei e il dottor Stamford si instaura
un rapporto di reciproca stima che potrebbe gettare le basi per un’amicizia di
lunga data.
Molly lo ammira, non perché le rammenta suo padre. È un uomo
intelligente e intuitivo, ma anche estremamente ironico e quando sorride le fa
venire in mente un pupazzo di neve.
Ogni sera o durante la pausa pranzo, il dottor Stamford viene a sedersi
accanto al suo letto e le porta una copia del quotidiano Le Figaro e ritagli di altri giornali con racconti d’appendice con cui riempire
il tempo senza che l’ozio prenda il sopravvento.
Molly gli è grata, cerca di ricambiare come può. Il dottore schernisce
i suoi continui ringraziamenti, le sue parole di lode sembrano imbarazzarlo al
punto da convincerla a smettere di rivolgergliele.
Fa amicizia con una delle infermiere anziane, Suor Gervaise e con la donna dai bei capelli di grano dorato. Si chiama Jill (all’anagrafe
Jillian Fulbert) e dall’oggi al domani partorirà il bambino che l’ostetrica,
dopo averle tastato l’addome per quelle che sono parse ore, dà per scontato che
sarà un maschietto. Si sono scambiate le loro storie come fossero carte da gioco,
senza indulgere più del necessario in dettagli spiacevoli o descrizioni
accurate. Entrambe sanno che i muri hanno occhi e orecchie e che ogni verità
potrebbe venir loro ritorta.
Jill è una ragazza madre, rea dell’aver amato l’uomo sbagliato e di
essersi lasciata accecare da quei sentimenti, ma che, quando l’abbaglio è svanito,
ha avuto abbastanza prontezza di spirito e buonsenso da fare fagotto e
allontanarsene. Molly non gliene fa una colpa. L’amore è una bestiolina che
nessuna moina riesce ad addomesticare e che può rivolgerti gli artigli adesso
come mai.
Si sta rigirando i pollici, le dita che le prudono per la voglia che ha
di ritrarre il sogno che l’ha accompagnata tutta la notte senza darle tregua. Un vestito fatto di fiori. Il mostro
dietro l’uomo. Una landa di nebbia spazzata via in un istante da un’esplosione
di fuoco blu e viola.
Da lontano vede arrivare Suor Gervaise con una pila di lenzuola fresche
di bucato e si appresta al solito scambio che inaugura ogni nuovo giorno.
Suor Gervaise è una donna robusta sulla sessantina, senza peli sulla
lingua e con impetuoso sangue scozzese che le scorre nelle vene. Non si
trattiene nella stessa ala dell’ospedale per più di mezz’ora e non sembra
conoscere pace. È perennemente in movimento e niente, tranne la messa della
Domenica e la confessione del sabato pomeriggio, riesce a trattenerla con i
piedi ancorati al suolo. Si vocifera che anche di notte la si veda darsi da
fare, sonnambula, a sistemare scaffali e armadietti.
- Bonjour, ma petite
fille. Comment ça va?
- Bien, merci.
Molly si tira a sedere e lascia che Suor Gervaise la aiuti ad occupare
la sedia mentre lei procede con il cambio di lenzuola. Una volta finito, la
assiste mentre si infila nuovamente sotto le coperte.
- Hai la faccia di qualcuno che non ha chiuso occhio - commenta, mentre le passa la spazzola e lo
specchio perché si dia una sistemata.
Osservando il proprio riflesso, Molly non può non darle ragione.
- Si è lamentata tutta la notte – si intromette Jill, che sta disfacendo
con dita abili la treccia serale. – Ad un certo punto si dimenava così tanto
che ho temuto sarebbe ruzzolata giù dal letto!
Suor Gervaise le toglie la spazzola di mano e con pochi colpi decisi
sgroviglia il nido di rondine che ha in testa. – Se hai problemi a dormire,
puoi sempre chiedere al dottor Stamford di darti qualcosa contro l’insonnia.
Molly si morde l’interno delle guance, prima di rispondere. – Non
soffro di insonnia e non ricordo di essermi agitata. Ho avuto un incubo, ma
nulla per cui valga la pena preoccuparsi.
Il contatto della mano di Suor Gervaise sulla guancia è lieve, come la
carezza a sorpresa di un raggio di sole. – Forse. Ma i tuoi occhi dicono una
storia diversa. Quando ti andrà di raccontarmela, sai dove trovarmi.
Molly lascia che le passi il vassoio con la colazione, poi prende le
sue medicine. Il formicolio alle mani è tornato, è come la sete quando sai che
non puoi avere acqua. Le sue dita fremono per il desiderio di ricoprirsi delle
macchie di colore dei pigmenti di vernice e la vescica sul pollice è svanita,
ricoperta da tessuto cicatriziale che è di un rosa appena più chiaro rispetto
alla carnagione circostante. Per un artista, creare è un’impellenza fisica,
come respirare o mangiare o sognare. Lei non si esime.
La mattinata trascorre lenta e trafficata nel viavai del personale
dell’ospedale. A quante pare dilaga un’epidemia che ha come sintomi di
riconoscimento i deliri della febbre e brividi di freddo e che consuma in un
paio di giorni coloro che se ne ammalano.
Molly impiega le ore prima del pranzo ad osservare i lavori
all’uncinetto di Jill, che sta cucendo il corredo per il bambino. Sono arredi e
biancheria di seconda mano, arrivati tramite Suor Gervaise direttamente dalle
donazioni fatte all’Ospedale e da destinare alle opere di carità che le suore
amministrano, ma Jill li tratta come se non fossero indumenti di lana grezza e mussolina,
ma di batista. Ogni punto è una pennellata d’amore, di orgoglio materno.
Sapendo dell’epidemia, non si aspettava che il dottor Stamford passasse
a trovarla perciò, quando lo vede impegnato per il solito giro pomeridiano tra
i pazienti, Molly se ne rallegra.
Il dottor Stamford le fa cenno di star buona e non sforzarsi. – Sono di
passaggio – le spiega, rivolgendo un’occhiata rapida alle sue spalle, quasi si
aspetti da un momento all’altro che qualcuno gli corra incontro per richiamarlo
in sala operatoria. - Mi è stato riferito che avete avuto problemi, questa notte.
Molly si trattiene dall’imprecare coloritamente e lancia uno sguardo di
fuoco a Jill. Ecco, questo è esattamente cosa voleva cercare di evitare. Per
nulla turbata, Jill intasca l’occhiata come un bacio volante e gliene scocca uno
vero in punta di dita.
L’irritazione di Molly si disperde in un sospiro. – Così è stato
riferito anche a me.
Il dottore si avvicina e si china per tastarle la gola. – Fatemi controllare.
Aprite la bocca e tirate fuori la lingua.
Molly esegue docilmente.
- No, le tonsille non sono ingrossate e non avete le pupille dilatate,
né vi trovo accaldata. Non ci sono ragioni che facciano temere una ricaduta. Volete
che vi prescriva un sonnifero per questa notte?
- Non credo che sarà necessario.
- Se lo diventasse, non esitate a comunicarlo a Suor Gervaise. Me lo
farà sapere. C’è qualcosa in particolare che vi ha tenuta sveglia, ad ogni
modo? Un malessere alle ossa o difficoltà respiratorie?
- Un brutto sogno, tutto qui. Mi dispiace avervi scomodato per una
sciocchezza del genere.
- Non mi sembrate il tipo di persona che si lascia scoraggiare da un
sogno. Deve essere stato uno particolarmente brutto.
- Non brutto. Solo… strano.
- Capisco. Posso fare qualcos’altro?
Molly esita. Il dannato prurito non è diminuito. – Il primo giorno,
avevate accennato alla mia… a dell’attrezzatura, custodita nella guardiola.
Sarebbe possibile farmela pervenire?
- Soltanto se promettete di non sforzarvi e di farmi un bel ritratto,
ma non uno che mi somigli troppo. Potete farmi passare per l’aitante sbarbatello
che sono stato o la ritenete un’impresa troppo ardua?
Con un sorriso Molly gli assicura che non lo sarà.
Tre giorni dopo, Suor Gervaise minaccia di portarle via i colori se non
si decide a riposare.
Le sue notti ormai sono diventate un exploit di immagini impossibili,
alcune incantevoli e altre crudeli, ma che hanno tutte una loro vividezza, una
che rende sbiadita la realtà al momento del risveglio.
Se le settimane di riposo forzato le avevano restituito un aspetto più
sano e colorito, bastano poche altre notti perché le sue guance si scavino e le
occhiaie ricompaiano.
Suor Gervaise non mantiene le sue minacce, ma il sesto giorno, dopo
giornate in cui le è stato riferito che sia stato impegnato giorno e notte al
pronto soccorso e a litigare con l’amministrazione per far accogliere altri
malati, allestendo allo scopo anche la sala dottori, quella delle conferenze e
la biblioteca universitaria, ecco che il dottor Stamford fa il suo ingresso. Il
suo passo è affaticato, ha le spalle curve per il peso del troppo lavoro o forse
delle troppe lotte interne.
- E allora – esordisce, lasciandosi cadere di schianto sulla sedia e
allungando le gambe nello spazio davanti a sé. – Suor Gervaise sostiene che vi
rifiutate di riposare come dovreste e che respingete le raccomandazioni che vi
vengono rivolte. Cosa avete da dire a vostra discolpa?
Molly sa di essere in torto, ma non può cambiare questo stato di cose
ed egoisticamente neppure desidera farlo.
- Permettete?
Il dottor Stamford allunga una mano per sfiorare la cartellina di pelle
in cui lei ha raccolto i lavori per cui Suor Gervaise si è tanto affannata a rimproverarla
di incoscienza e avventatezza, ma non accenna a prenderla, aspettando che lei lo
autorizzi.
Molly gliela porge con un gesto fiacco.
Lo vede scorrere i suoi sogni e soffermarsi su ogni disegno con occhio
allenato da estimatore.
Una landa di nebbia. Una donna dai
capelli d’acquamarina che indossa un’armatura di fiori. Un mantello su cui sono
state cucite piume d’aquila dalle tinte vivaci. Tre Facce identiche che appartengono
a uomini diversi e hanno occhi cangianti di drammatica magnificenza. Una casa
su un albero in un Bosco con tronchi lisci e fronde viola, in cui l’erba è nera
e l’acqua dei torrenti è verde. Un sogno che non è un sogno e una realtà che aspira
a diventarne parte.
Le sopracciglia del dottor Stamford, se potessero staccarsi dal loro
posto, a quest’ora sarebbero ben oltre l’attaccatura dei capelli. – Li avete
fatti tutti voi, questi? È ciò che vi ha tenuta impegnata in questi giorni? Non
c’è da stupirsi che Suor Gervaise si lamenti del fatto che dormiate poco!
Molly stringe i pugni attorno alla stoffa della vestaglia. – Sentivo la
necessità di disegnare.
- La necessità, eh? – Il dottor Stamford si sorregge gli occhiali da
vista, ma non la biasima né azzarda giudizi. – Sono lavori mirabili – commenta e
glieli restituisce con grande riguardo.
Molly ne è lusingata, soprattutto considerando che si tratta di schizzi
e ‘larve’.
- Non vi verrà impedito di proseguire il vostro lavoro.
- Ma? – intuisce Molly.
- La mattina potete dedicarla a dipingere, ma il pomeriggio dovrete riservarlo
all’assoluto riposo. Non dimenticate il motivo che vi ha condotta qui.
Molly non può che acconsentire e dalla mattina successiva si adopera
con impegno sul famoso ritratto che le è stato chiesto.
- Non capisco proprio da dove ti venga tutto questo.
Jill è con lei su una delle panche sotto il pergolato che si affaccia
sul cortile interno, le mani occupate a spulciare i suoi disegni. Sono spalla
contro spalla, infagottate nel doppio strato di coperte e cappotti in cui Suor Gervaise
le ha avvolte. - Non vorrete ammalarvi di nuovo! – è stata l’accusa che le ha
convinte ad addomesticarsi a quell’imposizione.
- Si chiama immaginazione.
Jill le pizzica il fianco. – Sai di cosa parlo.
Sì, Molly lo sa. Si riferisce ai sogni di cui stupidamente ha avuto
l’imprudenza di accennarle. La sagoma di un bambino nell’ombra che indossa per
maschera un becco di corvo. Una città fantasma cinta da mura alte e squadrate
che hanno mille e mille porte di diversa fattura e grandezza, tutte prive di
serrature, che sono tranelli perversi per i cittadini del mondo che servono a
tenere imprigionati.
- Voglio che tu faccia da madrina al bambino.
La dichiarazione la strappa alle sue illusioni ad occhi aperti.
- Stai scherzando?
Si prende gioco di lei?
Jill fa una smorfia, le punzecchia il braccio, ma questa volta fa male
perché è seria. – Quando parlo di lui o lei non scherzo mai.
- Sono una pittrice di strada senza arte né parte.
- Da quel che vedo, di arte ne hai in abbondanza.
- Sai di cosa parlo. Non posso prendermi cura di un bambino.
Jill le rivolge un’occhiata in cui il sollievo è misto alla malinconia,
alla riconoscenza per non aver preso sottogamba le sue paure, non averla
tranquillizzata con moine frivole e rassicurazioni sciocche. Il parto la
preoccupa e vuole pararsi le spalle nel caso in cui qualcosa andasse storto,
non trattata con condiscendenza. – Non puoi o non vuoi?
Molly si prende i gomiti, rimirando le rifrazioni di luce che gocciolano
sulle snelle colonnine del patio innevato. Il sole dà loro rilievo e
restituisce una consistenza che il candore della neve, bianco nel bianco su
fondo unito, aveva affievolito. – Entrambe, credo. Riesco a malapena a
prendermi cura di me stessa. Puoi vederlo da te. Immagina come sarebbe con un
bambino.
- Io lo vedo, Molly. Ti vedo.
E vuoi sapere cos’è che vedo? Vedo una persona tendenzialmente distratta, che
spesso si dimentica di svolgere azioni basilari come il mangiare o il dormire,
che si perde dentro di sé perché nasconde un intero mondo. Ma anche una persona
che riesce a sognare cose come queste – le
mostra i fogli in cui gli schizzi a tinte vivaci sono involucri assoggettati a una
danza frenetica di orrore ed esultanza.
– Tu hai un dono, Molly. Chiamala immaginazione se vuoi, ma puoi vedere
cose che a pochi altri sono concesse. È a questa persona che sarei ben felice
di affidare mio figlio.
Cosa può dirle? Sperando che vada bene, Molly decide di imitare quello che faceva sua
nonna quando lei era piccola e cercava di farla contenta, regalandole i suoi
disegni. Quei cieli di zaffiro per cui piangeva disperata. Prende a coppa il
viso di Jill e le stampa un bacio sulla fronte. – Ne sarei onorata – mormora
turbata.
Jill le butta le braccia al collo e finalmente trova lacrime per le sue
paure senza volto, per tutti i fantasmi del suo passato.
E Molly si rende conto che la malattia, oltre che portarla in
quell’ospedale, le ha permesso di conoscere persone splendide come Jill, perfino
il privilegio di chiamarle ‘amiche’.
- Dopo il parto ho intenzione di trasferirmi ad Aubervilliers. Ho trovato impiego in una
sartoria. La proprietaria è una persona discreta e non farà domande sulla
paternità del piccolo.
Mentre le
comunica la notizia, Jill non distoglie lo sguardo dal suo lavoro di cucito e
l’ago si muove rapido, pressoché invisibile. È quando smette di parlare che
solleva gli occhi, posa il lavoro in grembo. – Non hai nulla da dire?
No, non ha
parole o perle di saggezza da regalarle né l’inutilità di un’approvazione. – Te
la caverai – risponde Molly ed è sincera.
Le rughe di
preoccupazione attorno alla bocca di Jill spariscono come per magia e le mostra
con fierezza il fazzoletto su cui sta ricamando il suo monogramma.
- Per lei voglio un nome forte.
- Lo sarà indipendentemente dal nome. Lo sarà perché è
tua figlia.
- Io sono diventata forte e così tu. A cosa abbiamo
dovuto rinunciare? Quanti pezzi di noi abbiamo perso o abbiamo deciso di
abbandonare per strada durante il processo? Voglio che sia forte, che sia
pronta a lottare per quello in cui crede, ma non voglio che sia costretta a
scendere a compromessi per conquistarsi un posto nel mondo. Voglio che sia a
suo agio con se stessa, che si trovi comoda nel suo corpo, che non si vergogni
mai di chi è o da dove proviene. Voglio che sia determinata e coraggiosa e
fiera.
- Vuoi che sia come te, ma senza il percorso di
complicazioni che ti ha portato ad essere ciò che sei.
- È un desiderio sciocco, vero?
- La conoscenza si muove mano nella mano con la sofferenza.
È il desiderio di ogni madre quello di risparmiare ai figli il dolore, ma il
dolore, lo sai, non è mai inutile.
Il parto è un affare scomodo, decide Molly. Scomodo e sporco.
Lascia che Jill le riduca in poltiglia le ossa delle mani e che le sue
urla la stordiscano. Il suo udito, decide, deve aver subito danni permanenti,
non sarà mai più lo stesso.
- Spingi un’altra volta! Si intravede la testa! – sbraita l’ostetrica e
Jill fa come le è stato ordinato. Spinge, spinge, spinge come se ne andasse della
sua vita, come se da quel fiume di sangue e liquidi nauseabondi dovesse uscire
un mondo nuovo e pulito. Jill sbuffa e ansima e il suo volto è viola per lo
sforzo, si è morsicata le labbra a sangue e ha gli occhi invasati, la voce
rauca per le grida di dolore a cui si è lasciata andare.
Suor Gervaise, all’altro capezzale, le tampona il sudore con una
salvietta umida e la incoraggia con parole di rassicurazione, progetti per il
futuro, per quando avrà il suo bambino e la fatica sarà solo un ricordo vago.
Un’ultima spinta, tutto il corpo di Jill trema per lo sforzo, ha come
un sobbalzo interno e poi si affloscia, inerme. C’è silenzio, le urla sono
sparite e perfino la notte sembra in ascolto quando un vagito spezza
l’incantesimo.
- È una bambina – comunica l’ostetrica, asciugandosi le mani in un
panno pulito di lino. – Ed è robusta e sana.
Le braccia di Jill sussultano quando le viene passato l’involto rosa e
urlante che è sua figlia, ma nonostante l’ovvia stanchezza lei serra la presa
sulla sua creatura con uno sguardo colmo di adorazione liquida.
– Guardala, Molly e dimmi se non è bellissima.
Molly si china a fare quanto le è stato detto. Vede un naso delicato e
una bocca che ulula, ma anche manine minuscole che afferrano il vuoto e una
lanugine di capelli fini che al tatto sono fili seta.
