Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Ruta    25/09/2015    3 recensioni
C’è una maledizione. È quella ad unirli, non il filo rosso delle leggende popolari cinesi. Non ricordano chi sono o cosa sono stati e intanto le vite si susseguono, come abiti che si cambiano con il mutare delle stagioni, sempre e comunque.
C’è una maledizione e questa maledizione ha sparso frammenti di lei, i suoi ricordi, a manciate nel tempo. Ogni volta riavrà un nuovo dei vecchi ricordi. È lui a trovarli per lei, a raccoglierli, pezzo dopo pezzo, ricomporla come Iside fece per Osiride.
C’è una maledizione e si spezzerà quando entrambi ricorderanno nella stessa vita. Divisi anche quando insieme, infelici adesso e per sempre.
Genere: Fantasy, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
sotto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOTTO CIELI SCONOSCIUTI

 
I RICORDI CHE NON CI APPARTENGONO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è una maledizione. È quella ad unirli, non il filo rosso delle leggende popolari cinesi.
Non ricordano chi sono o cosa sono stati e intanto le vite si susseguono, come abiti che si cambiano con il mutare delle stagioni, sempre e comunque.
Ci ricordiamo davvero di qualcosa che ci è accaduto anche dopo che sono trascorsi anni o sono solo echi illusori e piatti, come la luminosità delle stelle esplose che ci raggiunge ad una distanza di miliardi di anni luce e illumina il nostro cielo ogni notte, anche quando di quelle stelle ormai non è rimasta che cenere cosmica?
Lei non lo sa. L’unica cosa di cui è certa ogni volta, l’unica sicurezza è che riaprendo gli occhi lo ritroverà dall’altro lato, ovunque esso sia.
Sa che sarà triste, senza conoscerne il motivo e che questo stato di cose peggiorerà quando i ricordi cominceranno a tormentarla sotto forma di sogni. D’altronde siamo tristi perché dentro di noi conserviamo la memoria di quando siamo stati felici e con felici lei intende davvero felici. Quel tipo di felicità che si trova una volta nella vita, che si prova unicamente con una persona.
C’è una maledizione e questa maledizione ha sparso frammenti di lei, i suoi ricordi, a manciate nel tempo. Ogni volta riavrà un nuovo dei vecchi ricordi.
E anche se non ne ha idea, anche se lo dimentica ogni volta per poi doverlo ricordare daccapo, è lui a trovarli per lei, a raccoglierli, pezzo dopo pezzo, ricomporla come Iside fece per Osiride.
C’è una maledizione e si spezzerà quando entrambi ricorderanno nella stessa vita.
Divisi anche quando insieme, infelici adesso e per sempre.

 

 

 

 

I. (1891)

 