- Questa è Molly, Louise. Dovrai essere buona con lei perché la mamma
ha faticato come un mulo per convincerla a farti da madrina.
- Oh, sta un po’ zitta – fa Molly, burbera. – Mi stai facendo fare una
pessima impressione.
La risata di Jill suona chioccia, ma non meno musicale.
Molly sfiora la testolina che ora è posata sul seno di Jill. –
Piuttosto rumorosa. Questo lo ha di sicuro ereditato dalla madre.
- Speriamo che sia meno piantagrane di lei, allora.
Jill ha parlato piano, batte le palpebre lentamente e Molly si accorge
che il sonno sta prendendo il sopravvento, così si offre di prendere la
bambina.
Nota che Jill la scruta nella penombra e che ha corrugato la fronte. –
Sei sicura di volerlo fare? Adesso che l’hai vista non hai cambiato idea, vero?
- Me lo stai chiedendo sul serio?
- Sì. Non voglio che tu ti senta messa alle strette od obbligata a fare
alcunché.
- Hai ascoltato cosa ha detto tua madre, Louise? Sta già ritrattando la
mia nomina a tuo ipotetico tutore.
- Non dire assurdità, non è quello che ho detto. Stavo solo pensando
che…
- Pensavi a me quando dovresti pensare a tua figlia – la interrompe
Molly. – Santo cielo, chi non vorrebbe avere a che fare con questo angioletto?
Jill ha già gli occhi chiusi e il suo respiro è rilassato e regolare.
Molly si siede vicino al letto. La guarda dormire e si chiede come sembrerà
la vita quando tornerà ad essere sola.
Non essere sciocca, dice a se stessa. Non è la tua famiglia. È solo una persona che hai
avuto la fortuna di conoscere.
Eppure le voglio bene. Le voglio bene
quanto ne volevo a mia nonna e mi si spezzerà il cuore nel dirle addio.
Perché ogni persona della sua famiglia deve sempre abbandonarla o
lasciarla indietro?
Quella notte sogna la città con le porte
che non si aprono.
Sfiora il legno di una verniciata di
rosso e quella si spalanca magicamente su un pozzo di buio.
Percorre strade vuote che odorano di
miseria e solitudine, sorvegliate da strane creature che sembrano sculture mal
riuscite di uomini e donne. Sono calve, nude e hanno la pelle di pietra nera e
ambra, cavità vuote dove dovrebbero trovarsi gli occhi.
Non c’è più alcun bambino. C’è un
ragazzino vestito di nero, invece, simile a un’ombra tra le ombre, con un becco
di corvo sul viso, che la guarda con sgomento.
Molly vorrebbe rassicurarlo. Lei
non è lì, non appartiene a quel luogo, ma ad uno che è infinitamente diverso,
migliore o peggiore o ambedue.
“Sei reale?” lo sente chiederle.
“Reale quanto te.”
“Non lo sembri. Sembri… trasparente.”
Per dimostrare qualcosa, a se stessa o
al ragazzino non importa, Molly poggia l’indice sul becco appuntito. La
sensazione è bizzarra, ma il contatto è tangibile, concreto. Il ragazzino fa
tanto d’occhi. Con un sussulto Molly li riconosce. Sono quelli del mostro
dietro l’uomo, delle Tre Facce. Occhi cangianti che le sembra di aver già visto
altrove, fuori dai suoi sogni.
“Chi sei?”
“Korax.”
“E chi è Korax?”
“È la maschera che porto, non quello che sono.”
“Perché indossi una maschera?”
“Per difendermi da Lei.”
Molly vorrebbe chiedergli chi sia la Lei
da cui sente il bisogno di nascondersi.
“Tu non sei di Selimbria.”
“Selimbria?” È
questo il nome della città? “No,
non sono di qui.” Una
pausa. “Non sembra un bel posto in cui
vivere.”
“Com’è casa tua?”
Molly vorrebbe raccontargli dei due
fiumi, la Senna e la Bièvre, dell’orologio della Conciergerie con una lancetta
a forma di giglio e l’altra di lancia, degli innumerevoli ponti e dell’acqua
che riluce come una cascata di miele dorato all’ora del tramonto. Non si
accorge che sta svanendo, che, pensando a casa, questa la sta riportando
dall’altra parte, dovunque essa sia.
“Stai scomparendo.” La curiosità
negli occhi del ragazzino ha ceduto il passo all’amarezza. Molly sa qualcosa
riguardo a come appaiano gli addii a quell’età.
“Tornerò,” promette.
“Saresti una pazza a farlo.”
Allora sarò una pazza e
felice di esserlo.
Si sveglia madida di sudore, con un sapore metallico sotto la lingua e
del sangue che le cola dal naso. Ricorda la sensazione di smarrimento del
sogno, ma non cosa ha sognato. I rimasugli di quanto ancora indugia, ai margini
della coscienza, si infrangono contro la realtà e si rompono in mille pezzi
scomposti.
Jill e la piccola Louise partiranno il giorno dopo, ricorda, e lei verrà
dimessa.
Fissa il soffitto finché la vista non le si appanna. Dire addio non
sarà facile.
- Ci vediamo in primavera. Cercherò di prendere un permesso speciale
dal lavoro. Dirò che mi serve per andare a trovare mia sorella.
- Non dovresti mentire.
Jill le dà un buffetto affettuoso sulla guancia, nel vapore fumoso
della stazione gli occhi di lei sono quasi neri, ma ugualmente luminosi. – Non
mentirò infatti.
– Vieni a trovarmi, ma petite fille.
- Lo farò.
- Sarà meglio – le raccomanda Suor Gervaise e si soffia il naso
clamorosamente prima di abbracciarla.
Molly cerca di non badare al fatto che la stia stringendo troppo.
Il dottor Stamford l’attende nell’ambulacro, seduto sulla stessa panca
su cui Jill le ha chiesto di fare da madrina a Louise. Sembra una vita fa e
invece è passato soltanto un mese.
Molly si aggiusta la sciarpa di lana lavorata, uno dei tanti regali di
Jill e lo raggiunge.
Il dottore sta fumando e Molly reagisce alla scoperta con malcelata
sorpresa.
Lui se ne accorge e le rivolge un sorriso stropicciato. – L’unico vizio
che mi concedo – dice, mostrandole la sigaretta con aria di scuse.
- Non intendevo giudicarvi.
Il dottore annuisce, prende un’altra boccata. – Lo so.
Sembra teso e Molly non riesce ad immaginarne il motivo.
- Cosa siamo noi due, Molly?
Prima la sigaretta e ora questo. Non sa cosa la colpisca maggiormente:
se la natura della domanda o il fatto che abbia usato il suo nome di battesimo.
Non l’ha mai fatto prima, è rimasto fedele sino alla fine della sua degenza a
quel ‘chère Mademoiselle’ del primo giorno, all’apparenza così distaccato e impersonale, ma che
lui è stato capace di arricchire di mille sfaccettature con la semplice inflessione
della sua voce.
- Molte cose – risponde, cercando con cura le parole da usare, come pigmenti
del suo armamentario. - Un dottore e una pittrice. Un dottore e la sua
paziente. Un uomo e una donna.
- Che possono considerarsi amici? – tenta lui.
- Io vi ho da sempre considerato un amico.
Inspiegabilmente lui sembra di colpo alleggerito dall’apprensione.
Spegne la sigaretta sotto il tacco della scarpa. – Bene. Questo mi facilita le
cose. Ho una proposta da sottoporvi e spero davvero che l’esito si riveli favorevole
ad entrambi.
- Una proposta di che genere?
- Ho avuto modo di osservare di prima mano i frutti del vostro lavoro,
Molly. I ferri del mestiere che mi sono scelto sono assai diversi dai vostri,
abbiamo sfere di competenza che convenzionalmente sarebbero destinate a non incrociarsi
mai, tranne che in questa singola e particolarissima circostanza. Per farla
breve, mi serve il vostro aiuto.
Che aiuto può mai volere da lei? La curiosità che prova deve essere limpida come acqua, insieme allo
sbalordimento, perché il dottore la guarda con simpatia e un sentimento che
Molly impiega un po’ a riconoscere come tenerezza.
- Sto lavorando da ormai molti anni a un Trattato sull’anatomia del
corpo umano, ma mi rendo conto che per quanto io possa smontarlo, descrivere l'esatta forma, posizione, misura e
interrelazione delle varie parti che lo compongono, una cosa è renderlo a
parole e una cosa ben differente è mostrarlo.
- In questo io cosa c’entro?
Il dottore le dedica un’occhiata
indulgente che la invita alla pazienza.
- Pazienza, amica mia. Siate
paziente, ci sto arrivando. La mia proposta è semplice. Mi serve qualcuno che
si occupi dei disegni anatomici, mi serve l’abilità dell’artista e credo, anzi
no, sono convinto che quel qualcuno possiate essere voi, Molly.
Oh, cielo. Vediamo se ha ben capito. - Mi state chiedendo di ritrarre parti di corpo
dissezionato… muscoli e nervi, ossa e
membrane, cuore e cervello – elenca Molly con sorprendente lucidità.
- È esattamente ciò che vi chiedo. La vostra
collaborazione.
- Ma io non so nulla di anatomia umana! O meglio – si
corregge in fretta – nulla di quella interna.
- Questo è un problema di facile soluzione. Vi basterà
assistere ad un certo numero di autopsie. Una decina dovrebbero bastare per
cominciare, tanto per andare sul sicuro. Con la vostra capacità di osservazione
e un po’ di pratica, sono certo che ovvierete tranquillamente all’inesperienza.
- Non è questo il punto!
Possibile che
non capisca?
- Naturalmente riceverete un adeguato compenso per i vostri
servigi, se è a questo che vi riferite.
C’è una punta di delusione e freddezza nella voce di
lui che per Molly è una pugnalata. Si sforza di non risentirsene.
- Mi riferisco a problemi di carattere strettamente
pratico – replica lei. - Come credete che reagiranno i vostri colleghi, sapendo
che permettete che assista ai vostri interventi una persona, per di più una
donna, priva delle qualifiche necessarie?
- Oh, mia cara! – La risata del dottore è buffa, ma
allegrissima. Sovrappensiero si sfrega la mandibola in quello che deve essere
un vezzo di quando è in uno stato nervoso o eccitabile. – La cosa farà senza
dubbio scalpore, non lo nego, ma una volta che avranno tra le mani il risultato
finale, sospetto che non avranno di che ridire tantomeno rimostranze da
rivolgerci. Inoltre, se preferite l’anonimato, pubblicheremo i vostri disegni
sotto uno pseudonimo o indicando le vostre iniziali. Dunque era questa la vostra
preoccupazione? Proteggere il mio buon nome e la mia reputazione?
- Non è quello che si fa, tra amici? – ribatte Molly.
- Lo è, invero.
Si salutano con una stretta di mano e un appuntamento
fissato alla settimana ventura per iniziare il lavoro. Molly vorrebbe
cominciare da subito, ma il dottor Stamford è irremovibile e insiste perché lei
approfitti di quei giorni per sistemare le situazioni in sospeso che quei mesi
lontana da casa devono aver contribuito a creare.
È con un tuffo al cuore che Molly si ricorda
dell’appartamento a Le Marais.
III.
(1892)
La padrona di casa, la signora Thibault, non si fa scrupoli
di sorta a palesare l’astio e l’accoglie con l’entusiasmo di un ghiacciolo, come
un’incombenza noiosa che valga a malapena il disturbo. Tuttavia non accenna al
pagamento degli affitti in arretrato né le chiede dove sia stata, il che, vista
la sua natura pettegola e avida, è tanto di guadagnato, ma lascia comunque
Molly interdetta e la spinge ad affrontare di petto l’argomento. Via il dente, via il dolore.
- Riguardo agli affitti… – incomincia a dire, con difficoltà.
- Se ne è già occupato il vostro amico – sentenzia la
donna con un gesto della mano che è una perla di villania, restituendole le
chiavi di casa con malgarbo.
- Il mio amico?
- Le jeune
homme alto e pallido, quello dal nome impronunciabile.
E Molly vorrebbe di tutto cuore sapere di chi stia
parlando, perché, davvero, non ne ha la benché minima idea. – Cosa intendete?
- Intendo che ha pagato – replica lei svogliata.
Detto ciò la lascia nell’ingresso e si allontana, imprecando
contro un tale Langlais tutto matto, senza
degnarla di ulteriori delucidazioni o chiederle cosa, in nome di Dio, le abbia
impedito di farsi viva negli ultimi due mesi.
Decisa a non lasciarsi scoraggiare da così poco, un
trattamento a cui in fin dei conti ha fatto il callo negli anni, Molly sale le
quattro rampe di scale e apre la porticina seminascosta nella nicchia d’angolo che
si spalanca sul solaio.
Casa sua la riceve con una zaffata d’aria stantia e
un’aura di abbandono e trasandatezza ben poco ospitale. Avanza verso il centro,
attenta a non urtare la testa contro la rientranza del sottotetto, lasciando le
sue impronte nello spesso strato di polvere che si è accumulato sul pavimento,
oltre che sulle poche superfici piane.
Molly incrocia lo sguardo del proprio riflesso nello
specchio poggiato sopra la cassapanca e vi scorge perplessità e timore.
Si butta di schiena sul letto, senza preoccuparsi di svestirsi,
un braccio messo di traverso sul viso e il pulviscolo che sfarfalla da ogni
parte.
È a un bivio della sua vita e l’ultima volta che è
successo, il lutto le aveva cucito gli occhi, rendendola cieca alle grazie del
mondo e in petto al posto del cuore aveva una ferita pulsante che sanguinava
vita e dolore, in un legame di dipendenza vincolata.
Il problema degli affitti per il momento può
considerarsi risolto, ma a chi si riferiva la signora Thibault, parlando del suo
amico? Rimane un mistero.
Un giovanotto alto e pallido dal nome impronunciabile.
Che sia… che possa essere… ma no, la
sola idea suona ridicola alle sue stesse orecchie. Ricorda quel giorno come
qualcosa di lontano, un miraggio nella nebbia. Ricorda occhi di una bellezza
dolorosa in un volto autorevole e il tepore di un bacio rubato a suggello di
una promessa. Un bacio per un quadro.
Si addormenta cercando
di trovare soluzione all’enigma, con un nome che le sboccia sulle labbra,
improvviso. Sherlock. Il suo nome è
Sherlock.
Cammina sotto
cieli sconosciuti, striati di giallo e rosa. È in una città che non ha mai
visto prima, in cui si aggira con circospezione.
Questa città
ha palazzi dalle guglie placcate e auree, strade pavimentate con ceramica
smaltata. Maiolica policromatica che è calda sotto la pianta dei piedi, scalzi
come quelli di chiunque altro.
Qualcuno le
afferra la mano repentinamente e inizia a correre, trascinandola con sé. Molly
non si ritrae alla presa, ma si ritrova a sorridere e a dire con una voce gioiosa
che fatica a riconoscere come propria, che è abituata ad usare di rado, il nome
dell’uomo smilzo che ora le sta facendo l’occhiolino.
– Jim! – chiama
l’uomo, che le stringe la mano e la conduce per sentieri zigzaganti.
La gente
intorno a loro danza e canta, suonando strani strumenti d’argento e agitando
bracciali concentrici larghi come piatti da portata, attorno a cui sono
infilati cerchietti di dimensioni più piccole che ricordano dei sonagli. Le
donne indossano abiti svolazzanti, smanicati e simili a sottovesti, ma dalle
gonne ampie e vaporose. Gli uomini, invece, vestono completi di un tessuto
luminoso che cattura la luce dei due soli.
Ra’d Rodhia.
– Se dovessi tradurlo nella tua lingua, direi che
significa pressappoco “Canto all’eroe del tuono”.
Jim si
allontana, per un attimo si perde nella folla. Torna con una bambina abbronzata
dalle trecce ramate e le spiega che farà loro da guida. La Molly che osserva
dentro Molly, quella che sta sognando, vorrebbe urlarle un avvertimento. Non sa
spiegarsi come, però sa che è un male che la bambina rimanga con loro, che la
metterà in pericolo. Ma l’Altra Molly ha un sorriso che è solo per Jim, non ha
spazio per inquietudini e apprensioni e alla Molly del Sogno non rimane che
assistere senza poter fare nulla.
Si trova in
una cella incrostata di sangue rappreso. Oltre le sbarre, le facce pallide e
tristi di due bambini la studiano con sospetto.
Molly è
travolta dall’impotenza. Rivolge loro parole di conforto che sono specchietti
per le allodole e non se la sente di biasimare la bambina quando lei le si
rivolta contro, rabbiosa. – Non ti credo – le sputa in faccia come veleno e l’inadeguatezza
diventa una marea che la sommerge e in cui potrebbe annegare, insieme al senso
di colpa.
Le ha
promesso la libertà e di riportarla a casa sua, ma capisce quanto suoni
ridicolo considerato che è imprigionata.
L’altro
bambino, che era di guardia nel corridoio, si fa avanti con una torcia e Molly
ha un breve scorcio di lineamenti crucciati e ricci capelli castani. Qualcosa
che porta intorno al collo, un ciondolo appeso a un girocollo, diventa all'istante
incandescente e sfolgora come una stella cadente, prima che scoppi il
putiferio. Il muro alle sue spalle salta in aria, non c’è modo per descrivere
il rumore della deflagrazione e la pioggia di calcinacci e polvere che si
solleva. Nello squarcio si apre un’enorme tromba d’aria che brilla e arde,
azzurra e dall’occhio del ciclone spuntano il braccio, la spalla e la testa di uomo
biondo che le intima di far presto, che il portale si chiuderà e che loro non
riusciranno a trattenere la strega ancora per molto.
Molly si
sente come se dovesse piangere da un momento all’altro, ma dà le spalle ai
bambini e afferra la mano tesa dell’uomo che, lo sa, è la sua unica possibilità
di salvezza.
Durante la prima autopsia alla quale prende parte,
Molly rimane impalata al fianco del dottor Stamford, incapace di articolare una
frase di senso compiuto. Si concentra sull’atto della respirazione e inala
dalla bocca, per evitare che l’odore del sangue aumenti esponenzialmente la
nausea. C’è un altro odore che le pizzica il naso.
– È formaldeide – le spiega il dottor Stamford e per
tutto il tempo rimanente la sbircia di sottecchi, probabilmente animato dal
timore, più che fondato, che lei stramazzi al suolo o gli vomiti sulle scarpe
di vernice.
Molly ha portato con sé la cartellina, ma quel giorno
si limita alla semplice osservazione, concedendosi del tempo per prendere
dimestichezza con l’oggetto che dovrà ritrarre nei suoi disegni preparatori.