Gli inverni di Parigi sono di una bellezza straziante e questo Molly non può che riconoscerlo. Ma, ma.
Non può non ricordare altri inverni, altre nevi, altri tramonti sanguigni e notti strappate all’Inferno.
Non può non ricordare com’era ‘casa’ quando casa erano spazi infiniti da percorrere di corsa, in cui tutta la vita consisteva nell’avanzare sotto cieli di splendida fattura, ricami dai colori ineguagliabili.
Non può non tratteggiare con precisione la sensazione del vento sulla pelle, dolore e piacere a rincorrersi e intensificarsi come baci scoccati a tradimento sulle piaghe aperte dal freddo.
Ricordare nelle immagini di allora la complessità di mantenere il passo e un precario bilanciamento, con il cavalletto sotto braccio e la rigida valigetta contenente le tempere e l’occorrente per lavorare sotto l’altro. Ritrovare i ricordi come vecchie cartoline spiegazzate sul fondo di un baule in una soffitta piena di ragnatele e polvere, riconoscerli, ma non sentirli più propri. Veri, sì, ma della verità fallace di un’esistenza che più non sussiste, non le appartiene, non riconosce come sua.
E infine, più importante di tutti, la realtà dello scoprirsi donna, profondamente diversa dalla ragazzina che aveva eletto le sterpaglie delle campagne a suo rifugio, che aveva fatto tana nei campi di grano arsi dal gelo, bruciati dalla brina, nei torrenti e negli alberi nudi e contorti, nelle enormi vallate bianche come spuma di mare in tempesta, in un focolare con braci all’apparenza sempre sul punto di estinguersi, in fasci di rametti aromatici ed erbe dall’odore penetrante appese a testa in giù e messe a seccare su travi di legno mangiate dai tarli e dall’umidità, in una sovrabbondanza di coperte, tutte troppo leggere per affrontare il morso del freddo senza tempo, in calzini spaiati e maglioni da marinaio, in trappole per lepri spesso vuote e stufati di radici, sempre avvolta nell’abbraccio senza calore della pelliccia di sua nonna nei momenti peggiori, quelli privi di luce o speranza in cui l’alba appariva più lontana che mai e la notte serrava i ranghi oltre il vetro della finestra, nei suoi respiri assiderati.
Ripensare a quello e metterlo a confronto con il presente è impensabile. Il confronto è impensabile. Non può esserci.
Sono due persone differenti quelle che li hanno vissuti, quei lunghi inverni dalla glacialità immobile, inalterata e quieta e quelli che adesso si susseguono come quadri invitanti e brulicanti di sfumature che appartengono ad altre stagioni.
Parigi non conosce mezze misure e in questo, almeno, è uguale alla campagna. Il freddo buca la pelle come acido, corrode le pareti di cartapesta del solaio che è la sua nuova casa.
Casa, rifugio, tana.
Diversi nomi per descrivere un’identica realtà, ma non è similmente sofferto e complicato il processo per dipingere? Di un singolo tramonto lei potrebbe realizzare numerosissime bozze, tentare di forgiare nel grigio lucente del mercurio quelle scaglie di metallo in fiamme che sono i lampioni dei ponti, ricavare nell’ambra la tonalità esatta del sole che smorza il suo lucore annegando nel piombo della Senna, nel turchese e nei lapislazzuli il sopra del cielo che divampa in nero di ossa, nel verde che è quasi più azzurro il cupreo dei tetti a spiovente propri ai quartieri più aristocratici.
Tentare, tentativi, tutto si riduce a quello. La vita, come la pittura, insieme a tutto ciò che è arte, è un’enorme ventaglio di esperimenti, sforzi, manovre e prove. Una lotta continua contro i limiti che ognuno si impone da solo.           
L’appartamento che ha preso è un’unica stanza dalle pareti spoglie da cui le sue tele a metà la squadrano con occhi tutt’altro che benevoli, incentivandola a prendere il pennello per compiere il proprio dovere e ultimarle.
Il suo studio è il letto sfatto, il bagno è in comune con gli altri inquilini, ma ha un lavandino di porcellana sbeccata che scarica acqua stagnante dal tifone e sul cui rubinetto cresce un sottobosco di funghi. Non ha cucina se non un fornello a gas di quelli da bivacco e la versione in miniatura di camino è tristemente lontana da quella mastodontica della cascina della sua adolescenza, che le sbuffava addosso fuliggine e su cui metteva a cuocere zuppe insapori e allungate o appendeva ad asciugare gli stivaletti di cuoio. Questo camino, perennemente spento e con la cappa sigillata, funge da ricovero per i suoi libri malati d’acquosità.
Non c’è spazio per scrivanie o lunghi tavoli o grandi armadi dal fondo immenso. Ce n’è, invece, a malapena, per un tavolino da toeletta, uno specchio ovale, una sedia spaiata e una cassapanca di rovere che custodisce più pennelli e blocchi di fogli arrotolati, trattenuti da lacci di spago, che vestiti.
La pelliccia di sua nonna campeggia sul materasso come una carcassa di animale e presto o tardi potrebbe diventare merce di scambio con la signora Thibault, la padrona di casa, che ad ogni giorno di saldo dell’affitto la valuta con gli stessi occhi di cupidigia con cui ha già accettato in pegno l’orologio da taschino di suo padre e l’anello di fidanzamento di sua madre.  
Memorie d’altri tempi, di giorni che non sono più, a tratti sembrano non esserci mai stati, di fantasmi che sono ai margini del presente e a cui è precluso il domani. Lo stesso, memorie importanti da cui da ragazza le sarebbe sembrato impossibile allontanarsi, figurarsi poi allentarne il legame che li convoglia in linea diretta al suo cuore.
Memorie, però, che non la terrebbero in vita nelle loro custodie di rimpianti e nostalgia, ma che possono farlo nelle tasche di estranei, in cambio di pane e latte e un tetto sopra la testa, per quanto misero possa apparire. Le memorie sono i riflessi di specchio delle persone che si è stati una volta.
Nella battaglia che Molly si appresta ad affrontare tutti i giorni al risveglio, quelle memorie non si fanno più labili o stemperate, colori diluiti nell’olio, semmai le si affollano intorno.
Il passato la tallona, il presente le viene incontro con rabbiosa malevolenza, il futuro le volge le spalle con lugubre trionfo. Il passato solo, figura macilenta e malata di un amore morboso, vorrebbe darle il conforto di menzogne già palesate.
È in quei balenii più che mai, incubi che assumono forme folli da vaneggiamento, che Molly impugna il pennello come fosse un coltello e mormora preghiere per se stessa. Non le rivolge a nessuno, quelle preghiere. Ha smesso di credere alla natura sovrannaturale di divinità la cui indifferenza trova immorale. Preferisce credere in se stessa e nel mondo, anche quando il mondo è tutto fuorché bello o gentile, anche quando lo ritrae con il carbone e ciò che ha in testa non conosce spazio per i colori di cristallo smerigliato delle vetrate di Notre-Dame, per gli arcobaleni dopo la pioggia, per i profumi dei fiori di strada e del pane caldo di forno, per i sentimenti buoni.
Crede nel mondo anche quando il mondo è un abisso che invita al tuffo nel vuoto con toni suadenti e sorrisi da canaglia. Crede nel mondo e in stessa, anche se la fiducia diventa sottile e fragile, l’increspatura di un attimo, come lo strato di pellicola ghiacciata che ricopre l’acqua nel secchio sotto il lavabo.
Lei crede. Crede. Credere la fa andare avanti negli inverni opachi e senza stelle di Parigi, della città che non conosce riposo o sonno, che si addormenta contro il peso morbido dell’amante di turno, nell’effluvio friabile della cipria con cui le dame si imbellettano le guance o quello seducente della colonia con cui i signori si irrorano la mandibola e che permane nei colletti inamidati della camicie per una storia d’avventura lunga un giorno.
Molly crede. Dipinge cieli di zaffiro che non esistono se non nella fantasia, sopravvive alla parte brutta del mondo e a quella ancora più brutta e spenta di se stessa.

 

 

Sherlock non pensa. O meglio, quello che fa è l’equivalente che lui conferisce al termine ‘non pensare’. Il pensiero andrebbe dedicato a cose grandi e importanti e in un posto come quello sono entrambe utopie.
Non pensa, quindi, ma osserva.
Osserva il mondo che lo circonda e che nel presente è costituito da una stanza affollata dai soffitti cascanti e i pavimenti lerci.
Il mondo è ridotto a una sfilza di patetici individui, imbrattatele squattrinati, riuniti in semicerchio nel salone disabitato di un palazzo in rovina, comodi sulle loro seggiole pieghevoli e impettiti nella concentrazione con cui provano a ritrarre la nudità di un uomo, lui, che ora, al centro dell’attenzione e della scena, mostra un lampo rapidissimo di dispetto che per qualche istante scalza il tedio che dall’inizio della sessione gli ha coperto il volto ombroso come la maschera di cera di un attore consumato.
Nessuno sembra notare il cambiamento. Sherlock si chiede se al disgusto dell’intera situazione possa sostituire uno scampolo di rivalsa. Sì, perché no, cercare vendetta al disprezzo del proprio stato inerme e rifarsi sulla massa che lo attornia.
Come? Il come è facile. Muovendo un piede, sgranchendo i muscoli anchilosati delle spalle, serrando un poco la linea della bocca cosicché assuma un’espressività del tutto dissimile dalla precedente. Accorgimenti minuscoli, ma che possono fare tutta la differenza del mondo.

Mondo. Mondo. Il mondo, il suo mondo che ora si riduce a brandelli di luce grandi come coriandoli che si riversano da finestre affacciate su strade livide e un cielo rannuvolato, a pittori spiantati dalle tasche sfondate e che per quanto lo concerne lui più che volentieri getterebbe a mucchi nelle acque gelide e torbide della Senna, tutto il mondo presente per una sigaretta.
Una smorfia gli fregia le labbra a quel pensiero, involontaria. Lui non fa in tempo a ricomporre la piega più leggera del sorriso distratto e vacuo che dovrebbe mantenere che un discreto tossicchiare proveniente dalla zona di fondo, sul lato dell’unica finestra con balcone, lo sorprende, suonando simile a un richiamo per riportarlo all’attenti.