Alla fine della sessione, il dottor Stamford le batte
una pacca sulla spalla e le rivolge un cenno di approvazione. – Da brava, Molly,
ora tornate a casa e non pensate troppo a quel che avete visto. Concentratevi
sul cosa e non sul come.
Quella sera, Molly allaccia la cintura sulla sua gonna
migliore, allenta il busto sotto la camicia e la giacca a doppiopetto quel
tanto che le basta a respirare e a muoversi con maggiore libertà, cerca di
pettinarsi i capelli, emulando l’acconciatura bombata che va di moda in quel
periodo ed esce.
Le Cafè de
l’Enfer offre alla vista degli
avventori esattamente lo spettacolo che ci si aspetta, dato il nome che si è
scelto.
Fumo di scena che è un trucco rubato al teatro, fiamme
di carta velina appese ai candelabri e grida di terrore rimandate dai
grammofoni (nascosti in appositi scomparti dietro i pannelli di legno), pareti decorate
con altorilievi di scene bibliche tratte dall’Apocalisse e raffigurazioni di
mostri e dannati le fanno compagnia mentre gusta la sua cena, che le è stata
servita da un diavoletto in calzamaglia rossa e coda biforcuta. Contrariamente
al solito, ha deciso di non assistere all’esibizione di magia che sta avendo
luogo nella seconda sala, che è preludio dello spettacolo di cabaret vero e
proprio. Non si sente in vena di risate, quella sera.
In un ambiente così poco propenso alla normalità, che
non bada alle regole sociali dell’apparenza e della formalità, ma persegue
l’eccesso e il grottesco, nessuno presta attenzione alla Mademoiselle che è
seduta nell’angolo meno appariscente, allietata dalla sola compagnia del suo
bicchiere di grog.
Un uomo tarchiato in frac e tuba le si appressa e
Molly finge di non notarlo, allungandosi ad afferrare il bicchiere di liquore.
Spera che basti perché recepisca il messaggio e le scrolli di dosso
quell’attenzione indesiderata. Le sue speranze dimostrano la loro natura
sciocca nel momento in cui la mano dell’uomo, obbligata nella nitidezza
immacolata del guanto che calza, le sfiora in una carezza impacciata le dita poggiate
attorno al bicchiere.
Il gesto inappropriato sarebbe di per sé sufficiente ad
infastidirla, anche senza le parole che lo accompagnano: - Un’affascinante
peccatrice che si sottrae alla vista. Perché? Siamo tutti peccatori, in
quest’ora fatale ci riconosciamo gli un gli altri come simili.
Molly si sottrae con uno strattone deciso al contatto sgradevole
e all’ancora più sgradito afrore di vino che si emana da lui come un miasma. –
Un peccatore che riconosce la sua natura non può più considerarsi tale. Confessare
il peccato è il primo passo per espiarlo, ne consegue che noi non siamo simili.
L’uomo batte velocemente le palpebre mentre tutto il
suo corpo è scosso da un fremito. Gli occhi gli si riversano all’indietro e le
stramazzerebbe addosso se il braccio di un secondo uomo non impedisse che ciò
accada, afferrandolo per la collottola e facendo poi in modo di sistemarlo su
una panca, le braccia conserte sul tavolo e la testa poggiata al di sopra. In
quella posizione pare soltanto un cliente che si sia concesso un bicchiere di
troppo e stia smaltendo la sbornia.
Ma Molly sa come è andata, lo ha visto. Ha colto il
movimento fulmineo con cui l’uomo è stato colpito alla nuca.
Guarda con occhi duri il nuovo arrivato. – Non vi
ringrazierò.
- Non mi aspetto che lo facciate – replica lui con un
sorriso di puro cinismo. Scivola sul posto vuoto di fronte al suo e la considera
con quegli occhi così singolari, che adesso le ricordano l’acqua di un ruscello
di montagna e le foglie di tiglio in autunno, per
le sfumature brunite e
giallo-verde intenso.
Gradualmente, Molly sente l’animosità esaurirsi e
riesce a ricambiare il sorriso di lui con uno genuino. – Sherlock – lo saluta
con un cenno cortese del capo.
- Molly – replica lui con un identico cenno. – Qual buon
vento vi porta alla bocca dell’Inferno? No, dato il contesto forse è errato appellarsi
a un vento buono.
Molly fa ondeggiare il liquido nel suo bicchiere con
un movimento grazioso del polso e per un brevissimo istante perde contatto con
quanto la circonda per concentrarsi invece sul minuscolo vortice che lei stessa
ha creato. – Un vento dell’est – risponde sovrappensiero e sente
l’inconfutabile verità di quanto ha detto, anche se non riesce a capirne la
portata. È uno di quegli strani momenti in cui tutto sembra già accaduto, molto
tempo addietro, in cui si riesce a intravedere la direzione di un percorso
preciso e delineato, ogni incertezza è dileguata. Dejà vu.
- Come avete detto? – chiede Sherlock con una smorfia e
il momento è perduto.
Molly si riscuote, dandosi della sciocca. – Non è
nulla – minimizza e posa il bicchiere senza averne bevuto un sorso. – E voi? Dubito
che ad attirarvi sia stato lo spettacolo di magia.
- Trucchi mediocri.
- Ma a cui è piacevole assistere.
Sherlock corruga la fronte. – Perché?
- A volte per sperare che il trucco non sia un trucco,
altre per la facilità con la quale lo si riconosce per quello che è. Le
illusioni funzionano solo con chi si lascia trarre in inganno.
- E voi a quale categoria appartenete?
- Ad entrambe e mi rincresce ammettere che in tutti e
due i casi tendo a rimanere ugualmente delusa.
- Non ne dubito.
- Posso osare chiedere come mai?
Sherlock ha le nocche ripiegate sotto il mento. Non
risponde immediatamente. Aspetta che il cameriere che l’ha servita e che è
tornato a riprendere il piatto e le posate d’argento, sparecchi e posizioni una
nuova candela dal fusto lungo nello spazio vuoto tra di loro e un secondo
bicchiere a tulipano.
– Voi mi date l’impressione – dice, non appena quello
si è allontanato, la coda di stoffa cucita alla calzamaglia che si agita ad
ogni passo impettito – di qualcuno che ha aspettative troppo elevate.
- Ci sono uomini – ribatte Molly, controllandosi a
stento - che esplorano il mondo e abbattono ogni giorno un vecchio confine, diminuendo
l’estensione delle terre che ancora ci sono sconosciute e altri che scoprono
rimedi portentosi a malattie che fino a pochi decenni fa erano mortali, altri
ancora offrono la promessa di una protezione eterna dalle tenebre o la
possibilità ad una persona di ascoltare le voci dei suoi cari, colmando le
grandi distanze che li separano. Ogni giorno qualcuno compie un nuovo miracolo
e ogni giorno ci addomestichiamo all’idea sempre meno ridicola che in qualsiasi
momento potrebbe compiersi lo straordinario. Compiendo gesta straordinarie,
l’uomo diventa straordinario. Arriverà un giorno in cui saremo talmente
assuefatti all’impossibile che non sapremo più riconoscere la differenza tra
ciò che è possibile e ciò che non lo è. Tutto sarà stato già fatto da qualcuno
che ci ha preceduto, ogni cosa sarà stata vista, ogni invenzione scoperta, ogni
impresa realizzata e le glorie e le vittorie di un tempo non saranno che ombre
ed echi del passato. Perciò, monsieur Holmes… – la rinuncia all’uso del nome di
battesimo ha l’intenzione di essere un insulto e serve a porre le giuste
distanze tra loro - cosa vi fa credere di avere la minima idea di quali siano
le mie aspettative?
Lui la studia come un uomo di scienza farebbe con la
sua cavia da laboratorio. La sensazione, insieme al paragone, non è
lusinghiera. - Vi ho offesa.
Non è una domanda, non ne ha il tono né l’impostazione
e Molly non lo degna di una risposta che smentisca né di una che avvalori
quanto ha detto.
- Se l’ho fatto, non chiederò scusa. Ciò che
intendevo, riferendomi alle vostre aspettative troppo elevate, è la vostra
ricerca.
- La mia ricerca di cosa, precisamente?
- Felicità. Non è quello che insegue la maggior parte
delle persone? Il miraggio che segretamente ognuno rincorre?
Il sorriso sprezzante di lui appartiene al genere di
sorrisi che sono il marchio di riconoscimento della sua risma, tutto
pretenziosità e spine grondanti sarcasmo e in quella determinata circostanza,
con i sofismi che sembra implicare, ha il potere di contrariarla. Ogni cosa di
lui sembra creata appositamente per lo scopo di irritare.
- Anche voi? – domanda, indispettita.
- Io non credo nella felicità e a voler essere onesti
mi risulta difficile credere in molte altre cose, compresa l’apparenza forzata
dei buoni sentimenti che la società professa si debbano provare nei confronti
del prossimo.
- È qualcosa che si impara da bambini.
- È qualcosa che viene insegnato ai bambini – la
corregge con la pedanteria di un cattedratico.
- Perciò la felicità è una chimera e il precetto di
etica e gli obblighi morali vi appaiono come forzature di genere. Vi piace
essere così meschino?
- Se tra i suoi benefici serve a difendermi dalla
stupidità del mondo, allora la mia risposta è sì.
- Avete amicizie? Una famiglia o persone a cui tenete?
- Sapete quanto me che la solitudine ha poco a che
fare con i legami d’affetto che si creano nel corso della vita. Siamo meno soli
perché amati?
- Per alcuni funziona. L’amore è la cura.
- Effetto placebo. E una volta cessato, non si rimane
che con un pugno di mosche.
- Tutto quello che dite, mi dimostra che la vostra è
la reazione di qualcuno che preferisce non partecipare a un gioco perché
spaventato dalla possibilità di perdere.
- C’è chi vince e c’è chi perde. Perché correre il
rischio?
- L’essenza della vita sono i rischi che siamo
disposti a correre.
- In nome di cosa?
- Per noi stessi. Per quelli che siamo o ancora
stentiamo a diventare. Non c’è felicità senza azzardo e non c’è vita senza lo sprone
di incessanti motivazioni a supporto delle nostre aspirazioni.
- E senza tutto questo, cosa rimane?
Molly si decide a guardarlo direttamente e risponde
con un sorriso serafico: - La noia.
Sherlock inarca le sopracciglia, ammirato, prima di
afferrare il suo bicchiere, alzarlo in un brindisi silenzioso di encomio e
berne il contenuto tutto d’un fiato.
Molly si vieta di arrossire. – Quali sono le
condizioni del mio quadro? – domanda per distrarsi.
- Non è ancora bruciato, se è questa la vostra
preoccupazione.
- Ne sono lieta.
- Una promessa è una promessa. Mi pare di ricordare che
fosse una delle condizioni, quella di non distruggerlo.
- Siete un uomo di parola.
- I giuramenti sono impegni che non vanno presi alla
leggera.
- Non mi avete ancora detto cosa vi ha portato qui
stasera.
- Il caso. Sono un habitué di locali come questo e del
quartiere.
- Davvero illuminante – Molly si lascia scappare,
ricevendo in grazia una breve risata da lui. Ha l’aria di trovare quanto dice
spiritoso, magari la approva, ma glielo lascia percepire senza dichiararlo o
manifestarlo apertamente. È destabilizzante.
- E voi? Una signora non accompagnata che beve liquore
in un locale dalla dubbia integrità. Non temete di essere considerata troppo
autonoma?
Non è una critica, soltanto un’osservazione casuale,
come lo sarebbero disquisizioni sul tempo e la Finanza.
Molly si stringe nelle spalle. - Era un modo come un
altro per celebrare.
- Quale ricorrenza, se è lecito da parte mia
chiederlo?
Non lo è, ma Molly comunque lo accontenta: - Oggi ho
assistito alla mia prima necroscopia.
L’ombra del sorriso ben noto gli incurva la bocca,
simile a quella degli amorini del Canova. - Siete una fonte inesauribile di
sorprese. In quale veste avete preso parte all’intervento?
- Solo in quella di ritrattista. Mi occuperò dei
disegni anatomici.
Il resto della serata trascorre abbastanza
piacevolmente.
Molly scopre nell’uomo che le sta davanti una persona
dalla mente acuminata come fil di spada e governata con pugno di ferro da una
disciplina rigorosa e intransigente. Impara a cogliere nel colore volubile del
suo sguardo di falco l’affabilità che per contro manca alle sue espressioni.
Sherlock non ama parlare di sé e non si spreca in dettagli sulla sfera
personale della sua vita, concede molto poco di se stesso e quel poco lo
centellina con parsimonia, al modo dei vecchi cerusici che debellavano la
malattia col veleno, allontanando il fuoco con il pericolo di altro fuoco.
Parlano per ore e ogni ora si dilata per contenere un
anno, ogni minuto un giorno.
Si offre di scortarla, data l’ora tarda e Molly non
trova nulla di sconveniente nella proposta. L’apprensione sottile che si prova
normalmente in compagnia di un estraneo con lui non ha mai fatto la sua
comparsa.
Molly si domanda se ciò dipenda dal fatto che lo abbia
dipinto. Dipingere qualcuno significa fatalmente tastare la scorza dura della
superficie dell’individuo che ci si appresta a ritrarre; significa cercare di
estorcere dagli atteggiamenti del volto, dai
gesti e dal movimento dell'intero corpo, quella che è la natura più
intima da cui traggono forza le emozioni, gli
stati d'animo e anche i tratti della personalità. La fatica di riportare
a galla l’involucro che si cela dietro l’armatura soffice della pelle e quella
assai più impenetrabile delle costrizioni di pubblico ufficio, il riserbo pieno
di contegno e moderazione e prudenza che sempre andrebbe mantenuto nel pensare
collettivo.
- Una scelta ingegnosa – dice lui ad un certo punto. Sono
quasi arrivati. Nella notte in movimento, Molly riconosce l’instrado che
conduce a casa sua. – Scegliere un posto come quello, dove la morte è inscenata
con le sue vestigia più stravaganti e folcloristiche. Deve aver restituito una
certa dignità a quanto avete visto in quella sala chirurgica.
L’intuizione di lui potrebbe sorprenderla, dovrebbe.
Che un perfetto estraneo penetri con tale facilità i calcoli che determinano le
sue azioni è straordinario. Come è altresì straordinaria, straordinaria e
spaventosamente facile, la maniera in cui riesce a dialogare con lui.
La solitudine della sua adolescenza l’ha protetta dai
pericoli degli ambienti mondani, l’ha anche resa inesperta e facile preda di errori
grossolani. La ragazzina aveva trovato la sua dimensione nella natura incorrotta,
aveva costruito il bozzolo in una parte di mondo allo stato brado e
primordiale, congelato in un attimo di stasi perfetta. La donna ha scelto per
sé il fermento della metropoli in espansione, opera di cambiamenti e continue
innovazioni, in cui l’indipendenza coincide spesso con l’arroganza e i pregi di
virtù e saggezza sono retrocessi a ballerine di seconda fila di fronte alle
promesse di profitto e guadagno.
Ma è su entrambe, donna e ragazzina, che il fascino di
Sherlock fa presa. Un’avvenenza indiscutibile, che all’apparenza conserva la
calma mansueta del paesaggio bucolico, ma che, grattandola via strato dopo
strato, mostra un temperamento turbolento e facinoroso, un’inquietudine in
crescendo.
Il brougham si ferma e Molly si muove nell’abitacolo
per scendere. Come si saluta un conoscente che non è un amico e a cui neppure
si è deciso il modo in cui rivolgersi?
In ultimo è proprio lui a toglierla dall’impasse. Le
sfiora il polso e le appoggia nel palmo aperto della mano un cartoncino rettangolare,
niveo nella mezza luce.
– Venite a trovarmi.
Non è una richiesta. Molly non dice nulla, ma stringe
il biglietto da visita e lo fa scivolare nella tasca della gonna.
Prima che la carrozza riparta, tende del contante al
brumista per pagare la sua parte della corsa. Quello lo accetta e abbassa di
due dita la bombetta in segno di saluto e ringraziamento.
All’interno, Sherlock non ha reazioni. Il suo silenzio
grava più delle parole che avrebbe potuto rivolgerle.
Nei sogni
ricorda ogni sogno precedente, collega nomi e fatti e particolari.
Nei sogni è
una persona completamente differente, che da ingenua e spensierata cresce in
qualcuno di più cupo e posato, che ha attraversato le costellazioni del tempo e
dello spazio, preso coscienza dei suoi pericoli, degli orrori che può contenere
dietro avvenenti facciate variopinte e girandole di splendore ubriacante.
Nei sogni sa
perfettamente chi è e qual è lo scopo della sua ricerca, il suo posto nel mondo.
Conosce i veri volti delle Tre Facce e sa chi è il mostro dietro l’uomo e perché
si definisca un mostro. Nei sogni ricorda una vita diversa, conosce il suo
valore, è una persona completa e non si sente spezzata o divisa o ignorante di
qualcosa di vitale rilevanza.
Nei sogni non
è sola. Ama e sa di essere amata a sua volta.
C’è un uomo,
un uomo importante. Ci ha messo un po’ a scoprirlo, ma ora Molly sa che è lui
il qualcosa di fondamentale importanza, il segreto più importante di tutti. Lui
è il sogno dentro al sogno. Non sa come è fatto. Sa solo che è alto e che ha
mani che ogni artista vorrebbe dipingere, con strani simboli in rilievo che
paiono incisi col fuoco sui dorsi, e una voce che è perfetta per raccontare
storie. Sa come si sente quando sogna ricordi che lo riguardano e tanto basta
per convincerla.
Capisce che è
morto o che lo ha perduto la volta in cui, svegliandosi, scopre di aver
pianto.
Il nome completo è Sherlock Holmes e l’indirizzo si
trova nel quartiere di Montparnasse. Per giorni Molly osserva il biglietto da
visita finché, stufa della propria indecisione, non stabilisce di nasconderlo
nel cofanetto di palissandro che era il portagioie di sua madre, ma che lei usa
per conservare le sue lettere. La maggior parte sono quelle che Jill le spedisce.
Gliene ne ha scritte una decina per tenerla aggiornata sui progressi della
piccola Lilou e nelle quali ammette che, per quanto Parigi le manchi come un
pezzo di sé, ad Aubervilliers
sente di aver trovato il suo posto.
Anche se non lo ha più sotto gli occhi come prima, il
biglietto continua a perseguitarla. Decide che ne ha abbastanza nel momento in
cui scopre con orrore di averlo dipinto nella mano della ragazza che sta ritraendo.
Ricopre l’errore, trovando l’espediente di inserire nella mano di lei un
bouquet di rose gialle, ma la prontezza con cui è riuscita a risolvere
l’inghippo non cancella che ci sia stato.
Non indossa il suo vestito migliore, non si spazzola i capelli con più applicazione del solito, assolutamente non si spruzza dietro le orecchie gocce del profumo che Suor
Gervaise le aveva regalato per Natale durante la sua convalescenza. Si appunta
il cappello e apre la porta per trovarsi di fronte Sherlock.
È incurvato in una posizione scomoda, doveva essere
sul punto di bussare quando lei lo ha interrotto nell’atto, anticipandolo.
Spiazzata, Molly gli domanda: - Cosa fate qui?
Come al solito lui è privo di copricapi e i capelli
sono una massa disordinata di ricci neri, neri e lucidi come le penne arruffate
di un corvo.
- Non siete venuta a trovarmi – le risponde con aria
di accusa.
Molly non nasconde il sorriso. È tutto talmente
assurdo!
Il volto di lui si rabbuia e sembra intenzionato ad
andarsene con la stessa rapidità con cui è comparso. - Trovate la mia presenza
divertente?
- Affatto. Mi avete fraintesa – ribatte Molly, senza
smettere di sorridergli. Vuole che capisca. Non sta ridendo di lui né per un
gioco a sue spese. Vuole che condivida il lato comico della situazione e ne
rida insieme a lei. – Se foste arrivato un minuto più tardi, non mi avreste
trovata. – Indica platealmente la propria figura, vestita di tutto punto per
uscire. - Stavo venendo da voi.
Un lampo di comprensione lo attraversa, rimuovendo
l’astio di pochi istanti prima. – È bastata una settimana a convincervi? –
chiede con un’ironia che non può essere solo frutto della sua immaginazione.
È bastato un giorno, vorrebbe confessargli. Non è
stato senso del pudore a trattenerla dall’andare prima, ma, ora lo riconosce
per quello che era, paura di quello che avrebbe trovato.
Molly solleva il mento, bellicosa. – Cosa ha trattenuto
voi dal venire prima?
La luce negli occhi di lui è quasi insostenibile.
Comincia a sfilarle le forcine con cui si è appuntata il cappello. L’abilità e
la delicatezza del gesto danno l’impressione che l’abbia già compiuto in
passato. Magari con altre donne. La puntura di gelosia è scortata da un fiotto
d’acido.
– Volevo lasciarti libera di scegliere.
Il passaggio al ‘tu’ potrebbe passarle inosservato, dato
il contesto distraente, ma Molly è un’osservatrice nata e su un dettaglio del
genere è impossibile sorvolare.
- Scegliere cosa?
- Che volevi esattamente quello che volevo io, che ne
valesse la pena, che non fosse solo un gioco.
- Se pensavi che per me fosse un gioco – ribatte con
foga - significa che non mi conosci abbastanza.
- È molto probabile – riconosce lui docilmente. Troppo
docilmente. – Ma a questo possiamo rimediare.
Molly segue ipnotizzata la parabola del cappello che
cade sul pavimento, presto dimenticato. Poi l’immensità di ogni altra possibile
riflessione è destinata a lui, alle mani che le ha poggiato ai lati del viso e
che potrebbero contenerlo nella sua interezza, al modo in cui la sta guardando.
Come un poeta guarda la persona a cui ha dedicato i suoi versi migliori, un
inventore la sua scoperta più importante, un archeologo il suo reperto più
prezioso, un pittore il suo dipinto preferito.
- Forse non dovremmo – mormora. È ancora la paura a
parlare? Non ne è sicura. Non è più sicura di niente. – Forse dovremmo
aspettare.
- Credo di aver aspettato abbastanza – ribatte lui con
un mezzo sorriso impudente. – Credo di star aspettando dal momento in cui una
certa ragazza ha deciso che il modo migliore di chiudere l’affare con cui mi
aveva appena ceduto uno dei suoi quadri era di baciarmi. O forse sto aspettando
da quando una pittrice troppo seria ha dipinto qualcosa che non avrebbe dovuto,
solo perché poteva e sono stato costretto a seguirla per farmelo restituire. Ho
deciso di smettere di aspettare quando, dopo averla cercata per mesi e aver
minacciato la sua proprietaria di casa di orribili ritorsioni, quando avevo
abbandonato l’idea di ritrovarla e mi stavo convincendo che fosse stata
un’allucinazione prodotta dal troppo assenzio, mi sono imbattuto in lei
nell’ultimo luogo in cui mi sarei mai aspettato di incontrarla. Sono stato
sicuro che non avrei aspettato un giorno di più quando l’ho sentita rispondere
a tono ad un ubriaco e quando ha pronunciato il termine ‘necroscopia’ come se si
trattasse di una parola come un’altra.
Sherlock le sfiora col pollice l’angolo della bocca,
quel bagliore impossibile nei suoi occhi non si è affievolito.
Molly posiziona le mani sugli avambracci di lui,
domina il languore che sente partirle dalle ginocchia. – Davvero hai minacciato
la signora Thibault di orribili ritorsioni?
Quando lui la bacia, è probabilmente quello il momento in cui l’attesa
finisce. È come in uno spettacolo di burlesque, con le canzoni e i giochi di
prestigio che sono meri intrattenimenti per tenere impegnati gli spettatori fino
alla parte del cancan. Tutto ciò che lo ha preceduto, il quadro, la malattia,
la serata all’Inferno è stato solo il prologo.
Si separano (Molly non è abbastanza pratica di baci
per sapere se sia stato lui a iniziare e lei abbia continuato o viceversa), Sherlock
le dà un ultimo bacio gentile e poggia la fronte contro la sua.
Dopo un po’ lui si disincastra con delicatezza dall’abbraccio
e come se stesse facendo violenza a se stesso, si allontana da lei.
Il distacco brucia violento anche dentro di lei. È
bastato così poco? Che ne è stato della sua indipendenza? Come può un bacio
riscrivere l’asse attorno a cui gira il proprio mondo e farlo slittare? Ma il punto è proprio quello, no? Non è
stato il bacio, semmai è stato il quadro.
Con poche manovre Sherlock si sfila il cappotto e lo
appende alla testata del letto, apre la finestrella e si accende una sigaretta.
Il profilo severo che si staglia contro la vista dei tetti a spiovente
parigini, l’incarnato latteo e l’occhio ferino, la curva decisa della mandibola
e la linea elegante della mano ogni volta che la porta vicino al volto per aspirare.
Molly vorrebbe dipingerlo.
- Perciò è qui che vivi?
Lo osserva mentre prende nota dell’estensione esigua
del solaio e lo valuta criticamente.
- È qui che dormo – replica Molly.
- Potrei aiutarti a trovare una sistemazione migliore.
- Perché?
Lui scrolla la testa. – Non credo di poter dormire in
un posto del genere.
- Ferisce la sensibilità dei tuoi lombi?
- Solo quella della mia schiena. Quando dormo –
l’occhiata e il tono di lui sono inequivocabili, al punto che Molly sente una
vampata di calore arrossarle le guance – pretendo un letto degno di questo
nome.
Sfacciato e
presuntuoso. – Vedremo – dice Molly e
quello mette la parola fine alla questione.
IV.
(1892-93)
L’incontro con la locataria di Sherlock è qualcosa che
Molly non dimenticherà mai e per il quale ancora si diverte a stuzzicarlo, di
quando in quando. Prendere in giro Sherlock, insieme a ritrarlo mentre dorme,
sono le occupazioni che predilige negli ultimi tempi.
Verso la fine di marzo, Molly si ritrova a bussare al
portone azzurro polvere di un’elegante palazzina sita al numero 18 di rue du
Bac, nel quartiere di Montparnasse.
La signora che viene ad aprirle indossa un abito di
una delicata tonalità di lilla e la scruta con comprensibile curiosità, ma, quando
Molly si presenta, sul viso le si spiana un sorriso di evidente contentezza e
batte le mani come una bambina in preda all’esultanza per la prospettiva di un
nuovo balocco.
– Molly? – ripete. Suona deliziata e costernata. – Quella Molly? Oh, mia cara, non sai che
gioia sia! È stato di umore orrendo per mesi. Per non parlare del Natale! Una
cosa agghiacciante. La casa puzzava terribilmente.
Sherlock, probabilmente richiamato dal frastuono,
scende di corsa le scale e arriva nel momento in cui la Signora Hudson sta decantando
le sue lodi, sperticandosi in complimenti sul suo aspetto. – Oh, guarda questi
occhi! Così espressivi! E questi zigomi! Che mani e che piedi fini e che pelle
morbida!
- Mme Hudson
– la richiama con un’espressione di monito che pare invitarla a contenersi
entro i limiti della rispettabilità – sembra che non abbiate mai visto
un’appartenente del vostro sesso, prima d’ora.
La risposta di lei non si fa attendere. – Ma mai
scortata da te, ma chère! Prendi
quell’adorabile dottore, ad esempio. Lui mi presenta ogni ragazza che porta a
casa.
La signora sospira e si volta per rivelarle con un lieve
colpetto di gomito e un’aria di complicità: - Non durano a lungo.
Molly si vieta di ridere, anche se l’espressione
straziata di Sherlock è esilarante.
Quando salgono nell’appartamento, però, è colta da una
sensazione di vertigine che altera la realtà, snaturandola in qualcosa di
completamente diverso, la cui configurazione è tipica dei suoi sogni.
Sherlock le è accanto in un attimo e la costringe a sedersi
sulla poltrona di pelle di fronte al camino. Pavimenti di legno tirati a lucido, tappeti persiani, carta da parati
con gigli stilizzati, librerie rientranti le pareti, un basso tavolino davanti
a un monumentale divano di pelle rossa (“Un Chesterfield” le dirà più tardi
Sherlock con voce vibrante di autocompiacimento). Molly batte la palpebre e la manipolazione
si distorce in qualcosa di nuovamente concreto. Nessuna carta da parati, ma
pareti dipinte di verde con strane decorazioni di libellule e fiamme, quadri e libri
a perdita d’occhio, un piccolo scrittoio antico con una macchina da scrivere e
un posacenere di marmo a forma di mano, la scultura in bronzo di un leone e per
fermacarte la testa di un gargoyle.
- Sto bene – si costringe a dire a Sherlock, ma lui fa
orecchie da mercante. Le massaggia i polsi con strofinamenti decisi, dopo
averle sbottonato i polsini della camicia e le fa poggiare le gambe su un’impalcatura
di cuscini che si reggono per volere ultraterreno su un poggiapiedi.
Una tazza di tè più tardi, Molly riesce a fare un po’
d’ordine nel ginepraio che ha in testa. Si sforza di sorridere. – E così è
questa la tana del lupo.
Sherlock le allontana una ciocca di capelli dalla
tempia e si china a baciargliela. Molly avverte il sorriso di lui premuto contro
il sopracciglio. – Immagino di sì – lo sente dire.
Il salotto è
talmente simile da sembrare il riflesso falsato di quello reale, il rispecchio
di un’immagine su una superficie curva di bronzo scurito dal tempo. Così simile
che Molly si aspetta che sia Sherlock ad attraversare l’arco a muro che si apre
sul piccolo corridoio che porta alle altre camere. Ma non è Sherlock a fare il
suo ingresso. È un uomo dalla faccia oblunga, perfino più castigato e austero
nella sua giacca grigia, che le fa chiaramente avvertire, dal modo in cui la
saluta, che, se solo dipendesse da lui, preferirebbe essere esonerato
dall’obbligo della sua vicinanza.
La odia,
questo è lampante; ce lo ha scritto negli occhi, duri come pietra serena.
“Se lei fosse morta,” lo sente dire alla Molly del
Sogno, “lui la mitizzerebbe come una divinità, piangendola senza mai farsi una
ragione della sua scomparsa. Morta. Sarebbe meglio se lo fosse. La morte non
può essere contraffatta, non c’è ritorno. No, lei è viva. È il fantasma più
vivo di tutti i tempi ed è questo fantasma che lui insegue, non smetterà mai di
inseguire.”
“Perché?”
“Qual è il lato positivo dei miraggi?”
“Ne hanno uno?”
L’uomo ha una
smorfia che è la quintessenza della dicacità. “Inseguire un miraggio fa dimenticare l’asperità del deserto, la
miseria, la solitudine.”
“Solo fino a che dura.”
“No, solo fino a quando non si decide che è arrivato
il momento di svegliarsi.”
Svegliarsi, pensa con panico Molly. Vorrebbe
farlo, per poter abbandonare il Sogno. Prova a forzarne le pareti, urla la sua
rabbia al nulla. Il Sogno è una gabbia, lo è sempre stato. Soltanto che lei non
lo aveva mai capito prima.
“No,” conclude l’uomo. “Una donna viva porta con sé la
peggiore delle sciagure.”
“Quale?” è costretta a chiedere, secondo il copione del
Sogno. O del Ricordo?
“La speranza.”
È in una
cella, di nuovo. Riconosce il sangue secco che colora le pareti, che nel
riverbero delle torce diventano macchie di rame. Il buio respira, tutto attorno
a lei. Suona come i singhiozzi di un bambino. Molly si muove a tentoni e
inciampa nella figura accovacciata di qualcuno.
Uno strano
fiammifero, un sottile filo di metallo con la punta che arde, mantenuto da dita
scarne, incendia istantaneamente il buio e Molly incrocia un paio d’occhi
cangianti, costernati quanto devono esserlo i suoi.
“Sei tu. Sei tornata davvero.”
“Korax,” esala.
Il sorriso di
lui è una lama bianca. “Ti ricordi.”
Certo che si
ricorda, ma è frastornata. L’ultima volta aveva lasciato un ragazzino, ora è un
giovane uomo quello che le sta davanti. Non dimostra più di diciassette anni.
Senza pensarci, gli tocca la punta del naso. Lo sente trasalire. “È come essere toccati dal vento,” commenta lui.
Molly smette
all’istante e lui la guarda curiosamente. “Non ho detto che mi dava fastidio.”
“Che fine ha fatto la maschera?”
“L’ha presa Lei.”
“Ed è Lei che ti ha fatto rinchiudere qui? Perché?”
“Per via di quello che succederà domani.”
“Cosa succederà?”
“Ci sarà la Cerimonia di Passaggio.”
Il tono che
ha usato non lascia presagire nulla di buono.
“In cosa consiste?”
La osserva e
il messaggio è chiaro: davvero non lo sa? Come può non saperlo? Ciononostante
non indulge in commenti. Torna a sfregarsi le mani, che hanno abrasioni ancora
fresche sulle nocche, come se lui avesse preso a pugni il muro. “Dicono che è un rito, ma in realtà è una scelta.
Puoi scegliere di morire e rimanere te stesso o scegliere di vivere e perdere
tutto ciò che sei.”
“Che vuol dire?”
Lui
deglutisce, evita il suo sguardo. “Domani
la strega mi chiederà di servirla, diventando un Qohèlet. Se accetto dovrò vederla bruciare la mia
maschera e lasciare che mi sottopongano alla scarificazione.”
“Non
intendi accettare?”
“Sai cosa
fanno? Perché si chiamano così?”
Molly fa cenno di no.
“Sono Radunanti
e sono gli unici a cui è permesso uscire da Selimbria. Vanno negli altri mondi
e prendono…”
“Cosa?”
“Bambini. Prendono i bambini. Qui non ne nascono.
Nessuno è davvero di Selimbria, nessuno appartiene all’Inferno. Nessuno lo lo
merita, ma è dove finisce lo stesso, solo perché altri hanno deciso che doveva
essere così.” Lo dice con voce piatta, ma
il tremore alle mani, ora serrate a pugno, tradisce la portata del suo rancore
e della rabbia che cova.
“Korax.”
“Domani morirò.”
“No!”
I suoi occhi
azzurro-verdi hanno una luce vulnerabile. “Dove ci siamo conosciuti, Molly?”
Conosce il suo
nome. Come può? “Lo sai,” risponde
l’Altra Molly e alla Molly del Sogno sembra inspiegabilmente impaurita.
“No, non è vero. Forse vale per me, ma tu mi conoscevi
già da prima. Dimmi la verità. Cosa vuoi che succeda? Domani a quest’ora sarò
morto.”
“Non dirlo.” Molly
lo ha afferrato per il mento. Esita un istante, come in preda a un
ripensamento, si china in avanti e finalmente lo bacia.
Il pallore di
lui si tinge leggermente, diventa rosato sugli zigomi pronunciati. “Perché lo hai fatto?”
“Perché non morirai,” risponde lei con decisione.
Il bambino
che indossava per maschera un becco di corvo è scomparso, così lo hanno seguito
il ragazzino e il giovane uomo. L’uomo, che ha sempre le sembianze del corvo, ma
non indossa più maschere con lei, le rivolge un sorriso pigro e caustico. “Di sicuro ho un buon motivo per non farlo.”
È nella
camera da letto di qualcuno. È una stanza a pianta esagonale, con una moquette
rosso vino e tende di damasco appese alle portefinestre. Al centro troneggia
una gigantesca culla bianca.
“Korax?” chiede Molly. “Dove siamo?”
“Non ha importanza.”
“Cosa stai – Oh, Korax.”
Korax esce
dall’ombra delle tende. È vestito interamente di nero, tra le braccia, macchia
nitida e bianchissima la coperta di lana in cui lo ha avvolto, stringe un
neonato.
“Faccio quello che mi hai detto. Sopravvivo.” La voce neutra, gli occhi spenti che sono
cavità senza luce.
A entrambe le
versioni di se stessa, l’Altra Molly e quella che Sogna, si spezza il cuore.
Lui ha avuto la libertà che cercava, ma in cambio ha dato la coscienza.
Sherlock è proteso pericolosamente oltre la balaustra
della finestra, in vestaglia e piedi scalzi. Contro il fondale della notte più
nera, sembra un’apparizione soprannaturale. Nel dormiveglia, Molly aggrotta le
sopracciglia. Manca qualcosa.
- Un violino – mormora.
Al suono della sua voce insonnolita, lui si volta,
torna a sedersi sulla sponda del letto e si allunga a toccare in punta di dita
la sua spalla nuda.
- Nel sonno ti sei agitata parecchio.
Molly gli concede lo spazio di manovra necessario
perché si stenda e poi gli poggia la testa nell’incastro tra spalla e gola,
dove sente risuonare le parole ogni volta che le pronuncia.
- Un sogno – dice, come se fosse il chiarimento che
fuga ogni dubbio.
Sherlock comincia ad accarezzarle i capelli. – Che
genere di sogno?
- Non mi va di parlarne.
- Perché?
- Perché sei così bravo a togliere cappelli e disfare
ganci e lacci del corsetto?