Coincidenze, liquida subito la questione.
Il valzer di altre considerazioni, dopo l’attenzione con cui perlustra nuovamente la stanza per mancanza d’altri passatempi, lo porta a serrare e a flettere le dita della mano destra, tamburellandole contro il piano su cui è steso.
Questa seconda volta a coglierlo in errore è meno un tossicchiare e più un colpo di tosse vero e proprio e il suono sa davvero di rimprovero ed è perciò assai più sgradevole. Di più, è intollerabile.  
Sherlock si mette alla ricerca dell’artefice che lo ha prodotto. Non ci sono segni di interesse o alcunché che attesti un minimo coinvolgimento da parte di nessuno nell’area da cui è sicuro che il rumore sia provenuto. Tutti sembrano troppo distratti dalla loro idea di arte come spassionata resa di ciò che trasportano su tela, ma senza coglierne l’essenza più vera e intima, mere riproduzioni che esibiscono figure ostentate, come immagini di specchio che non hanno anima né messaggi da ispirare in chi le osservi, soltanto riflessioni cave: specchi di specchi.
Sta quasi per arrendersi nella ricerca, sicuro di aver frainteso, di aver sopravvalutato la capacità di intelletto del qualcuno in questione, quando un movimento cattura il suo sguardo, un corrugamento della fronte in un viso tremendamente serio e stranamente intento, vigile perfino.     
Non la nota subito e perché dovrebbe? Lei è una qualsiasi faccia anonima che si perde nella moltitudine di facce dalle fisionomie senza rilievi, i lineamenti poco marcati, piatti o insignificanti. Minuta, scura di capelli e d’occhi, labbra pressoché inesistenti sotto un naso dalla punta leggermente schiacciata verso l’alto e sopracciglia che disegnerebbero un arco fine se fossero spianate, di questo è certo. Una cosetta graziosa, senza dubbio, ma niente che valga la pena di una caccia all’identità di colei a cui la figura e faccia poco importanti appartengono.
Sherlock sposta lo sguardo e lo riporta al punto cieco che osserva da ore, sul soffitto, là dove decadi prima, quando quegli spazi giganteschi e ora privi di qualsiasi orpello opulento appartenevano alla nobiltà francese, un lampadario di cristallo deve aver fatto piovere gocce di cera sulle parrucche e le gonne vaporose, sui corpetti preziosamente intessuti e sulle giubbe di velluto degli ospiti di un ballo elegante.
Non sa perché né cosa lo spinga di preciso a guardarla. O forse sì. È la monotonia, il fastidio dell’inattività, dell’immobilità che lo costringe al centro di quella stanza, come un insetto catturato nella trappola di un bicchiere capovolto.
Si sente in prigione e tra le sbarre di quella che sarà la sua cella per le prossime tre ore ancora, intravede una possibilità, un’alternativa alla noia e quest’alternativa è lei, la ragazza che dà le spalle alla finestra, una tra i pochi che indossa il grembiule di foggia antiquata che si dovrebbe portare per evitare di macchiarsi i vestiti, che nulla ha da spartire col gruppo di scolarette in divisa che ridacchiando stanno sprecando una profusione di carta e imbrattandosi le dita per divertimento e per lo svago di un pomeriggio rubato alle lezioni del Convitto, l’unica che sembra osservare e non semplicemente vedere.
La ragazza incrocia il suo sguardo e per un attimo quello di lei assume una luce inedita di divertimento e poi di rinnovato rimprovero. Senza volerlo, questa volta non realmente perlomeno, Sherlock ha appena mosso il braccio su cui è poggiato, mutando impercettibilmente, ma drasticamente l’intero asse di tensione.
Lui sbuffa piano, seccato dall’imprevisto e lei si acciglia e col pollice gratta via con rabbia qualcosa dalla tela. Lo fissa come se fosse sua la colpa e forse è davvero così. Non che gli importi. Il compenso per prestarsi a modello per quei fanfaroni è a malapena sufficiente a ripagarlo della molestia della loro compagnia forzata.
La ragazza è inaspettata, una distrazione.
L’osservato diventa osservatore e mentre la ragazza lo dipinge su tela con quel suo volto tremendamente serio, lui analizza l’unico artista che forse, in effetti, potrebbe aspirare al titolo.

 

 

Non avrà modo di esaminare i capolavori che le sue sei ore di supplizio hanno contribuito a produrre, tuttavia l’omissione non gli lascerà appiccicata dentro né una scia di curiosità né una scintilla di desiderio.
Esce da dietro il paravento, dopo essersi rivestito in fretta e furia, stringendo in una mano il cappotto e nell’altra la sciarpa e fa per dirigersi meccanicamente alla porta.
Non si era aspettato l’assalto del suo datore di lavoro, ovvero l’eccentrico professore che ha prestato gli spazi e messo a disposizione di allievi sconosciuti consigli, perle di carattere generale sulla resa del colore nelle sue disparità di gradazioni e sulla prospettiva. La ragazza, gli pare di ricordare, è parsa distratta durante la spiegazione, non per scortesia, è portato a ritenere, quanto per motivi puramente pratici. Probabilmente le nozioni che quello snocciolava, lei già le possedeva.
Non per tutti risentire una lezione, per quanto coinvolgente possa essere, esercita il fascino della prima volta che la si è ascoltata. Alla seconda, per alcuni, la cognizione fa subentrare l’istinto nel compiere il procedimento ormai afferrato. Lei sembra appartenere al genere sfortunato di chi è facile preda della noia e la sua non è la memoria dei vecchi che accolgono con gratitudine i racconti del passato. È quella dei giovani che tutto vogliono, che amano il nuovo e lo ricercano all’infinito.
- Venite, monsieur Holmes.
Prevenendo la sua fuga, il professore lo prende amichevolmente per il gomito e lo sospinge verso le prime file di aspiranti artisti, impedendogli di attuarla.
Della folla presente durante la sessione è rimasto un gruppo sparuto, una cerchia ristretta di soggetti. Le loro tavolozze, come deflagrazioni variopinte di uccelli tropicali, le mani sporche di colorante e il modo esperto in cui stringono il pennello, mentre danno i tocchi finali e scorgono dettagli impropri nel frutto del loro lavoro, questo basta a posizionarli una spanna al di sopra del sedicente resto di vanagloriosi che invece sono già scappati via alla fine della seduta di ritrattistica. Non saranno mai artisti affermati, c’è poco da scommettere in contrario, ma rimangono artisti, questo va loro riconosciuto.
Al modo in cui non tutti gli uomini diventano uomini, non tutti gli artisti diventano artisti.
- Non gradite dare un’occhiata? – lo invita il professore con un sorriso affabile e una certa dose di orgoglio ben visibile.
Sherlock lo squadra dall’alto, è più alto di lui di una buona spanna e mezzo e quasi lo sovrasta, ma quello non sembra minimamente badarci. Gli sorride con semplicità, la stessa semplicità con cui l’ha convinto a prestarsi per quel lavoro, quando lo ha trovato a bere assenzio in un café chantant di Pigalle senza avere abbastanza soldi con sé per pagare il conto a suo carico e quando la situazione sembrava sul punto di degenerare in rissa.

Cosa ne pensa, lui? I pensieri sono per cose grandi e importanti, non vanno sprecati per opinioni su opere di dubbia qualità.
L’uomo lo guarda con una sorta di fiduciosa aspettativa e Sherlock stringe i denti. È stato pagato per posare come modello, non per esprimere giudizi. Vorrebbe scattare e manifestare il proprio risentimento, trovare in minima parte sfogo all’irritazione, ma tace. Fa un passo avanti e rivolge un rapido cenno di riconoscimento al primo uomo dietro la tela, il più prossimo per vicinanza. Con occhi insondabili, si china a fissare quello che c’è aldilà del cavalletto. Non è un mondo a parte, non è neppure un mondo diverso. Non è niente, a stento una fedele imitazione del qualcuno che ha finto di essere durante l’intero pomeriggio. Guarda i vari se stesso, sempre più cupo e taciturno, passando da un uomo all’altro, poi verso le poche donne. Sono quattro in tutto e tra questa c’è lei, la ragazza che l’ha colto in fallo.

Quando le arriva di fronte, lei non sembra neppure accorgersene, concentrata com’è a cancellare la sbavatura di una linea poco definita, un tendine che non dovrebbe essere un guizzo debole nella curva del braccio piegato, ma qualcosa di massiccio ed energico.
Le altre trasposizioni di sé avevano un’aria altezzosa, a tratti vaga e imperturbabile, anche imbambolata in un attimo di estatica e rapita meraviglia, questo sé è qualcosa di completamente nuovo. Suo malgrado impressionato, Sherlock trova nel suo volto ritratto avvallamenti e angoli appuntiti e niente, né un sorriso né una sfumatura tenue, che ne ingentilisca l’aria di bufera che porta incisa nei tratti come l’impronta di una maledizione. È il volto scavato di un uomo nauseato e stanco, che ha negli occhi la voglia insana di fuoco, di mettere al rogo e ridurre in cenere il qualcosa che con tale evidenza sembra detestare.
- Mia cara – sente il professore rivolgersi alla ragazza e lei volta il busto di tre quarti e gli nasconde la vista del mostro assetato di distruzione che ha dipinto e che dovrebbe rappresentarlo.
Sherlock però non dimentica, non può. Il modo in cui i suoi stessi occhi lo hanno trapassato da parte a parte, la durezza dell’impatto della furia polare che trasmettevano, l’insofferente avversione di quegli occhi,
i suoi stessi occhi. Ed è stata quella ragazza a dipingerli, quella ragazza.
In quel momento, Sherlock sa di avere nello sguardo lo stesso lampo che lei ha così efficacemente, precisamente ritratto. Non gli importa. A che pro nasconderlo? A che pro nasconder
si? Lei l’ha visto e tanto basta.
- Mia cara, potete spiegarmi il vostro lavoro? È assai differente da qualsiasi altro che oggi abbiamo avuto il piacere di osservare.
La ragazza inclina la testa (se fosse un poeta, Sherlock scriverebbe che il collo di lei è perla scolpita, avorio plasmato su un puntello di ferro), soppesa lui e il professore e per un lungo intervallo non pronuncia alcunché, non si difende. – Ed è un male? – chiede alla fine, con una certa innocenza che nella sua schiettezza è anche spavalderia.
- Certo che no, non necessariamente – la rassicura il professore e si china a studiare con rinnovato impegno la tela, grattandosi la radice del naso, lì dove la molla de
gli occhiali a pince-nez devono stringere spiacevolmente.
Sherlock ha visto a sufficienza. Rivolge un’occhiata sprezzante alla ragazza, che ha già ripreso ad armeggiare con i pennelli, e volta decisamente le spalle alla scena.

Via dalla ragazza, lontano da lei e dal quadro, dagli occhi maledetti che ha ritratto. Occhi tormentati, occhi di un dannato che non conosce riscatto, ma solo una notte perpetua.

Via, sotto cieli che non gli sono mai stati sconosciuti, anche quando erano pieni di segreti.

 

 

La ragazza che svela segreti che non le appartengono. La pittrice che dipinge il vero, che lo rende vero. Ed entrambe osservano, dedite a ciò che fanno. La dedizione è qualcosa che Sherlock può comprendere, anche arrivare ad ammirare. L’abnegazione assorta nel fare quanto si ama, il mestiere di essere liberamente chi si vuole e che solo pochi, quelli con un intelletto flessibile e una volontà abbastanza forte da non lasciarsi abbindolare dalle lusinghe di soldi e gloria, riescono a cucirsi addosso come una seconda pelle, l’ombra di un vestito che una volta indossato è per sempre.
Nasciamo nel dolore e con dolore ci destiniamo a noi stessi. A volte ci smarriamo per strada, perdiamo di vista chi siamo, ci confondiamo tra ciò che vorremmo e potremmo e dovremmo essere, dimentichiamo chi siamo stati o già siamo. Il cambiamento è una scelta, ogni cosa lo è.
Anche in questo caso si tratta di una scelta e la moneta, dopo essere stata lanciata, pende da entrambe le parti, senza decidersi a cadere su un lato e decretare la vittoria di uno e il fallimento dell’altro.
L’osservato, che ha dimostrato la sua doppia natura nell’identificarsi anche come osservatore, è uscito in fretta e furia dalla stanza in cui è stato un quadro vivente, oltre che un manichino. In quella stanza ha scoperto una verità scomoda. Ha scoperto che la noia che prova non è poi distaccata come sperava. La smania di sangue e fuoco che gli scorre nelle vene sotto forma di adrenalina, che è un nervo scoperto, non è più un segreto che appartiene a lui soltanto e questo perché lei, quella ragazza dal volto qualunque e il collo di cigno, glielo ha rubato. Ha fatto di peggio. Ha gettato in pasto al mondo il suo segreto. Chiunque abbia occhi per osservare, ora saprà, vedrà.