Non voleva chiederglielo, ma l’insistenza di lui l’ha
infastidita e questo è il risultato. Le carezze smettono all’istante e Molly si
ritrova a lottare contro un freddo che poco dipende dalla temperatura
dell’ambiente e tutto con l’assenza delle mani di Sherlock dalla sua pelle.
- Cos’è questo?
– lo sente domandare nel buio. La voce è colorata dall’irritazione e Molly si
chiede come debba apparire quella che sicuramente gli ha acceso gli occhi.
Fiamme blu, come i fuochi fatui delle leggende nelle highlands.
- Dipende da cosa intendi con ‘questo’.
- Cosa stai facendo?
- Cercavo di riaddormentarmi, ma se vuoi possiamo
proseguire questa conversazione retorica.
- Sai di non essere la prima.
Sì, lo sa, ma una cosa è percepirlo, saperlo con ogni
fibra del proprio essere e un’altra è che sia lui a dirglielo, il tono improvvisamente
calcolatore, artico.
Sospira, si accorge di star tremando malamente nel
lenzuolo troppo leggero. Le coperte devono essere da qualche parte sul
pavimento, scalciate durante il sonno proprio da lei. – Lo so.
- Come io so di non esserlo per te.
Cosa? – Che stai dicendo?
- Andiamo, Molly – taglienti, coltelli lanciati a
tradimento nel favore delle tenebre, le parole di Sherlock la raggiungono. –
Non è il mio nome che pronunci quando
dormi.
No?
Il suo silenzio deve trasmettergli qualcosa di quanto
sta provando, minima trasposizione del precipizio in cui sta cadendo, perché, come
si era allentata, la presa di lui torna, calda e confortante, ma non basta a
diventare la scala che lei dovrebbe risalire per uscire dallo strapiombo. – Tu davvero non lo sapevi. Com’è possibile
che non lo sapessi?
- Che nome?
- Molly…
- Il nome, Sherlock.
- Korax.
La giostra di immagini che le ha orbitato attorno
negli ultimi mesi, sfuggente e oscura, le gravita addosso in un colpo che pesa
come piombo. Non sono mai stati sogni,
pensa atterrita. Erano ricordi.
Si prende la testa tra le mani, un respiro di ghiaccio
le ha agguantato il cuore. Sherlock è una statua di sale, d’un tratto le pare
irreale quanto le sue fantasie. Cos’è
vero? E cosa non lo è?
Gli racconta tutto. Dei sogni, delle sensazioni che
perdurano al momento del risveglio e che il sole non riesce a stroncare, del
falso riconoscimento che l’ha colta quando è entrata per la prima volta nel suo
appartamento. Idee falsificate, come quella che il cielo sia del colore
sbagliato o che le macchine di ferro che stanno trionfando tra coloro che
possono permettersene il possesso dovrebbero correre sulle strade di sopra, in
alto sulle loro teste. Navi che solcano il cielo e non la terra.
- Sogno cose impossibili – conclude, in preda a un
terrore e a un’angoscia crescenti. – Conservo ricordi di luoghi in cui non sono
mai stata, di persone che non conosco perché non esistono. Ho ricordi che non mi appartengono e … - mi pare di impazzire.
Sherlock ha accolto la sua confessione con il massimo
controllo e se c’è un freno alla sua moderatezza, lei non lo ha ancora portato
all’esasperazione. – Cosa credi che siano? – parla e ragione con calma, a
sangue freddo, non tradisce ansia o agitazione per le sue rivelazioni.
La risata a cui si abbandona suona alle sue stesse
orecchie aspra, febbrile, da folle. – Allucinazioni? Deliri? – ipotizza. – Non
lo so più.
- Credi davvero di essere pazza?
- Non so più in cosa credo.
È la verità e fa male, ma le sembra che ogni cosa
abbia tre facce, tre dimensioni, tre piani di realtà. Tutto è un vaneggiamento
e lei è allo sbando.
- No, non è vero – la sbugiarda Sherlock. La afferra
per le spalle, le dita affondano nella carne, imprimendovi tanta forza da
procurarle trafitture di dolore. La scuote fino a che lei non riacquista un
briciolo di lucidità. – In cosa credi, Molly Hooper?
Già, in cosa?
- Credo in ciò che posso vedere e
toccare, di cui è comprovata l’esistenza. Credo nella scienza e nell’arte.
Il verso sbuffante di lui è derisorio. – Fino a pochi
secoli fa la scienza veniva chiamata magia e l’arte era considerata una truffa.
Credi anche nel vento? Eppure non puoi vederlo.
- Posso sentirlo – replica lei in tono d’ovvietà.
- E quando non puoi sentirlo?
- So che esiste.
Non capisce il punto né dove lui voglia portarla,
ponendole quelle domande.
- Perché? – insiste Sherlock. – Come fai ad esserne
così sicura?
- Perché so che la sua esistenza non dipende da me o
dai miei desideri. La mia esistenza non influisce sulla sua.
- Esattamente!
Esattamente,
cosa? Molly lo segue con gli occhi
mentre si alza e comincia a camminare in tondo per la stanza come spiritato,
con le mani a trapassarsi i capelli.
- Sherlock?
Lui si volta, nella penombra le ricorda qualcuno. Qualcuno
posseduto dalla stessa energia travolgente, una dinamicità senza arresti di
alcun tipo. Molly scaccia il pensiero e non vi si sofferma. Non vuole quei
sogni, non più.
- Non vedi, Molly? Non capisci? Sono solo sogni, ma
sono i tuoi sogni. Sei tu a sognarli. Come puoi dire che non ti
appartengono?
Molly si porta una mano alla fronte, sospira, esausta.
– Ne stai facendo una questione epistemologica.
- Perché lo è – una carezza di rassicurazione, il
respiro di lui vicino a lei è vero,
non una manipolazione della propria mente malata o disturbata o chissà
cos’altro. – Se anche non lo erano prima, sognandoli te ne sei appropriata. Ti
sei conquistata il diritto di chiamarli tuoi.
Molly rimane in silenzio, rigida nell’abbraccio di
Sherlock. Decide che per il momento è meglio non parlargli delle frequenti
epistassi che solitamente seguono i sogni.
L’episodio non conduce a variazioni significative nel suo
rapporto con Sherlock, se non l’uso di un vezzeggiativo che lui
ha creato appositamente per lei, da usare nei momenti di maggiore
tenerezza o intimità. Mon petit rêve, la chiama. Il mio piccolo sogno.
Incontra Mycroft Holmes esattamente un anno dopo che è
iniziata la sua relazione con Sherlock. È al corrente del fatto che lui abbia
un fratello maggiore e che i loro rapporti, mai diplomatici e compromessi da
punti di vista discordanti, si siano irrimediabilmente deteriorati dopo un
incidente risolutivo intorno al quale Sherlock preferisce non dilungarsi o
fornire dettagli scomodi.
Si aspettava un uomo come Sherlock, vistoso ed
anticonformista al parossismo, ma basta un’occhiata per farle capire che
quest’uomo, impeccabile nel completo d’alta sartoria e di un’eleganza sobria e
ricercata quanto quella di Sherlock è moderna e disinvolta, è di ben altro
stampo. L’imperturbabilità di uno è indagata e portata avanti come
un’esplorazione in itinere, nel caso del secondo, invece, è una terra da tempo
sottomessa.
Porta un’orchidea come fiore all’occhiello della
redingote e ha un bastone da passeggio. Nota raffinata è la spilla preziosa che
fa da fermacravatta.
Per un attimo Molly si sente intimidita. La tenuta comoda
in cui è abbigliata, gonna nera svasata a campana e ampia camicia bianca che è
appartenuta a Sherlock e che si è arrotolata per amor di praticità sugli
avambracci, è del tutto inappropriata ad una visita formale, ma consona
all’attività a cui si stava dedicando.
Dovrebbe porgergli la mano, ma lui la precorre,
stringendo le sue sul bastone da passeggio e rendendo inequivocabile che non
trova necessario seguire l’etichetta, non con lei.
– Immagino che voi siate Miss Hooper.
Ha pronunciato il suo cognome all’inglese. Molly non
lo corregge. – Molly – ribatte con semplicità. – Non ci sono Miss qui,
Monsieur.
L’uomo annuisce, la scruta con occhi insondabili e
freddi. – Non credevo che mio fratello se ne sarebbe trovata un’altra così
presto.
La cattiveria gratuita di quell’affermazione la fa
quasi sussultare. Il suo viso deve tradire il turbamento che prova o Mycroft
Holmes deve essere una persona attenta alle sfumature quanto lo è il fratello
perché il suo sorriso assume un accenno di vago compatimento. – Dalla vostra
espressione è facile dedurre che non ne sappiate nulla.
- Difatti è così. Non so nulla, ma voi siete
evidentemente desideroso di mettermene a conoscenza, perciò perché non
procedete? Sono tutta orecchi.
Una lunga pausa le fa sperare che l’argomento cadrà,
la temerarietà con cui gli ha detto di procedere e che ha lanciato come un
guanto di sfida non verrà accolta. Speranza
vana. Lui si è solo momentaneamente focalizzato su qualcosa che si trova alle
sue spalle, gli occhi hanno individuato il disegno al quale sta lavorando e poi
il quadro che recentemente Sherlock ha spostato dalla collocazione sopra al
camino, sui cui ora domina uno specchio dalla cornice dorata, ad uno spazio
meno individuabile, ma sempre di riguardo, tra due scansie. – Noto che nonostante
i cambiamenti, quello è rimasto.
Senza che lui aggiunga niente, Molly capisce e si
riscopre a fissare con occhi all'improvviso consapevoli la donna dalla bellezza
dirompente che vi è raffigurata. La Donna, quella che è stata la prima. E dire che l’ha avuta sotto il naso sin dal
principio…
- Irene Adler – la informa Mycroft. – Precedente
infatuazione di mio fratello. Una seduttrice impenitente. Lo ha lasciato per un
Conte appena pochi mesi prima che entraste in scena voi. Sherlock ha smesso il
lutto piuttosto precocemente, ma suppongo che ci siano necessità e bisogni che
il tempo da solo non può assecondare.
Molly solleva il mento e fissa senza gentilezza il
fratello di Sherlock. Non ha intenzione di nascondere l’antipatia che nutre o
trincerarla come lui dietro maniere posate e insulti ricercati. – Non sono un
rimpiazzo. Se Sherlock mi avesse dato questa impressione, lo avrei già
lasciato.
- Mio fratello è un uomo singolare e ha un carattere
volubile, esacerbato dai vizi in cui gli piace ricadere con ricorrente
saltuarietà.
Dipendenze a
cadenza irregolare, ma persistente come devono esserlo le sue visite, pensa Molly. - Sarà una caratteristica di famiglia.
- Miss Hooper…
- Molly.
- Sono disposto a concedervi un’equa rimunerazione se
sottoscriverete un contratto in cui accettate di non rivedere mio fratello né
di associare il vostro nome al nostro.
- Intendete pagarmi – Molly pronuncia con deliberata
lentezza – per farmi sparire di scena?
Non le occorre ascoltare una pomposità di più. Lo
mette poco cortesemente alla porta e ritorna allo scrittoio. Stringe i bordi
del ripiano da lavoro fino a farsi dolere le articolazioni, ma non versa una
lacrima. Le lacrime sono sempre state per lutti e sogni.
- Sai – dice una mattina come un’altra a Sherlock,
intanto che zucchera il caffellatte – ancora non ho capito che genere di
occupazione svolgi. Alle volte ho come il sospetto che tu sia una specie di
baronetto in incognito. Una rendita a cui attingere in segreto spiegherebbe il
tenore di vita che riesci a mantenere, pur non avendo che lavori sporadici.
Da quando lo frequenta, infatti, Molly lo ha visto
pubblicare dietro lauto compenso una serie di articoli di stampo liberistico o dalle
tematiche scottanti su gazzette e giornali radicali; vendere un poema sinfonico
a un giovane compositore; guadagnare con scommesse clandestine su gare di galli
o puntando alla roulette; interessarsi a listini, quotazioni, titoli azionari e
indici di Borsa; condurre esperimenti con magneti
infilzati su sugheri galleggianti in una bacinella; impartire lezioni
private di tedesco, inglese e latino a collegiali che danno mostra di venerarlo
e insegnare famose arie italiane a un aspirante tenore. Lo ha visto maneggiare
il denaro con la disinvoltura della media borghesia e la noncuranza a
disfarsene che è prettamente aristocratica. Ha visto gente arrivare e andare
alle ore più strampalate del giorno e della notte, che viene a chiedergli
consigli e avvisi su questioni di qualsiasi sorta.
Stanno facendo colazione nell’appartamento di lui con
i croissant e il caffè bollente che la Signora Hudson non manca mai di far loro
trovare, trincerandosi dietro la scusa della sua presenza. “Una giovane
graziosa come la nostra Molly va vezzeggiata, ma chère!” è la reprimenda affettuosa e burbera che solitamente
rivolge a Sherlock in quei casi. Molly ama il momento in cui, non appena la
signora volge loro le spalle o esce dall’appartamento, Sherlock le soffia sulla
bocca “Nostra?” rifacendole il verso e poi, correggendosi, ripete “mia”
un’infinità di volte.
- Questo farebbe di te la mia amante? O la mia
mantenuta? O magari la mia governante?
Sherlock è apparentemente preso dall’ennesimo articolo
che sta leggendo sull’Affare Dreyfus, ma riesce
comunque a scansare la traiettoria della babbuccia che lei gli ha lanciato
contro.
Molly è speranzosa. I sogni non popolano da mesi le
sue notti, sono come scomparsi; il loro ricordo è affievolito e ha nascosto i
dipinti che hanno ispirato in un posto sicuro. Ha appeso i pennelli al chiodo e
si concentra sui disegni anatomici per Mike.
Nell’attesa che il passato le frani addosso, cerca di
godersi il presente e di non pensare troppo al domani.
V.
(1894-99)
Molly adora i Tableau vivant e buona pace se questo la
rende, come sostiene Sherlock, inguaribilmente prevedibile. Entrambi sono ormai
considerati presenze assidue nei caf'conç, specie se Le Chat noir, lei perché
attratta dagli esercizi acrobatici e dal teatro d’ombre, lui dal funzionamento
delle macchine teatrali; entrambi sono rallegrati dalla reciproca compagnia e
da coppe di hypocras o assenzio.
È il 20 dicembre 1894 ed è stato un inverno atroce che
ha tenuto Parigi in scacco, costringendo per settimane la città che non chiude
occhio all'immobilità forzata.
Sherlock entra, usando la chiave di riserva che lei
gli ha dato, scortato dagli strepiti sdegnati della signora Thibault che si rincorrono
dal pianterreno. Non si è preoccupato di scrollarsi di dosso la neve e questa
ha lasciato pozze d’acqua nell’atrio e lungo le scale.
- Madame Bouchard
rischia di trovarsi dell’arsenico nel liquore alle ciliegie che nasconde nella
sua cappelliera, un giorno o l’altro.
Molly lo riceve con un mugugno, concentrata com’è sul Trattato
di Laennec che Mike le ha prestato. Ormai è abituata al nomignolo che ha
affibbiato alla sua padrona di casa. Signora
Bocca larga, non può dire che non sia
veritiero.
- Cosa stai facendo?
Gli indica il paragrafo a cui è arrivata e che sta
trovando particolarmente stimolante. - Sapevi che il volume del cuore è uguale
al volume del pugno del soggetto?
Sherlock si sfila i guanti e chiude la mano attorno
alla sua, che è impegnata a mantenere in equilibrio il testo sulle ginocchia. –
Perciò il mio cuore è più grande del tuo.
Lei fissa vacuamente il dorso della mano di Sherlock,
che è di un bianco marmoreo, privo di imperfezioni o incisioni. Incisioni? Con un tuffo di apprensione, per
distrarsi dalla direzione pericolosa a cui quel pensiero può condurre, Molly si
concentra sulle scatole che lui ha portato. – E quelle? Sembra che tu abbia
svaligiato una boutique.
Con la solita trascuratezza per ordine e simili,
Sherlock ha trovato posto ai suoi acquisti dove capitava, rendendo il solaio
ancora più angusto e pressoché inagibile per la profusione di cofanetti e
pacchetti che ora lo riempiono.
- L’addetto alle vendite non se ne è lamentato.
Molly sorride. – Vorrei ben vedere.
Sherlock si sfrega le mani e poi, con aria da
cospiratore, prende la scatola più grande e gliela mette davanti, invitandola
ad aprirla.
Sotto strati fruscianti di carta velina, le dita di
Molly tastano la consistenza morbida e setosa di un abito da sera.
- Andiamo a teatro, mon petit rêve.
L’abito
è in satin avorio e ricami, con rose disposte a ghirlanda e uno
strascico che le risulta difficile riuscire ad apprezzare quando pensa
all’attenzione con cui dovrà muoversi per non rischiare di
inciampare nei suoi stessi piedi.
Quando esce dalla camera da letto, il collo privo delle perle che Sherlock ha tirato fuori dal suo Bai yan chu, armadio cinese a cento occhi, senza alcun ornamento all’infuori degli orecchini di sua nonna, lo sente discutere animatamente con qualcuno.
Molly fa il suo ingresso nel salotto e lo sconosciuto smette
all’istante di parlare. È un uomo biondo, di statura media
e con portamento marziale, che, notandola, inarca le sopracciglia e
dirige occhiate di strabiliata meraviglia ora a Sherlock ora a lei.
- Molly – Sherlock si interpone per fare le dovute presentazioni e se nota l’assenza delle perle (ovvio che sì, è Sherlock) non ne fa parola – questo è Monsieur John Watson. John, questa è Mademoiselle Molly Hooper.
Molly gli porge la mano e sorride con educazione. – Così voi siete l’inquilino del piano di sopra.
John Watson, il dottore di cui la signora Hudson non smette di parlare
come l’altra faccia della mela dei suoi “cari
giovanotti”, acclamato donnaiolo, le fa un perfetto baciamano.
– Incantato. Se avessi saputo di essere diventato coinquilino di
una simile… – comincia a dire, ma Sherlock lo interrompe
con un secco: - Giù le mani.
Il dottore ride, come se quello di Sherlock fosse un loro gioco
personale. – Vi teneva nascosta al mondo? Com’è
possibile che non ci siamo mai incontrati?
- Orari incompatibili – la anticipa Sherlock. – Molly ha
l’assurda concezione che il tempo non vada sprecato in serate di
baldoria sfrenata e che l’alba sia l’ora migliore per
dipingere.
- Dunque fate la pittrice.
- Faccio quanto mi è concesso dai mezzi e dalle abilità
che mi illudo di possedere – replica Molly, non lasciando
trapelare la malinconia. L’ispirazione è come scomparsa,
perciò si sta dedicando anima e corpo al perfezionamento dei
disegni anatomici. – Al momento sto collaborando con il dottor
Stamford dell'Hôtel-Dieu.
L’accenno
a quella partecipazione non intende essere uno sfoggio di vanità
o egocentrismo, ma una verifica. Lo studio delle reazioni che
solitamente si accodano a quell’infelice uscita, quasi sempre le
fanno decidere se è il caso di approfondire una conoscenza,
coltivandola, oppure di troncarla sul nascere. La simpatia provata nei
confronti di John Watson assume una venatura di rispetto, vedendo la
naturalezza con cui accetta la notizia come un dato di fatto.
- Deve risultarvi impegnativo – afferma con espressione seria,
smettendo l’abito da consumato adulatore e indossando quello del
medico. - Avevate esperienze precedenti in tal senso?
- Non ero mai entrata in una sala chirurgica prima, anche se ho una
certa dimestichezza con l’ambiente ospedaliero. Mio padre
esercitava la professione di medico.
- Stamford, avete detto? Non sarà Michael Stamford?
- Lo conoscete?
- Abbiamo studiato insieme.
- Dobbiamo andare – interloquisce Sherlock.
Molly nota che nel frattempo ha già indossato l’Havelock
sopra lo smoking – camicia di un violetto scuro invece di una
bianca, per distinguersi dalla massa - e che, eccezionalmente, ha sotto
braccio un cilindro nero (sa quanto odi i cappelli in generale e i
cilindri nello specifico). Cerca di nascondere un sorriso che Sherlock,
tuttavia, è lesto a cogliere. – Togliti
quell’espressione, Molly. Sembri un gatto.
- Non del Cheshire, spero – replica lei, tra il serio e il faceto.
Sherlock le porge la mantella, quindi si rivolge a John: – Continueremo il discorso un altro giorno. Porto Molly alla Société Nationale de Musique.
L’altro annuisce. - Si tratta di quell’esecuzione che si rifà al poema di Mallarmé?
Mallarmé?
– Ascolteremo qualcosa che è ispirato a “Il
pomeriggio d’un fauno”? – domanda Molly,
elettrizzata. Ne ha sentito parlare, ma non credeva, non sperava…
Sherlock alza gli occhi al soffitto, ma appare soltanto vagamente risentito. – Ti ringrazio, John.
- Oh – fa lui con autentico dispiacere. – Doveva essere una sorpresa?
Questa era l’intenzione, sì, Molly glielo legge nello sguardo. Mallarmé. Non riesce a crederci.
- È uno dei tuoi poeti preferiti – afferma Sherlock.
Difatti è così. Lui, insieme agli altri poeti parnassiani animati dal concetto comune de «l'art pour l'art», le sono cari al cuore.
Molly rimane in silenzio, non riesce a spiegare l’enormità
di quanto sta provando. Piccoli tasselli, come tessere di un enorme
puzzle, vanno al loro posto. Sherlock, che sa che le piace la
marmellata d’arance, che predilige le rose gialle e i vestiti
bianchi, che ama tutto ciò che è romantico, anche se
è contrario alla sua natura prudente. Sherlock, che ha finto di
avere corrispondenze ed esperimenti e letture da ultimare per rimanere
alzato insieme a lei quando il timore di dormire, sognare, era
troppo grande per abbandonarvisi. Sherlock, che le ha fatto una
moltitudine di regali, ma mai, neppure una volta ha preteso che lei li
utilizzasse o glielo ha chiesto. Sherlock, che apprezza la sua
libertà e non fa nulla per limitarla o circoscriverla, che la
lascia essere se stessa sempre, non chiedendole nulla in cambio.
Sherlock, che alla sua decisione di continuare ad essere affittuaria
dell’appartamento in Le Marais, ha accolto la notizia senza una
protesta.
Sherlock, che ha sondato gli abissi dentro di lei, solitudine, paura,
vergogna, mortificazione, sconforto, senza avvilirla per averli provati.
Sono insieme da due anni. Due anni di Sherlock, con Sherlock. Sherlock.
È in quel momento, afferrando quanto profondamente lui abbia
decodificato i cardini del suo carattere, abbia interpretato
correttamente la sua necessità di avere spazi suoi, spazi salvi
in cui non dovesse contenere l’estro creativo e potesse ritornare
ad essere la Molly selvatica della campagna, è assimilando
queste verità che Molly capisce di amarlo.
La voce le trema un poco, ma è un fremito che passa inosservato
o, sarebbe più giusto dire, su cui, per riguardo a lei, lui
sceglie consapevolmente di sorvolare, quando Molly conferma: - Lo
è.
Sherlock le porge il braccio e Molly lo prende con la massima dignità.
Lei è lì. Durante l’intervallo, prima della replica del brano la
cui richiesta è stata accolta dal compositore, Molly la nota per caso nella
folla degli altri ospiti ed è come essere colpiti da un fulmine a ciel sereno.
Il sorriso gioioso le muore sulle labbra, le gambe le diventano inarticolate
come tronchi d’albero.
Lei. Irene
Adler. Splendida e agguerrita, valchiria
sanguinaria, una sirena che seduce i marinai con la malia del suo canto,
stordendoli in un abbraccio carnale che non conoscerebbe fine se non fosse la
morte a strapparglieli dalla braccia. Trascina in gorghi di sensuale
pericolosità. Non c’è garanzia di porti sicuri, non ci sono promesse. Solo
quella di un attimo di sublimazione, l’occasione di una volta soltanto, unica ma
perfetta.
Lei è perdizione, attrazione irresistibile, il fascino
rapace di una notte di luna nuova, nera nel nero. Una favola rosso sangue.
I capelli lucidi e scurissimi, gli occhi scattanti che
perlustrano la sala d'Harcourt in cerca di conoscenti o visi su cui
valga la pena soffermarsi, la disinvoltura con cui riesce a muoversi in quel
vestito di raso dalle spalline troppo basse e che le lasciano scoperta una
buona porzione di petto e spalle. Calamita l’attenzione. Suo è quel tipo di
bellezza che pretende riconoscimento dal consesso, ma non ne ricerca approvazione.
È una figura eccentrica e al contempo esuberante e per un attimo, richiamato
dalla rassomiglianza, le sovviene il ricordo di come le è apparso Sherlock la
prima volta che lo ha visto. Leopardo nero. Un uomo disposto a dare il mondo
alle fiamme per la giusta causa. O la
persona giusta.
- Molly.
Sherlock la richiama con gentile
fermezza e lei si accorge di aver perso il filo del discorso e che ha smesso da
tempo di ascoltare il racconto dell’Ammiraglio che lui le ha presentato. Si
affretta a porgere le sue scuse, ma da quel momento lo splendore della serata
le si sfilaccia tra le dita e lei ne osserva, manchevole, il disfarsi.
Alla fine del concerto, attardandosi mentre aspetta
che Sherlock ritorni con la sua mantella, gironzola per la sala che va
svuotandosi. Oltre una colonna di marmo, un ampio tendaggio cremisi nasconde
parzialmente alla vista l’accesso discreto ad un’ulteriore sala, di dimensioni
assai più modeste, arredata da un lampadario a gocce, poltroncine d’epoca e un
maestoso camino sormontato da una grande specchiera da parete con la cornice
d’argento. I capelli che appaiono tanto
più chiari, soffusi di una luce avorio, quale malinconica apparizione è mai. Il
pallido spettro di giovane donna che vi è riflesso ha l’espressione di un cervo,
poco prima che il cacciatore gli spari. Ha combattuto, ma riconosce l’imminenza
della sconfitta e scopre, forse, che in vita sua non ha atteso che il
sopraggiungere di quell’ultimo e decisivo sparo.
È lì che lui la trova, le spalle rigide e gli occhi
asciutti, ma le guance ancora umide che serbano il ricordo fresco del
disincanto.
“Forse amai
un sogno?*”
“Coppia
addio; tra poco
L’ombra
io scorgerò che diveniste.”
*Il
pomeriggio di un fauno
Quella notte non dorme. Sa che, se lo facesse,
l’inquietudine mobiliterebbe i sogni. La trascorre in salotto ed è lì che la scopre,
l’indomani mattina, Sherlock.
Appunta come se volesse fissarseli nella memoria i
suoi capelli sciolti e scarmigliati, la vestaglia porpora che gli ha rubato e indossa
sopra la vaporosa camicia da notte, i piedi scalzi sul pavimento su cui è
seduta, le braccia allacciate alle ginocchia che tiene premute contro il petto
in una parvenza di abbraccio.
Un sospiro annoiato. - Avresti potuto quantomeno accendere
il camino.
- Non ho freddo – replica Molly.
È una bugia, ma Sherlock non la smaschera. Va invece
al mappamondo di legno che contiene i liquori e si versa del cognac.
Molly segue i suoi movimenti, accigliata. – A
quest’ora?
- Può considerarsi come un domani molto presto, ma
anche uno ieri molto tardi – è la risposta enigmatica di lui.
Molly ritorna a fissare i quadri poggiati sulle
poltrone. “Sfuggiva l’illusione, Fauno,
dagli occhi azzurri e freddi, come Sorgente in pianto*.”
Sherlock le si appressa, si porta il bicchiere alle
labbra come se intendesse bere, ma non ne prende un sorso. - È davvero così che
appaio?
Lei lo osserva, di sottecchi. – Alle volte.
Gli occhi di lui si volgono dal quadro che lo
raffigura a quello che ritrae Lei, vi si soffermano e si accendono di un
bagliore nostalgico, ma che nulla ha di affezionato. – La bellezza l’ha
avvelenata – dice senza rimpianto e brinda. – Requiescat in pace.
Settimane più tardi, lei capirà cosa intendesse. La bellezza ha corrotto Irene. Nel tuo caso,
invece, ti ha reso sensibile a quella altrui.
- Cosa leggi, Molly?
Aspettando la prossima mossa di Sherlock, assorbito
interamente dal goban, John volta il busto di tre quarti, poggiando il braccio
sullo schienale della sedia. Si allunga a sbirciare il titolo sulla copertina.
- “Il sogno” – legge.
Abbandonata nella poltrona vicino al camino, Molly non
cambia posizione, volta pagina. È un giorno di pioggia e una lieve debolezza
alle gambe l’ha convinta a reclamare per sé un pomeriggio di dolce far niente.
– È di Zola.
- Non avevo idea che fossi religiosa. Credi in Dio?
- Ho smesso di credere nelle divinità da anni –
risponde Molly, serena. Non è un concetto nuovo, per lei. È stato più facile
convincersi che tutto il dolore provato in vita sua, le innumerevoli perdite
subite siano state il frutto delle macchinazioni degli uomini. Uomini che
sbagliano, ottusi e caparbi. Errori umani, sì, quelli può accettarli. No, gli dei non esistono e se esistono non
potrebbe importarle di meno.
John la lascia con tatto alla sua lettura, tornando a
prestare attenzione alle pedine del go. È un gioco orientale e Sherlock se ne è
appassionato di recente, dopo aver letto un trattato scritto al riguardo dallo
scienziato tedesco Oskar Korschelt.
Con disappunto di Molly, la conversazione tra i due
uomini riprende esattamente dal punto in cui l’avevano interrotta.
– Mycroft è un dichiarato monarchico – afferma
Sherlock. – Per questo odia Marianne.
- Tu no? – chiede John con un sorriso provocatorio.
Molly si scopre suo malgrado curiosa dalla risposta
che darà. Tanti anni, pensa, e rimangono ancora innumerevoli misteri nell’uomo
poliedrico con cui ha condiviso perfino i suoi sogni. Per ogni cosa che desume
o impara di lui, le sembra che ce ne siano altrettante da scoprire.
- L’anarchia è pura utopia – il tono che Sherlock usa
è accorto, ponderato. – Una pregevole, ma di fragile fattura. Non durerebbe a
lungo. La democrazia, al contrario, parte da presupposti ragionevoli, ma la sua
sete di uguaglianza e giustizia si rivela inattuabile nello zelo di equilibrio
e cieca alla verità. Nessun uomo è uguale a un altro.
Nessun uomo è
uguale a un altro.
Molly fissa vacuamente le parole d’inchiostro del
libro. È una bugia, lo sa con cognizione di causa. Il problema è che non
ricorda perché.
Come ogni anno, riceve una visita di Mycroft alla
vigilia dell’autunno. John assiste per caso all’ultimo atto del dramma – è
passato per invitarla a una passeggiata sulla sponda destra della Senna - e
quando cerca di risollevarla, percependo quanto l’incontro l’abbia messa di
cattivo umore, Molly si lascia scappare qualcosa sull’esserci abituata ormai,
che la pratica l’ha addestrata e fortificata.
- Lo avevi già incontrato, in passato – evince John.
Si tocca i baffi. – Sherlock ne è al corrente?
- Non ne sono sicura.
John la studia con una strana espressione. – Dunque è
così. Ne sei innamorata ed è evidente. Malgrado ciò hai deciso di non parlargli
dei tentativi di sabotaggio di Mycroft. Ai miei occhi appare come una grande
dimostrazione di fiducia o della sua completa assenza. Ti fidi di lui?
- Ne ho ogni motivo.
- Non è una risposta.
Molly prende un respiro profondo. - So di poter fare
affidamento su Sherlock. È in me stessa che non nutro particolare fiducia, non
nella misura in cui dovrei o vorrei.
Osserva quella che considera casa sua da anni, in cui
ha imparato ad amare e lasciarsi amare, che le trasmette una sensazione di
tranquillità, ma non le dà sicurezza, non fino in fondo. – Non ci siamo mai
promessi nulla.
Il viso di John è comprensivo. – Questo ti spaventa?
- Mi dà da pensare – ammette Molly con un sorriso
minuscolo – e fornisce legna da ardere alla mia insicurezza cronica. Eppure lui
non mi ha mai mentito né ha cercato di forzarmi ad essere qualcun altro. Onestà,
accettazione, comprensione dell’altro, non è questo amore?
Onestà,
accettazione, comprensione dell’altro, non è questo amore?
Il ricordo riecheggia dentro di lei e Molly lo ritrova
nello sguardo di rabbia e pena che John le sta lanciando dall’altro capo della
sala. Rabbia per quello che Sherlock ha fatto, pena per lei che l’ha subito. Si
sente violata, defraudata di qualcosa che credeva sacro e puro. Come ha potuto?
(In attesa di
commenti, si mangia le mani per il nervosismo mentre Sherlock, schiena piegata in
avanti e dita che tamburellano sulle labbra chiuse, scompone analiticamente i
disegni che gli ha mostrato e che sono disseminati per il letto.
– Li trovi
macabri?
- Diversi.
- Bene.
Diverso è bene, è meglio di noioso.
- Ne hai
altri?
Il sorriso di
Molly è sgargiante, le va da un orecchio all’altro. – Quanti ne vuoi.)
I suoi quadri, figli di sogni non voluti, le ammiccano
dalle pareti di una saletta elegante, illuminata da una luce azzurrina. Rubati,
trafugati a sua insaputa per essere dati in pasto al mondo.
Come ha
potuto?
- È un successo! – afferma Sherlock trionfante e Molly
trema visibilmente, per un attimo sospetta di odiarlo.
Onestà.
Le ha mentito ignobilmente.
Accettazione.
Ha rifiutato il suo desiderio di proteggere quella
parte di lei che Molly non sente come propria, ma che la rende la donna che è
diventata. Aperta alle sfide, ai cambiamenti operati dal tempo e a quelle che
in un’epoca passata erano da considerarsi trasgressioni.
Comprensione
dell’altro.
Non ha voluto ascoltare ragioni diverse dalle sue. È
il suo cuore, il suo sangue quello sugli affreschi. Lui non lo ha capito.
Non è questo
amore?
- Come hai potuto?
Lo dice senza animosità, in un tono apatico che ha il
potere di sortire un effetto ben più profondo in Sherlock. Forse ha penetrato appieno
la portata del tradimento di cui si è macchiato, ma è troppo tardi.
Brancoliamo
alla ricerca della verità, ma in ultimo è la verità a farci sanguinare e a segnare
la nostra fine.
Concludendo, sì, Molly ha amato un sogno.
La signora gentile le chiede di tracciare con del gesso il disegno di
una porta sul tronco di una quercia.
Pur non capendo le ragioni dietro quella richiesta stravagante, Molly
obbedisce.
La vede approvare il suo lavoro, una volta finito, avvicinarsi e ricalcarne
i bordi con il ciondolo a forma di chiave che porta al collo. Il contorno della
porta si illumina, c’è il rumore di uno scatto, simile a quello prodotto da una
serratura che si apre, poi quella si spalanca verso l’interno, rivelando una
landa di nebbia.
La signora le dice di rimanerle vicina. “Giusto cielo!” Il suo brontolare è
molto diverso da quello delle suore dell’orfanotrofio. “Diventa più buio e
tetro ogni volta che ci metto piede.”
“Dove siamo?” chiede Molly. Sta battendo i denti per il freddo e si
guarda intorno ad occhi sgranati.
“Povera cara, quel vestito che
indossi non deve tenerti particolarmente al caldo. Ecco, prova con questo.” La signora gentile le porge il suo
manicotto di pelliccia. Sembra sul punto di aggiungere qualcosa, ma gli occhi
le cadono verso il basso. “E tu da dove sbuchi?”
C’è un gatto bianco e grigio che miagola e si struscia contro le
caviglie di Molly.
“Oh, è tuo. Avresti dovuto dirmelo,
cara,” le dice la signora con tono di lieve rimprovero.
“Ma non è mio,” obietta Molly. “Non
l’ho mai visto prima!”
Nel momento in cui lo dice, però, si rende conto che non è del tutto
vero. Lo prende in braccio e la signora annuisce con l’aria di approvare, prima
di voltarsi e puntare il parasole contro la nebbia come un’arma impropria, per
disperderla. Un istante più tardi, nella nebbia si apre un varco da cui avanza
un uomo biondo che le fa venire in mente un soldato. Indossa i vestiti più
strani che Molly abbia mai visto.
Anche la signora li sta osservando con malcelata riprovazione ed emette
un verso afflitto. “Da
dove vieni?”
“Da quando,” rettifica lui, bonario.
“Una versione della Terra, inizio XIX secolo. Aveva bisogno di alcuni
ingredienti per i suoi esperimenti.” Nota
Molly e la fissa con un’espressione comicamente terrorizzata.
“Non è bene fissare a quel modo, caro,”
lo riprende la signora.
“Lui lo sa?”
“Ovvio che sì. Non si potrebbe nascondergli
niente neppure volendo. Saresti così gentile da aprire per noi il passaggio? Ho
un appuntamento per il tè con Betty, la signora Turner, ricordi? E ho una mezza
idea che Molly, qui, desideri un bel bagno caldo e una buona dormita. Ti ho
raccontato in che orribile posto fosse?”