Oh
. L’illuminazione è come uno strappo. Che sciocco è stato. Occhi per osservare. Nessuno ha occhi simili. Fa parte del gioco, è il motivo della sua voglia di fare tutto a pezzi, che lo spinge a giocare al rimpiattino con quel mondo ogni giorno più scontato, claustrofobico, banale fino ad essere imbarazzante. Come ha fatto a non pensarci? Lui è al sicuro. Paradossalmente, nel mondo che odia perché non ha più segreti per lui che valga la pena di scoprire, il suo segreto è al sicuro. Solo lei, lei sola lo possiede. Lei che, a differenza del resto, possiede gli occhi giusti, gli occhi che osservano, catturano la verità del tempo. Lei sola conosce il suo segreto, così facendo conosce lui.
Ciò non toglie che voglia protezione, una sorta di garanzia che lo tuteli. Un modo c’è, deve esserci. La soluzione in effetti è di una semplicità che disarma. Basta che la pittrice gli renda il quadro incriminante e il problema sarà risolto, l’inquietudine smantellata via dal suo animo. Sherlock aspira un’ultima volta la sigaretta e poi la pesta sotto la suola della scarpa con ferocia.
Lei è appena uscita dal portone strombato, sotto braccio reca la tela enorme, incartata alla meglio con carta marrone da pacchi e cordicelle di spago.
Non sapendo cos’altro fare, Sherlock la segue.

 

 

Molly si ferma. Tranne alcuni signori attempati che sfamano i piccioni, assiepati intorno alla fontana, Place des Vosges è deserta, col crepuscolo che scolora sui tetti blu ardesia dei caseggiati e preme alle mura della città, pronto ad entrare senza bussare o attendere che qualcuno faccia gli onori di casa.
La neve sotto i suoi passi cricchia come ghiaia e allo stesso modo lo fa sotto quelli di lui che la tallona.
Molly non crede che lo stia facendo con cattive intenzioni. Se così fosse, sarebbe un pessimo inseguitore. Ma non sa perché lo stia facendo e la cosa la impensierisce, anche se non nella misura in cui dovrebbe. Impensierita, non spaventata. No, Molly non ha paura. Che cosa dovrebbe temere? Lui è come l’uomo nero delle storie. È scuro in volto, neri i capelli che sono una criniera indisciplinata e neri il lungo cappotto, i guanti di pelle che indossa. Macchie di colore in quel mare nero inchiostro sono la bella sciarpa di seta blu e gli occhi, di un colore indefinito tra il verde e l’azzurro, simile al verderame dei tetti della Parigi che ama.
Restia a trovar rifugio nell’abbraccio sicuro, ma gelido del proprio appartamento, Molly si volta con determinazione e cammina a passo svelto nella direzione opposta a quella che stava percorrendo, verso di lui. Non sa come si chiami, sa solo che c’è qualcosa di selvaggio e indisciplinato in lui, che deve essere un contestatore per natura e che questo le piace e molto. A pelle, senza che abbia aperto bocca, lui le piace già più di quanto sia lecito o di quanto lei apprezzi.

Infatuazioni degli occhi
, le chiama tra sé. Non le capita spesso, ma non è la prima volta. Di solito si tratta di entusiasmi brevi, non duraturi, lampi di ispirazione di cui si serve per dipingere, che sfrutta a proprio vantaggio. Questa volta, presagisce, arrivandogli di fronte e fermandosi di colpo, non sarà quello il caso.
- Vi ho notato, sapete – esordisce con una nota di durezza che per lei è rara. – Che mi fissavate, durante la sessione.
Il che è un modo abbastanza brusco per iniziare una conversazione o cominciare a conoscere qualcuno, ma a lui non sembra importare. Un angolo di bocca gli si solleva ed è un sorriso recalcitrante quello che le concede, quasi un premio per la sua impertinenza.
– Uno studio reciproco – dice e la sua voce ha un pizzico di divertita provocazione, l’invito a una sfida al confronto.
- Io l’ho fatto perché
dovevo. 
- Anche io. Mi annoiavo terribilmente.
Qualcosa nel suo tono sembra sottintendere che lei sappia di cosa parli. Molly non è sicura di sapere a cosa si riferisca. Lo diventa nel momento in cui coglie lo sguardo di lui che, di sottecchi, osserva il quadro che ha sottobraccio.
- È per questo che mi avete seguita? – domanda a bruciapelo.
Lui esita visibilmente prima di affermare in modo asciutto: - Non gradisco l’idea che qualcosa di mio possa andarsene in giro per proprio conto.
Molly si morde le labbra. Una parte di lei propenderebbe per offrirgli il quadro su due piedi, talmente è lampante ormai che sia quello il motivo per cui l’ha seguita. In fondo l’idea che il suo dipinto l’abbia colpito a tal punto da costringerlo a pedinarla la diverte. D’altro canto a quel quadro già tiene. Se ne rende conto adesso che sta prendendo seriamente in considerazione l’eventualità di disfarsene. Lo farebbe a malincuore, ammette a se stessa. Non perché sia uno dei suoi quadri migliori, tecnicamente parlando, né perché sia particolarmente riuscito o ben realizzato, ma c’è qualcosa, nel risultato finale, che le è sembrato di buon auspicio, che l’ha soddisfatta.
– Andrete a reclamare come vostri anche i quadri di tutti gli altri?
È una richiesta legittima la sua, lui stesso deve riconoscerlo e il modo in cui serra la mandibola ne è un attestato.
- No.
Molly lo fissa in faccia, quella stessa faccia che dopo ore di studio sa che riuscirebbe a dipingere ad occhi chiusi, appellandosi alla memoria, senza remore o timidezza. – Dunque è solo il mio che volete.
Un cenno di assenso, insieme a una bassa imprecazione, è quanto ottiene da lui in risposta.
Lo fissa a lungo, stabilendo il da farsi, anche se in fondo ha già preso la sua decisione. – D’accordo, ve lo darò.
Lui sgrana gli occhi ed è così ridicolo a vedersi che Molly riesce a stento a trattenersi dal ridere. È ovvio che non se lo aspettasse. C’è da chiedersi cosa si aspettasse, di preciso, come pensasse di agire. Temeva di essere costretto a sfilarle il quadro da sotto il braccio, rubarglielo e scappare via come un ladro?
Ladro di quadri. In questo caso, ladro di specchi. L’idea è assurda e la fa ridere di cuore.
Gli occhi di lui la osservano ridere, confusi nella loro incomprensione di quanto sta accadendo.
- Ve lo consegnerò, ma a una condizione.
- Sono disposto a pagarvi.
- Non voglio denaro – nega Molly con fermezza. – Solo questa promessa: che voi non distruggiate il quadro e che mi permettiate, qualora ne avessi voglia, di vederlo.
Le sopracciglia di lui sono così aggrottate che le sembra di avere davanti il suo quadro. – Queste sono due condizioni.
- Avete ragione – commenta Molly, mitemente. – Accettate?
Lui sospira. – Accetto.
- Bene. Come intendete siglare la trattativa? Col sangue? Facciamo all’irlandese? Uno sputo e una stretta di mano?
Non è seria, naturalmente. Intende solo punzecchiarlo un po’. Con quella sua altezza torreggiante che lo fa svettare sopra di lei, l’aria impenetrabile di boria e le scure sopracciglia che quasi mai si distendono, assomiglia al personaggio di una favola dei fratelli Grimm, il Cacciatore Infaticabile che mai conosce riposo perché deve dare la caccia al Lupo Cattivo o il Gemello d’Ombra di un principe maledetto da una Strega. Naturalmente lui non sta al gioco, ma neppure sembra prenderla sul personale.
– Non sono irlandese – replica, flemmatico – e dubito che voi lo siate. Non ne avete l’accento.
- Vero – concede Molly con un sorriso che non riesce a scucirsi dalle labbra, per quanto ci provi. È ancora inverno, ma quell’uomo in nero sembra averle portato un brivido che le ricorda l’autunno, con il sidro di mele e le castagne cotte. – Allora facciamo così.
Prima che lui possa prevederlo, dandosi da sola della pazza, Molly segue l’impulso del momento. Si solleva sulle punte e afferrandolo per il bavero del cappotto lo tira a sé, verso il basso. Le sue labbra trovano quelle di lui ed è un bacio casto quello che segue, entrambi hanno gli occhi spalancati (in quelli di lui la sorpresa rincorre sprazzi di un’emozione che pare agitazione e insieme smarrimento), in petto il cuore le batte come un tamburo. È un bacio che funge da sigillo alla promessa che si sono scambiati.
- Affare fatto – gli soffia sulle labbra che sono screpolate quasi quanto le sue e gli porge il quadro, scansandosi. Senza aspettare un secondo di più, si gira e inizia a incamminarsi verso casa, il tepore del bacio rubato che le scotta sulle labbra e assomiglia all’improvviso bruciore provocato da una bevanda calda assaporata troppo in fretta.
- Sherlock – lo sente dire quando è abbastanza lontana da correre il rischio di scambiare la voce di lui per il richiamo del vento.
Si volta e lui è lì dove lo ha lasciato, nell’identica posizione, ma con un’espressione solenne, a tratti formale, che ha sradicato quella di strabiliato stupore del dopo bacio e non ha nulla a che vedere con la riservata compostezza che ha mantenuto durante l’intera conversazione.
Mette le mani a coppa ai lati della bocca ed esclama di rimando: - Molly!
Lo vede assentire prima che si volti e lo segue finché può, finché lui,
Sherlock, non scompare nell’orizzonte che ora è una linea nera e sfocata dalla nebbia.