La signora continua il suo sproloquio contro i religiosi e l’uomo,
intanto, le fa un cenno d'intesa e prende un oggetto dal taschino. Ora ha una
fiaccola rossa in una mano e nell’altra una specie di sfera di mercurio che
cambia continuamente volume e forma, come una cosa viva e animata dotata di una
propria coscienza. Camminano nella nebbia finché non arrivano a una porta, la
targhetta fissata sopra l’imbotto recita in caratteri eleganti ‘Londra, XXIII
secolo’.
Janine è l’allieva, cameriera personale e factotum della signora H.; ha
capelli morbidi come il vello di un agnellino e occhi che bruciano come le
foglie autunnali. Il suo famiglio è una salamandra che lei porta in una
speciale cassetta appesa alla cintura, insieme al mazzo di chiavi della casa.
La aiuta ad ambientarsi, le mostra la biblioteca e le insegna come
superare senza perdersi il primo piano fantasma, affittato ad una specie di
stregone che vive in un’altra dimensione e che là lo ha trasferito. Le spiega
che la signora H. è una fattucchiera specializzata in filtri d’amore e
incantesimi di cuore e che da grande le succederà nella sua attività. Sottovoce
le racconta che è stata sposata ad un uomo di fama terribile, ma anche
incredibilmente affascinante, che gestiva un postribolo ad insaputa della
moglie e usava i suoi sortilegi migliori per attirare con l’inganno i clienti,
ubriacarli di sentimenti fino a svuotar loro le tasche.
Il signore con l’ombrello si presenta alla porta della signora H. con la
puntualità delle stagioni. Ogni volta le rivolge tutta una serie di domande che
la piccola Molly trova assai bizzarre. Dopo la prima volta impara a precederle
e, nascosta nell’armadio a muro dell’anticamera, si copre la bocca per attutire
le risatine che le sfuggono dalle labbra. Per lei è un gioco. La prima volta,
ricorda, si era nascosta perché Janine l’aveva sfidata a non farsi trovare. Allora
il tono del signore non era stato freddo e impersonale, ma brusco e carico di
emozioni ballerine: dalla speranza al desiderio alla preoccupazione.
Dopo le prime visite, le domande si sono sfinate, riducendosi ad una. “Nessun cambiamento?”
Di solito la signora H. snocciola i suoi progressi negli studi e l’uomo
sbuffa, troncandola e dicendo, testuali parole, che ‘tutto questo è
irrilevante’.
Una volta, visto che l’altra taceva, l’uomo ha insistito. “Ebbene?”
La signora H. ha mormorato di sogni nella nebbia e di città con mura
altissime.
“È iniziato.”
“È il momento, caro? Devo
prepararla?”
“Non ancora, ma presto.”
Quel giorno è diverso. L’uomo non dovrebbe essere lì, così come lei non
dovrebbe essere nel guardaroba, ma d’altronde è stata una brutta giornata.
“Il dottore dice che non rimarrà
alcuna cicatrice. Oh, cielo, credi che lui si arrabbierà molto?”
“Una cicatrice sul sopracciglio
destro, avete detto.”
“Una ferita, caro. Si spera nessuna
cicatrice. Come ti dicevo, il dottore mi ha assicurato che guarirà in due o tre
settimane. In tempo per Natale!”
“È il momento.”
“Ma è Natale!”
“Per alcuni lo sarà di certo di più
rispetto ad altri.” Dalla voce, Molly non
riesce a capire se ne sia contento oppure no.
“È proprio necessario? È solo una
bambina.”
“Lo siamo stati tutti. Tutti siamo
stati solo bambini, fino al momento in cui qualcuno o una circostanza ci ha
costretto a diventare altro. Ci assomigliano e per questo ci si aspetta
che un bambino si comporti da adulto, ma ci si dimentica che deve ancora
diventarlo. Le loro prime delusioni e ferite, nel nostro caso sono già
cicatrici. È quel momento. È il momento in cui diventi ciò che è destinata ad essere.”
Molly sogna e impara a muoversi nel sogno come nella realtà. Una notte,
però, le pareti del sogno le si restringono attorno come le spire di un
serpente. Spinge e spinge e sente un crack e l’oscurità cede sotto la pressione
delle sue mani, arrendevole. Si guarda intorno, ansante, mentre la nebbia cala
intorno a lei e intravede una scia di luci azzurrognole che galleggiano nello
spazio vuoto. Le segue. Si ritrova di fronte a una porta. Bussa e dopo aver
aspettato un ragionevole lasso di tempo, quando sta per allontanarsi, quella si
apre.
Entra in un appartamento arredato spagnolescamente. Un uomo biondo, di
cui ricorda confusamente il nome, le racconta la storia fantastica di Tre
Facce, tre uomini che indossano un volto che non è il loro come una maschera,
che hanno una potestà a cui sono vincolati, anima e corpo. Lei è destinata a
trovare chi sostituirà Uno dei Tre, il cui dominio è il Tempo. La ricompensa in
caso di riuscita, (è ancora una ragazzina e ci vuole una buona ragione per
convincerla a rischiare la sua vita, qualcosa che non sia la parola ‘destino’ o
‘gloria’) se si sobbarcherà l’incarico, è un ricordo. Il ricordo di un giorno
della sua vita, presente o passato o futuro, a sua discrezione.
Molly pensa ai suoi genitori, i cui i volti cominciano a sbiadire dalla
sua memoria e firma il contratto magico con la penna di corvo che John e l’uomo
con l’ombrello, Mycroft, le porgono.
Ci sono tre
porte di fronte a lei. Una si apre su un bagno azzurro, una su una camera da
letto, l’ultima su un corridoio. Il corridoio è infinitamente lungo, su ogni
lato ci sono una sfilza di passaggi con didascalie prive di alcun senso logico
per lei. Il Limbo. Il Bosco.
Gutteridge. Una attira la sua attenzione.
Ha il pomolo di cristallo e la dicitura recita ‘Archivio’.
È una stanza
con le pareti imbottite e cornici con stucchi decorativi. Ci sono scaffalature
su scaffalature, teche di vetro, mobiletti e scansie e mensole. Su ogni ripiano
ci sono cuscini di velluto occupati da orologi che ticchettano, ma le cui
lancette si muovono in senso antiorario.
C’è un
orologio in particolare che attrae la sua attenzione, uno che non ticchetta.
Molly lo prende, lo apre per studiarne gli ingranaggi e le lancette cominciano
a muoversi come impazzite, il quadrante si illumina, la illumina.
Istintivamente lei chiude gli occhi. Quando li riapre, si guarda attorno e
reprime un tremito. Un cielo opprimente, palazzi fatiscenti, strade dissestate.
Molly vede un’ombra strisciare verso di lei, all’imbocco del vicolo. Prende una
pietra e si mette in posizione di difesa. La pietra le cade di mano e le rotola
oltre i piedi. Si tratta di un bambino con un becco di corvo per maschera e la
fissa a bocca aperta.
VI.
(1902)
La cucina è spartana,
ma confortevole, con il pavimento di pietra e un grande focolare in cui è
acceso un fuoco invitante. Pentole di rame scintillante, utensili e una gabbia laccata
di verde sono appesi alle travi del soffitto, insieme alla parte superiore di una
credenza senza ante e ripiena di piatti dipinti a mano, un cappello a cono di
paglia e una gerla con le cinghie di corda agganciate a dei rampini di ferro.
È sprofondata
in una panchetta, ha le braccia incrociate su un tavolo rustico e lustro, a
poca distanza da un trincetto, un pezzo di formaggio, degli ortaggi freschi e
un recipiente di terracotta con una sola ansa, traboccante di giaggioli e
viburni.
C’è una donna
che armeggia di fronte al treppiedi con un paiolo che schiuma e che riattizza
le braci. È bionda, bassa e formosa e ha gli occhi sagaci e briosi.
“Perché hai smesso di viaggiare?" domanda Molly.
“Lo si fa davvero?” replica l’altra, senza voltarsi.
Molly può
sentire il suo sorriso fisicamente, come se fosse un’essenza da cogliere.
La donna
viene a sedersi di fronte a lei e comincia a tagliere con perizia le verdure. “Arriva un momento,” le dice, senza interrompere quanto
sta facendo, “in cui non importa cosa tu abbia fatto o non abbia fatto, tutto
quello che vuoi è fermarti e riposare. Diventa un desiderio del cuore e quei
desideri andrebbero sempre ascoltati perché sono i bisogni che il corpo non ha
modo di esprimere. Io ho visto molte cose, alcune delle quali non avrei voluto
vedere, altre così meravigliose che tuttora mi pare incredibile che non siano
state frutto della fantasia. Non è stato facile e non è sempre stato felice, ma
è stato il mio viaggio. Riesci a capire?”
Invero, Molly
ci riesce.
“Una volta che la bambina sarà nata, io non ci sarò
più.”
Gli occhi di
lei sono malinconici, ma rassegnati. Molly vorrebbe che non lo fossero, non la
vorrebbe docile e rinunciataria. “Perché?”
“Il mio tempo è finito da anni. Altri hanno rinviato
la scadenza per me e io ho finto di non sapere da dove provenisse il tempo in
più che mi veniva regalato, perché l’ignoranza mi faceva comodo. Se ti dicessi
che lo rubavo ad altri, cosa penseresti?”
Gli altri
sono sconosciuti, persone senza volto e volontà. La donna di fronte a lei
invece è reale e ciononostante, tra quegli sconosciuti può esserci stata sua
madre. Può essere ai suoi genitori che lei, loro hanno sottratto del tempo.
Molly sospira. “Non sarebbe
giusto.”
“Ricordo questo momento,” sente dire a qualcuno. Si rende conto con un attimo di ritardo, che
si trova nell’arrangiamento modificato del salotto di Sherlock e che ci sono
due versioni di sé. Una è trasparente e pare un fantasma, impercepibile ai
presenti: lei sta sognando all’interno di quella.
La porta dell’appartamento
si apre ed entra un uomo allampanato, dal colorito grigiastro e gli occhi
infossati. “È in travaglio,”
annuncia.
L’altra sé,
quella più vecchia che ha parlato e che sta vivendo il momento, non ne è mera
osservatrice, è totalmente votata all’uomo in nero che è piantonato al suo
fianco. Gli sfiora la mandibola e per un istante Korax chiude gli occhi,
sovrapponendo la mano di lei con la sua. Quando li riapre, vi brilla una feroce
risoluzione. Si muovono come se avessero organizzato tutto nei minimi dettagli,
agiscono come un sol essere. Lei prende una borsa da medico, lui fissa al
taschino della giacca uno strano orologio a cipolla che assomiglia a un Cylindre
remontoir. Li vede spostare un mobile e svelare una porta dell’altezza di un
bambino. Ci entrano, scomparendo e così fa lei, svegliandosi.
Il risveglio è dolore e per la prima volta Molly prova
quasi il desiderio di immergersi nella dimensione onirica dei suoi sogni. Lì il
dolore è acuto e persistente come quello che potrebbe provocare un vestito
troppo stretto, qui è un martellare prettamente fisico. Per quelle che le
paiono ore, rimane sdraiata nella penombra del suo appartamento, stremata.
Ore o giorni dopo, si alza per lavare le lenzuola.
Questa volta l’epistassi è stata copiosa.
Molly cara,
Sarò a Parigi
per la settimana ventura insieme a Lilou. Abbiamo tante cose di cui discutere e
vorrei una tua opinione riguardo una certa faccenda che potrebbe permettermi di
lavorare nella capitale. Non ti anticipo nulla, ne riparleremo quando ci
vedremo.
Tua Jill.
- Era da tanto che non ci si vedeva.
- Tre anni – rimarca lei, senza il disagio imbarazzato
che sembra aver preso possesso dell’uomo che le è seduto di fronte.
- Tre anni? Sul serio? Diavolo, come vola il tempo!
È morto un secolo e ne è nato un altro, nel frattempo.
Ci sono state le Olimpiadi e un’Esposizione Universale, un anarchico ha cercato
di assassinare lo Scià di Persia, l’Australia si è resa indipendente dal Regno
Unito, se ne è andata una Regina ed è salito al trono d’Inghilterra un Re, c’è
stata la prima trasmissione transoceanica, la grazia ad Alfred Dreyfus, il
trionfo del cinematografo dei fratelli Lumière, l’apertura di due stazioni
ferroviarie e l’inaugurazione della Métro de Paris. Più importante del
resto, lei ha fatto tana in una piccola struttura piena di finestre e atelier pullulanti
di altri artisti, ubicata nel quartiere
Vaugirard, dal nome evocativo de La
Ruche.
- John, se ti ho chiesto di incontrarci è per un
motivo preciso.
- Un motivo che immagino non abbia a che fare con lui,
vero?
Lui. Molly lotta contro il senso di vertigini,
l’occlusione alla gola e alle vie respiratorie che il solo accenno a lui le sta
provocando. Lui, malattia e veleno. Lui, bugiardo e impostore. Lui che, è
venuta a patti nel corso degli anni, ha agito a fin di bene ed è incorso nel
rischio del suo odio affinché anche il mondo riconoscesse i suoi meriti.
John fraintende il suo silenzio come una possibile
apertura, magari un ripensamento. – Non è stato più lo stesso dopo che te ne
sei andata. Ha cominciato a girovagare tra l’Europa e l’Asia. Adesso è da
qualche parte in Turingia, nelle zone di Erfurt o Jena. Un conoscente gli ha
chiesto di valutare i suoi affari, per decidere se gli convenga investire nell’industria
tessile in Germania. Dicono che tiri una brutta aria e si parla di
ostruzionismo e antisemitismo.
Molly si porta una mano al viso. La sente intorpidita
e subito la poggia sul tavolo, di fianco al piattino con i vari assaggi di Charlottes che ha ordinato, ma di cui non è
riuscita a inghiottire che poche forchettate. – John.
- Se ne va in giro con un borsalino e
pensa che si è anche preso un cane, un cocker spaniel nero. Lo ha chiamato
Ventimiglia.
Lei sorride tristemente. Sherlock ha
sempre avuto un’inclinazione per le citazioni e i riferimenti sottili. Non è un
caso, quindi, che abbia scelto il nome Ventimiglia. Ventimiglia come la
signoria de “Il Corsaro Nero”. La filibusteria è un punto debole di Sherlock, nel
modo in cui lo è la sua riconosciuta idiosincrasia per i copricapi.
John non sembra intenzionato a cedere
le armi, acceso com’è dall’improbabile prospettiva di una riconciliazione. - Un
cane, capisci? – esclama con un fervore che lei, francamente, trova eccessivo.
- Io ho preso un gatto – ribatte,
atona. Non è questione di cani o gatti, ma di rispetto. Sherlock ha travalicato
il limite di ciò che l’amore concede di fare in suo nome. - John, non ti ho
contattato per rivangare i vecchi tempi, ma per un consulto medico.
Lui strabuzza gli occhi e finalmente
non fissa gli interni verdi della brasserie solo per evitare di incrociare i
suoi né gira a vuoto il cucchiaino con cui sta giocherellando da quando ha
finito il suo Mont Blanc, nemmeno studia con interesse clinico gli altri
avventori dagli specchi a parete. È lei che guarda, che adesso esamina nella
sua interezza e Molly è desolatamente cosciente della misera visione che deve
offrire.
- Non sarai…
John gesticola animatamente, fa cenni
verso l’addome ed è il turno di Molly di spalancare gli occhi. – Cosa? No! Non
sono… non aspetto alcun… - prende un respiro profondo e dice l’unica asserzione
che sia vera: - Non c’è stato nessun altro.
- Mi dispiace.
Sembra sincero mentre si allunga a
stringerle il polso, accarezzandole il dorso della mano e Molly scuote la testa
e si morde le labbra.
- In effetti – prosegue lui,
distogliendola dai pensieri legati a Sherlock – non hai una bella cera.
Il che, lei lo sa bene, è un
eufemismo ed è esattamente la ragione che l’ha spinta ad organizzare
quell’incontro. Ha collaudato il discorso un’infinità di volte, trovando in ogni
prova qualcosa di ridicolo e stonato. John,
credo di star morendo. John, credo di soffrire di una grave malattia. John, i
sogni mi stanno dissanguando. John, ho paura.
- Voglio che
mi visiti – dice tutto d’un fiato.
Se ne è sorpreso, lui lo maschera bene.
Si limita ad annuire e a rivolgerle domande circostanziali e che Molly aveva
preventivato come di rito.
Lo vede mutare espressione, mano a
mano che gli offre risposte diverse da quelle che avrebbe voluto sentire.
Incupito, si sfiora i baffi. Non un buon segno.
Lasciano la Bouillon Racine a braccetto, sotto un cielo gravido
di pioggia che comincia a rabbuiarsi e bagliori di saette all’orizzonte.
Quella notte un fulmine colpirà la Tour Eiffel. Quella stessa
notte Molly avrà un collasso e la mattina successiva sarà
portata d’urgenza all’Hôtel-Dieu.
È l’inizio
della fine. O piuttosto la fine dell’inizio. Si trova in un limbo di nebbia e
tenebra, con lei c’è un uomo dai capelli neri che si agita ai suoi piedi e urla
in modo straziante, disumano, in preda a una sofferenza inimmaginabile. È come
se lo stessero dilaniando dall’interno e Molly grida a propria volta, invoca
aiuto. Ha ferite profonde che lei tenta di cauterizzare con il fuoco, ma per
quanto riesca a bloccare il deflusso di sangue, le urla di lui non
diminuiscono, il dolore pare amplificarsi invece di attenuarsi. Per ogni taglio
che cura, se ne aprono altri due, come teste d’Idra.
“Devi riportarmi a Selimbria” lo sente gemere. In uno scampolo di lucidità le ha afferrato
il polso.
No. No! Molly
scuote la testa. Ci deve essere un altro modo, ci deve essere! “No.”
“Ascoltami. Hai visto il marchio.”
“Lo brucerò.”
“Ci hai già provato e non ha funzionato. Ha il mio
sangue ormai. Le ferite non si rimargineranno. Molly, fa’ come ti dico.
Riportami là.”
“Non puoi chiedermelo.” Un singhiozzo. Voleva essere forte. Non ci riesce, non ora che
l’incubo sta prendendo forma.
“Ti prego, Molly.”
Un altro
singhiozzo. Non riesce a riconoscere se provenga da lei o da lui, ma ha qualche
importanza?
“Molly.”
Scompaiono
per riapparire in quella città maledetta in cui tutto ha avuto inizio e in cui
tutto avrà fine. Non capisce. Non è stata lei a portarli a Selimbria, allora
chi?