 

 

II. (1891-92)

 

Quell’inverno non è da annoverarsi tra i più miti, inoltre appare interminabile.
Nelle giornate che lo compongono, che si accorciano come una veste lisa per i troppi anni di utilizzo, non è il riverbero dell’aurora a svegliarla ogni mattina, ma la tenebra fluida e compatta che la precede, che le si stringe sopra come un sudario.
Ed è nelle nebbie che serpeggiano inesorabilmente per i vicoli di Parigi, nella fragranza appetibile delle
baguette dei panifici (le saracinesche ancora abbassate come ghigliottine sulle entrate, quando lei vi passa davanti) che le fa svaporare il freddo pungente dalla mente; è nelle aurore che avanzano con placida calma, per strade conosciute palmo a palmo, familiari come il cortile di una casa che non ha mai avuto da bambina o che non ricorda più; è quando Molly è già per le vie della città da così tanto da avere l’impressione di aver dormito all’addiaccio; è allora che l’alba la coglie, pronta alla sua postazione, attrezzata, i pennelli pronti e la distesa di Parigi che si dischiude come la corolla di un enorme fiore alla vigilia del nuovo giorno, impigrita e neanche lontanamente saziata dalle lunghe ore notturne.
Si prospetta un inverno pesante, quello e la fatica inizia a farsi sentire ben prima di Natale.
Natale è qualcosa di triste, nonostante i riverberi da festa ininterrotta che abbelliscono i
boulevard e i quartieri raffinati o le graziose chincaglierie che nelle stradine meno panoramiche comunque fanno il loro avvento nelle vetrine, ornate per l’occasione con ghirlande e nastri. La neve si tinge di petali fuori stagione ed è impregnata dell’aroma di caramello e canditi, della cioccolata calda che viene venduta all’ingrosso nei chioschi ambulanti.
Natale è sempre triste, lo è dai suoi sedici anni, dall’addio alla sua prima casa. Natale serve a ricordarle la sua solitudine.
Il gioco delle smorfie allo specchio non serve più, non basta a contenere lo sfacelo.
Lo specchio non mente, è come i ricordi: perseguita. Non mente quando le mostra occhi sanguigni per i troppi capillari rotti dall’insonnia, un colorito esangue e occhiaie che disegnano strisce violacee di confinamento attorno alle palpebre. L’interno del pollice ha una vescica che è scoppiata, non ha ancora fatto in tempo a rimarginarsi e sulle altre dita l’acqua freddissima del rubinetto le ha procurato screpolature che si sono spaccate in tagli, non troppo profondi, ma che quando muove le mani suonano una cacofonia di fitte dolorose. Inoltre, da un paio di giorni, una tosse acuta le perfora la schiena, la squassa come se un’accetta la stesse spaccando dall’interno.
Pensando alla tosse, l’istinto di tossire è quasi incontenibile, occupa lo spazio destinato a qualsiasi altro pensiero. Si vieta di assecondare l’impulso. Si porta invece una mano alla bocca, la copre col dorso e aspira l’aria profondamente, a boccate, come un annegato che riesca a sfuggire al risucchio del mare grosso. 
Tutto quello che Molly desidererebbe è rintanarsi nel letto. Gli occhi le bruciano e sente la pelle scottare sotto le dita. Il pagamento dell’affitto, tuttavia, è prossimo, insieme al Natale. A Natale nessuno presta attenzione a un’artista di strada e ai suoi dipinti. I passanti si rivolgono alle vetrine che luccicano per le ghiottonerie che contengono, sono come girasoli che cercano nella luna d’inverno la luce del sole d’agosto e si accontentano.
Tornare a letto e restarci. Abbandonarsi all’oblio di un sonno che non sarà senza sogni e probabilmente non la ristorerà, ma la rimetterà in forze. Se lo fa, dovrà dare in pegno alla padrona di casa la pelliccia di sua nonna. Dovrà dire addio a un altro pezzo del passato, svenderlo perché non è capace di provvedere a se stessa.
Tremando malamente nel maglione da marinaio, Molly fa la sua scelta.
Le scelte, si sa, sono sempre i primi passi che conducono al cambiamento.

 

 

Il cavalletto non è mai stato leggero, ma neppure tanto pesante e la strada verso La Butte, la collina che si affaccia sugli arrondissements che predilige, le risulta impraticabile.
Nella neve che le cade sulle spalle, sulla testa china come cenere, avanza lentamente, testarda.

La pelliccia di sua nonna
, è la riflessione che si rincorre negli anfratti cavernosi della mente e ne sparge l’eco in un accento di inesorabile risoluzione.
Questa è l’ostinazione degli sciocchi, la avvertirebbe sua nonna.
Nonna. Mani ossute in cui la fede nuziale oscillava visibilmente senza riuscire più a far presa sulla carne. Occhi di un azzurro acquoso, ma limpido, pulito. Alla fine, no, Molly preferisce non pensarci.

Non rimuginare sulle cose vecchie, Molly tesoro, guarda a quelle che ancora ti aspettano e sono davanti a te.
Fiocchi di neve le si posano sulle guance, sul naso, sulla fronte come lacrime ghiacciate. Molly serra la presa intirizzita sull’attrezzatura mentre tutto si fa nebuloso, i contorni degli edifici, dei balconcini, delle persiane diventano imprecisi e l’acciottolato del marciapiede irrompe bruscamente nel suo campo visivo, surclassando il resto.
L’ultimo barlume di coscienza è occupato dall’angoscia, dal ronzio di un intero alveare nelle orecchie, poi il buio le schiaccia le palpebre. Nessuno chiama aiuto e il silenzio aldilà del ronzio è suo unico compagno insieme all’ululato del vento.

 

 

La prima volta che si sveglia è perché qualcuno sta cercando di farle bere un intruglio amaro. Le va di traverso e Molly è scossa dagli spasmi della tosse. Mani rugose e ferme la bloccano allora per le spalle, cotone ruvido di lenzuola sfrega contro le sue gambe nude mentre un’altra persona le tiene fermo il braccio e l’ago di una siringa si fa strada nella carne, in una vena. La resa è coercizione.
Il secondo risveglio è come la scalinata che percorre per recarsi alla sua postazione preferita, più impervia che mai. Infiacchita nei movimenti, sentendosi una tartaruga o un castoro dopo il letargo, Molly spazia con gli occhi socchiusi per la troppa luminosità, divora fin dove le è possibile i particolari dell’enorme locale in cui si trova e che le è del tutto estraneo.
Ci sono letti ai lati del suo e una lunga fila gemella di letti da campo le è dinanzi. Ampissime finestre a riquadri si aprono in alti soffitti a volta color ocra, sverniciati e con pezzi di intonaco che sembrano sospesi nel nulla. Malgrado lo stato di deterioramento e lieve incuria che dilaga, l’ambiente sembra pronto a raccontare storie antiche, intenzionato a seguire il corso degli eventi secolo dopo secolo e a non lasciarsi abbattere dal tempo o dalla volubilità dell’uomo, ora alleato ora nemico.
Molly prova un’immediata affinità con il luogo e cerca di non badare all’esalazione di medicinali e secrezioni umorali che respira, ai catini sporchi di sangue, alle bende giallastre per le infezioni, alle urla che di quando in quando squarciano il velo di calma, ai medici che si fanno largo nell’affaccendarsi delle suore-infermiere. Si concentra invece sul profumo affusolato che proviene dalle finestre aperte, probabilmente dal giardino che si affaccia su un cortile interno: terra bagnata e pioggia e orti.
L’ospedale ospita altri malati, alcuni sono poveri disgraziati dalle barbe incolte e dalle espressioni stralunate, che salmodiano suppliche e questuano oboli in un mantra ininterrotto, battendo i pochi denti che possiedono. Nel letto dirimpetto al suo c’è una giovane donna dai capelli folti e morbidi in avanzato stato di gravidanza, con lo sguardo perso nel vuoto. Non porta anelli e la disapprovazione delle suore-infermiere più anziane le sarà valsa l’imperitura amicizia delle più giovani, per motivi di solidarietà, forse perché anche loro sottoposte in passato allo stesso trattamento di censura e critica. 
C’è un uomo con una gamba steccata, a cui un dottore sta parlando con tono di voce amichevole e straordinariamente pacato. È di spalle e Molly ne considera distrattamente il profilo corpulento. Si sofferma piuttosto sull’aura di bonarietà che emana e la competenza che dimostra mentre lo segue nel suo giro di visite, prima che arrivi il suo turno e che si fermi di fianco al suo letto.
- Oh, siamo svegli! – esclama il dottore con un’allegria che non suona affatto forzata. – Bene, più che bene. Ci avete fatto molto preoccupare,
chère Mademoiselle. C’è stato un momento, la scorsa notte, in cui abbiamo seriamente temuto di perdervi, ma è tutto passato ora. State meglio, vedo. O quantomeno lo è il vostro colorito. Negli ultimi tempi non avete trattato con la dovuta cortesia il vostro fisico, vero?
All’accusa implicita Molly si sente arrossire, ma è la vergogna di un secondo. Le priorità sono i conti da saldare e ora quelle priorità sono retrocesse di fronte a una nuova fiammante.
– Il mio lavoro non me lo ha permesso – ribatte, cincischiando le sillabe come ha sentito fare alle prostitute dei bordelli. Si accorge all’istante di aver commesso un passo falso. Avrebbe dovuto accompagnare la dichiarazione con un’occhiata sfacciata, invece l’abitudine e la stanchezza l’hanno condotta per un diverso sentiero: tono dimesso e sguardo rivolto in basso. Non il modus operandi di una donna di strada, poco ma sicuro.
L’occhiata di cauta diffidenza del dottore le conferma che la tattica non abbia funzionato e che sia ben lontana dal convincerlo del contrario.
- Sarete lieta di sapere che la vostra attrezzatura è in custodia presso la guardiola nell’atrio.
Molly non batte ciglio, non conferma né fornisce indizi che servano a reclamarne il possesso e l’uomo sospira, divertito e per buona parte rassegnato di fronte alla lotta che lo attende. Prende la sedia e se la porta vicina, poi si accomoda, si gratta un sopracciglio e intreccia le mani sopra le ginocchia, scrutandola apertamente, ma senza la minima traccia di ostilità o antipatia. – Siete un tipo deciso, Demoiselle …? 
Molly non intende rivelarglielo. È al corrente di come funzionino gli ospedali e non ha abbastanza soldi per permettersi il trattamento di riguardo che fino a quel momento solo l’anonimato le ha concesso in grazia. Una donna mezza morta trovata in un vicolo di Parigi al sorgere dell’alba. No, non ha intenzione di sviare i sospetti che devono averla accompagnata fin lì, scorta ambigua e indesiderata, ma che ora hanno il suo benestare.
- Immagino che possiate comprendere per quale motivo mi occorre la conferma del vostro nome e che su questa base giustifichiate l’insistenza con cui sono costretto a chiedervelo. Sono informazioni strettamente necessarie per la compilazione della vostra anamnesi e di conseguenza anche di grande rilevanza per la scelta dei farmaci che dovrò prescrivervi. Potete almeno rispondere ad interrogativi basilari? Età, dipendenze, malattie ereditarie in seno alla famiglia di origine? Devo avvertirvi che in base a quanto ho potuto osservare siete al primo stadio di malnutrizione, pertanto vi consiglio di variegare la vostra alimentazione. Posso procedere con le mie domande?
Di fronte al suo silenzio prolungato, il dottore afferra finalmente il concetto, tuttavia non sopraggiunge acrimonia.
Molly si accorge che dietro le lenti ovali degli occhiali da vista c’è un paio di occhi gentili, di una calda tonalità di grigiazzurro e che, se anche assomiglia a una smorfia affaticata in quel momento, il suo sorriso è quello delle persone che non si arrendono, che sono abituate a cercare i lati buoni di ogni situazione.
Si chiede cosa veda in lei, se ci siano ancora lati buoni su cui gli occhi di questo dottore sconosciuto, di quest’uomo perbene possano far presa. Sorprendendo il dottore, ma per prima se stessa, Molly risponde: - Può.
- Quanti anni avete,
Mademoiselle?
- Ventitré.
Il dottore si avvia a trascrivere tutto su un taccuino che aveva nella tasca del camice, ma già distoglie lo sguardo dagli appunti e le rivolge una breve occhiata stupita. Sì, Molly conosce la solfa su quanto sembri più giovane. La statura, il fisico acerbo e il viso da ragazzina non l’aiutano esattamente nel ruolo di
femme fatale.
Se anche la sua faccia manifesta palesemente dubbi al riguardo, il medico non esprime a voce la sua perplessità e procede come se nulla fosse.
– Domicilio in città?
Molly tentenna sulla risposta da offrirgli.
Intuendone la ragione, il medico le sorride con fare bonario. – Non intendo sapere dove abbiate residenza, ma solo se questa si trovi in città.
Lei si rilassa. – Fino ai sedici anni in campagna, dai diciassette qui a Parigi.
- Stato di famiglia?
- Nubile.
- Avete parenti prossimi?
- Nessuno. Mia madre è morta per complicazioni durante il parto, mio padre di tifo quando avevo nove anni, mia nonna li ha seguiti quando ne avevo quattordici.
- Quattordici – ripete atono il dottore. – Chi si è preso cura di voi nei successivi tre anni?
Le labbra di Molly si piegano in sorriso storto. – Non vedo come questo possa ritornarvi utile ai fini della mia anamnesi.