Il bambino
delle segrete abbassa il cappuccio e torna ad essere visibile. In mano ha
l’orologio che lo qualifica al grado di Uno dei Tre, la carica che è stata di
Korax. Le porte sono tutte sigillate, con l’eccezione di una rossa, sulla cui
soglia aperta c’è la figura smilza di un uomo che sogghigna. Jim.
Korax ha
smesso di urlare. Ora è un tipo di dolore diverso a farsi largo dentro di lui,
è la consapevolezza di quello che succederà a breve.
Molly gli si
inginocchia accanto e gli prende la testa per poggiarsela in grembo, scostargli
i capelli dalla fronte, cancellare con le dita le rughe che il dolore gli ha
scavato attorno alla bocca e ai bordi degli occhi annebbiati. Ma non è dolore,
è tempo. Sono gli Anni che gli stanno ricadendo addosso, uno dopo l’altro, ora
che il suo servizio è giunto al termine. Sulle nocche delle mani le incisioni
sbiadite della scarificazione stanno tornando ad essere nere. Gli è stata
restituita la sua vera età.
Lui accoglie
le sue carezze con un sospiro di sollievo. “Sei sempre stata troppo materna.”
Molly sente
il cuore incrinarsi, sotto lo sforzo eccessivo del peso che sostiene.
“Molly.” La voce
di lui ha lo stesso tono supplice di quando le ha chiesto dove si fossero
incontrati e lei lo ha baciato per la prima volta.
Troppo tardi,
vorrebbe dirgli. Ha fatto la sua scelta. “Verrò con te.” Lui ha uno
spasmo, ma il sorriso ieratico che gli rivolge è irremovibile. “Non puoi
impedirmelo.”
“Rimarrò qui piuttosto che lasciartelo fare.”
Le sta
dicendo che preferisce morire. Le sue mani sono scosse da un brivido, ma non
smette di toccarlo. Non può farne a meno. Potrebbe essere l’ultima volta,
quella. L’ultima volta. “Non è
giusto.”
“Separarmi da te non lo è mai.”
Molly si
china in avanti, poggia la fronte contro la sua. “Cosa succederà adesso?”
“Le porte si apriranno un’ultima volta.”
“E poi?”
“Tu crescerai la bambina nel Bosco di Mary.”
“E tu?”
Lui non
risponde, non che sia necessario. È un addio, quello definitivo.
Mi sarebbe piaciuto invecchiare insieme a te.
Jim prende
Korax in custodia, lo mantiene in piedi e nel momento in cui perde la presa su
di lui, Molly si abbraccia i gomiti e cerca come può di mantenere insieme i
pezzi di se stessa. Non lo bacia. A che pro? Per ricordare ad entrambi quanto
stanno perdendo?
Raggiungono
la porta e le ferite di Korax cominciano a rimarginarsi, eppure lui non le è
mai parso più esausto o ferito e vulnerabile.
Murato vivo,
cantilena una voce dentro di lei, spietata e insistente. Murato vivo.
Murato vivo.
E un’altra
parola le si scolpisce a fondo nell’anima, sanguina come una ferita che niente
farà guarire quando la porta si richiude sul viso di lui, non più inespressivo,
ma specchio della disperazione di entrambi. Addio.
C’è una casa,
in un Bosco che è un sogno impossibile, dove tutto è il contrario di come
dovrebbe essere. Il cielo è verde e l’erba è nera e gli alberi altissimi hanno
tronchi lisci e fronde violacee che fremono sotto aliti di vento fantasma,
sembrano danzare al ritmo immaginario di una musica che nessuno sta suonando.
Ci sono geni
della natura che abitano i torrenti e le rocce e vivono nelle caverne che
raggiungono il cuore della terra in gole profonde.
E c’è una
bambina bionda con gli occhi azzurri che corre a perdifiato e ride, perdendosi
nel recinto sicuro del labirinto che è il suo dominio e non sembra far caso al
particolare che, là dove poggia i piedi o sfiora il fitto e intricato
sottobosco, l’impossibile ritorna ad essere possibile e la realtà comune scalza
l’irrealtà del fantastico. Lei che, pur così piccola, già impugna la verità
come un’arma.
C’è una donna
vestita di bianco, con un peplo che le copre il viso severo, che le fa da
guardia, appollaiata sul ramo di un pino.
E c’è una
seconda donna, al centro di una radura, nella casa che è una Locanda, che
tritura erbe per le sue pozioni e inforna biscotti e scrive un diario che, a
suo tempo, consegnerà alla bambina. E intanto ricorda una grande stanza
mangiata dalla polvere, piena di orologi le cui lancette contano il tempo al
contrario, non quello che scorre, ma quello che manca prima del ticchettio
risolutivo, la nota di chiusura. Ricorda un uomo dagli occhi penetranti e del
colore della tristezza che, andandosene, si è portato via metà di lei. E
ricorda la donna di cui sta crescendo la figlia e mescola e mescola e i ricordi
turbinano e si fanno meno precisi, il dolore che li accompagna diventa meno
appuntito, rende quasi verosimile l’idea di sopravvivergli.
Molly apre gli occhi e finalmente sa chi è e cosa non
è. Vede facce amiche intorno a lei, che vestono il costume di quel tempo, di
quel mondo senza sapere che è una maschera. Che vedono e non osservano. Che
pensano di saper distinguere tra verità e menzogna, ma si perdono nel ponte
grigio che sta in mezzo. Chiude per l’ultima volta gli occhi, ma non li riapre
nel sogno. Anche il tempo dei sogni è finito e un nuovo ciclo inizia.
Si sveglia e tutto è rumore, luce. Galleggia nel
vuoto. Fino a un attimo prima era in una bolla confortevole, ora la bolla è
scoppiata e lei è stata catapultata altrove, in un posto pieno di giganti
mostruosi e vocianti. C’è troppo colore, troppi suoni, troppo freddo.
- Molly - le sospira una voce all’orecchio. È una voce
familiare, la stessa che le parlava nei recessi della coscienza quando si
trovava nella bolla. Il suo pianto si placa. Anche la Voce è un gigante mostruoso,
ma meno chiassoso. Sa di buono ed è caldo e morbido al tatto. Non quanto la
bolla, ma può andare.
Lei è morta. Sherlock arresta di colpo i suoi passi e poco gli
importa se questo crea incomodo agli altri passanti. A centinaia di miglia di
distanza da quella strada, in una città altrettanto straniera, lei si è appena spenta.
Ha arrestato le sue funzioni vitali, che è un modo come un altro per dire che ha
cessato di esistere, che tutto ciò che la rendeva lei, unica e speciale, si è
estinto. Nello stesso istante lui ha ricordato. È troppo tardi.
Prende l’ultimo treno della giornata da una stazione
affollata e sporca. A Parigi percorre con confidenza strade che guarda con
occhi distaccati di estraneo, cercando la figura di lei che non troverà più,
non là.
Ci sono tutti, tutte le persone che contano, anche se
non sanno di esserlo, insieme a facce nuove. Non lo sorprende. In ogni vita lei
è stata capace di creare nuovi legami, esplorare fino in fondo le capacità
dell’epoca e del luogo. L’insoddisfazione che provano entrambi, come un parassita
che si agita sottopelle, si manifesta diversamente, com’è normale che sia: nel
suo caso si traduce nell’inadeguatezza dei rapporti interpersonali, la vaga e
persistente ricerca di qualcosa che assorba la sua mente, un proposito, un
traguardo irraggiungibile perché impossibile da definire.
Quando lo vede entrare nell’obitorio, sembra che John
voglia tirargli un pugno. Non sarebbe una novità. Poi lo guarda bene in faccia
e la collera annega di nuovo nel dolore. Ma è un dolore così misero, ridotto,
meschino rispetto al suo. Cosa vuole saperne questa variante di John del
dolore? Il vero dolore è ritrovarla quando lei è già andata via, è passata
oltre, senza che lui possa raggiungerla perché non è ancora arrivato il suo
momento.
John gli stringe la spalla con partecipazione. - Ha
fatto il tuo nome prima di… - esita, la sua postura mostra un’incrinatura nella
corazza. Ma è John ed è un soldato, anche se non lo ricorda, perciò è lesto a
riprendere il controllo di sé. - Ha fatto il tuo nome – ripete e null’altro
conta.
Sherlock annuisce. Ovvio. Anche lei ha ricordato. Il
processo era iniziato da tempo, dai sogni, ma è giunto a compimento poco prima
della fine.
– Altro?
- Vivi –
risponde John con occhi incredibilmente bui, foschi. – Ma non so a chi fosse
riferito.
Lui lo sa e
tanto basta.
- Ha detto qualcos’altro – interviene una voce
femminile e John si volta di scatto per incenerire la donna che ha parlato.
L’atteggiamento, la carnagione e i colori chiari rassembrano Mary, ma è una
somiglianza effimera che si arresta alla superficie.
- Cosa? – la sollecita Sherlock in tono spento.
– Korax – dice e nonostante le premesse c’è un accenno
di scusa, una richiesta di perdono nella voce di lei.
Sherlock chiude gli occhi, sente i sentimenti
scavargli la pelle tutto attorno. Oh,
Molly. Molly mia.
Loro fraintendono e come potrebbero non farlo? Non
hanno ragione di capire, non hanno cognizione di nulla. Vorrebbe fargliene una
colpa, ma la verità è che non può. Sarebbe stupido, irragionevole. Inoltre non
la riporterebbe indietro, non gliela restituirebbe.
Le mani di Molly sono gelide tra le sue; il suo volto
è bianco e disteso. – Ha sofferto?
- Se ne è andata nel sonno.
Perciò è andata via sognando.
Le sfiora le sopracciglia, le guance, le labbra, i
capelli che profumano di fiori. Le bacia il dorso della mano, il palmo. Cosa sognavi? Dov’eravamo noi, nei tuoi
sogni? A che punto della storia?
Ho ricordato, vorrebbe dirle. Sono
qui. Lei non si sveglia, non può sentirlo. È inutile. È troppo tardi.
- Non hai un non-luogo di cui occuparti, tu?
Svegliandosi, non saluta i due ragazzi che gli stanno
facendo compagnia. Loro non sembrano dispiacersi per quella mancanza di
convenevoli. D’altro canto ci sono abituati, lo conoscono e non si aspetterebbero
trattamento diverso.
Veronica si scosta dal viso i lunghi capelli biondi
che le sono d’impiccio e il sorriso fiero è la riproduzione esatta di quello
che per anni Mary gli ha rivolto. – La famiglia prima di tutto.
- Dove sono gli altri?
Lei capisce subito a chi si riferisce. Si adombra percettibilmente.
– Erano impegnati. Anche John, mi dispiace.
Sherlock le rivolge un’occhiata penetrante e lei arrossisce.
Ecco, in questo è figlia di Molly e non di Mary. Mary avrebbe preferito il
lapsus, l’errore piuttosto che l’abiura.
– Papà – si corregge lei, bofonchiando e torna ad
osservare nel bacile. La sta cercando, sta studiando l’intera mappa dello
spazio-tempo per trovarla e potrebbero volerci secondi come anni. La bravura
non basta, a volte è una questione di colpi di fortuna, cercare nei posti
giusti al momento giusto. Le probabilità sono tutte contro di loro, lo sono
sempre state.
Sherlock accarezza con gli occhi socchiusi la sagoma
della persona dormiente distesa sul basamento di pietra. – La sua vita… com’è
stata, questa volta?
Archie è in piedi accanto al piedistallo su cui è
seduto lui, pronto a sostenerlo in caso vacillasse. I risvegli sono sempre duri
da digerire, rischiosi.
- È rimasta sola a lungo – Veronica parla lentamente,
cerca di non lasciar trapelare l’emozione. Ama Molly e lo stesso vale per
Archie. Non è difficile crederlo. È così semplice amare Molly proprio perché è lei
a renderlo facile; il difficile è convincersi di valerne la pena, di essere
degni del posto che si occupa in un cuore che è generoso e disinteressato, che elude
il principio del do ut des. – Ha vissuto con intensità. Ha provato la
disperazione, ma anche la felicità quando ti ha incontrato.
- Novità? – chiede. Meglio non rimuginare sul passato,
è una lezione vecchia quasi quanto lui.
- Siamo ad una svolta – risponde Archie, senza nulla
dell’esultanza azzardata che caratterizzava il ragazzino che è stato, ma con la
posatezza che è propria all’uomo che sta diventando. – In questa vita vi siete
conosciuti relativamente presto. Inoltre Ronnie è riuscita a controllare i suoi
sogni.
Veronica fa una smorfia. – Odiava quei sogni, ma Archie
ha ragione. La prossima volta avrò maggiori possibilità di manovra e –
- Scordatelo – la interrompe Sherlock.
- Ti avevo detto che lo avrebbe detto – gongola
Archie.
Lei sporge le labbra, imbronciata. – Non abbiamo mai
tentato!
- Per una ragione – replica Sherlock.
- Potrebbe avere effetti imprevedibili – gli dà
manforte Archie.
Veronica non aggiunge altro, ma Sherlock è un osservatore,
fa parte della sua natura e come Korax e come Uno dei Tre. È tale e quale a sua
madre, entrambe le donne, sia quella che le ha dato la vita sia quella che l’ha
cresciuta come propria. In virtù di questo, lui può prevedere che farà di testa
sua a prescindere.
- Trovata! – la sente esclamare, a sorpresa. - Terra,
Inghilterra, Londra, XX secolo. Bene, questa volta avrai l’elettricità.
- E l’acqua corrente – interviene Archie con un
sogghigno.
- Per non parlare dei telefoni cellulari!
- E del tubo catodico.
- Rock e Tolkien!
- Einstein e Gandhi e lo sbarco sulla Luna!
- E guerre – si ridimensiona Veronica. – Un bel
mucchio, in effetti.
Sherlock li ascolta, senza realmente ascoltarli. Dopo
quarant’anni accarezza di nuovo il volto di Molly. Altri vent’anni e, se è
abbastanza fortunato, potrà ascoltarne la risata.
“Com’è?” chiede la piccola Ronnie.
L’aggettivo ‘piccola’
non le si confà. Non è più adatto, riconosce Sherlock, se riferito alla giovane
donna che gli sta di fronte. Bionda, alta e sottile, precoce e arguta,
espansiva e mordace. E curiosa, come dimenticarlo. Tremendamente, testardamente
curiosa.
“Non è dimenticarla la parte difficile.”
Veronica
annuisce con l’aria di capire. Forse può, quasi sicuramente non può. Ha davvero
rilevanza?
No, non è
dimenticarla la parte difficile, dice a se stesso. Perché ogni volta ha la
sicurezza che lei ci sarà, che la troverà e farà in modo che occupi il posto
nel mondo che è al suo fianco.
“Qual è allora?”
“È ricordare.”
Ricordare di averla avuta rende tutto più complicato, rende impossibile
convivere con il pensiero di non averla, accettare di non poter averla. Ricordare cosa sono stati insieme gli fa
detestare cosa sono separati. Perché lui sa, nel profondo, che non averla è
l’unico modo in cui può averla. È come funziona la maledizione. Divisi anche
quando insieme, infelici adesso e per sempre.
La bambina spalanca gli occhi come finestre che si
aprono per la prima volta sul panorama tutto da scoprire del mondo. Gli occhi
sono bluastri, dello stesso colore delle piante di Myosotis (altra nomenclatura per
classificare la Veronica Persica, il nontiscordardimé) che lui ha fatto
recapitare nella stanza d’ospedale ore prima che annunciassero che il nome che
avevano scelto era Veronica.
John è raggiante d’orgoglio e un’occhiata poco
approfondita rende chiaro che ha bevuto un bicchiere di troppo del Porto
Vintage che Lestrade gli ha regalato.
Mary gli tende la bambina, appellandosi alla giustificazione
del suo esserne padrino e Sherlock non può tergiversare o svicolare
dall’incombenza.
Veronica Watson chiude la manina attorno al suo
indice, lo considera con il suo sguardo raziocinante e assurdamente saggio.
L’azzurro dell’iride è acqua specchiante, specchio di specchio e Sherlock si
ritrova catapultato al suo interno. Ricorda.
Un becco di
corvo per maschera, una città senza porte, una ragazza vibrante e dalla
personalità forte, una casa in un bosco, un orologio che non ticchetta, Tre
Facce identiche che appartengono a tre uomini differenti, una maledizione che
solo i ricordi possono spezzare.
Ci sono volti amici, alcuni antichi, altri recenti. In
mezzo a loro, Molly brinda alla salute di madre e figlia e lui vorrebbe andare
da lei e – ma può aspettare. Un minuto in più, dopo cento vite, cos’è mai?
Insopportabile, benedetta ragazza. Alla fine ha fatto
di testa sua. Non più sogni e indizi, non le è bastato. Questa volta ha
proiettato se stessa. Lei che è vera immagine, conduttrice del vero, ha
pilotato la verità del tempo fino a loro. Lei che, già così piccola, impugna la
verità come un’arma di dannazione e salvezza. Lei, degna figlia di sua madre.
N/A:
Detto
sinceramente, non pensavo di arrivare fino a questo punto e spesso ho
pensato che non avrei scritto la parola fine. Se siete ancora qui con
me, ebbene, pionieri, a voi è d’uopo un GRAZIE e un SIETE
MERAVIGLIOSI. Questa storia non vuole essere niente di che, nasce come
una prova di coraggio, un trampolino di lancio per qualcosa di
più grande e un pochino più complesso. Sono come minimo
un paio di anni che intendevo scriverla e nel decidermi a farlo, ho
voluto dimostrare a me stessa semplicemente che potevo, che, malgrado
le paturnie e infinite paranoie, se mi ci fossi messa d’impegno
avrei potuto portarla a conclusione e difatti così è
stato. Non ci ho pianto sopra, anche se ci sono andata vicina xD, ho
sudato mille camice e ci sono parti che vorrei riscrivere, altre che
vorrei cancellare, insomma, le solite cose!
La
mia scelta di non pubblicarla capitolo per capitolo è una
questione di preferenza. Sono abituata al libro formato digitale e
quando leggo qualcosa di lungo sui siti di fan fiction il dover premere
continuamente la freccia per andare avanti, invece che procedere
scorrendo in basso, mi fa ammattire. Mi auguro vivamente che questo non
vi abbia creato disturbi e spero che la lettura sia stata qualcosa di
gradito. Se volete e se avete un po' di tempo a disposizione, mi
fareste immensamente felice dicendomi cosa vi è piaciuto o cosa
non vi è piaciuto, se c’è una frase, un paragrafo,
un pezzo in particolare che vi ha colpiti favorevolmente.
Io sono qui, come sempre, a vostra disposizione per qualsiasi chiarimento ;)