-
Chiamatelo difetto del mestiere.
- La curiosità è donna o così dicono.
- Dicono anche che spalanchi le porte dell’inferno, che uccida felini incolpevoli e che sia sintomo di squilibrio mentale. L’ultima volta che ho avuto modo di accertarmene non ero un gatto, non ero pazzo e mi è stato assicurato di avere ancora molti anni a venire prima che quelle porte si aprano per me, perciò indulgete nel mio desiderio di essere indiscreto.
Il dottore le strizza l'occhio e la presa con cui Molly stava stritolando le coperte si allenta di colpo e un insospettabile risata le si fa largo in gola. Suona esageratamente rumorosa e squillante, ma anche ansimante, come il verso di un animale braccato troppo impegnato nella fuga per riprendere fiato. Alla fine è con un rantolo e il bicchiere d’acqua che il dottore le porge con sollecitudine insieme a un acciglio preoccupato che Molly sprofonda nei cuscini, svuotata e senza energie.
Soltanto quando si è accertato che la crisi sia davvero superata, il dottore le rivolge un sorriso che cerca d’essere sagace. – Era una battuta, ma neppure particolarmente buona, sapete. Per il futuro dovrò ricordarmi di contenere al minimo la mia verve in vostra presenza. Vi ho curata dalla polmonite, ma dubito che sia stato scoperto un farmaco che curi i danni di un pessimo umorismo. Ora riposate.
Il dottore le dà un buffetto paterno sulla spalla e l’associazione è completa, ogni tessera ha trovato il suo posto, ricomponendo il disegno finale. Ora Molly sa perché, non appena l’ha visto, ha provato quel prepotente istinto di autoconservazione. Sa chi le ricorda e la somiglianza è meno astratta che mai.
- Magdalen Hooper – dichiara d’impulso. – È il mio nome. Molly, per gli amici.
È evidente che il dottore non capisca. Molly non lo biasima, fino a un attimo prima neppure lei c’è riuscita.
- Mi ricordate mio padre – rivela. – Anche lui era un dottore e l’ho visto fare per anni proprio quello che voi vi apprestavate a fare. Sono nata in un ospedale e ci ho trascorso tutta la mia infanzia, conosco le dinamiche interne del sistema sanitario e so perché era vostro dovere insistere sul mio nome. Vi serviva per l’anamnesi, ma conosco la procedura e so che, in caso di pazienti non identificati, il Sistema Statale detrae le spese delle loro cure mediche dal salario del medico che li ha avuti in cura. – Molly si puntella sul gomito per stare più dritta, non sa se è la febbre a parlare o ciò che ne rimane. Sorride con tristezza. - Ma voi siete come mio padre. Non mi avreste mai costretto a rivelarvelo perché sapete che probabilmente non posso permettermi le spese di un ricovero prolungato.
Lui la valuta con una strana fissità negli occhi che le risulta impossibile da decifrare. - Mike Stamford – dice, alla fine.
- Come, prego?
Il dottore si stringe nelle spalle con naturalezza. - È come mi chiamo. E sappiate che non vi credo,
Mademoiselle.
Molly sta per rispondergli per le rime, ma lui la tacita con una mano sollevata e uno sguardo significativo. Il messaggio è chiaro.
Fidatevi. Lasciatemi fare.
- Non credo che siate chi dite di essere. Non intendo perciò macchiarmi di spergiuro, scrivendo il falso nelle mie cartelle cliniche.
Il dottor Stamford le fa un cenno d'intesa prima di passare oltre, dedicarsi al prossimo malato.
Molly si stende su un fianco, assimilando la portata di quanto è appena successo e nasconde sotto il lenzuolo il groppo commosso che ha in gola, gli occhi che sono lucidi, ma non di febbre.

 

 

Nelle settimane che seguono, tra lei e il dottor Stamford si instaura un rapporto di reciproca stima che potrebbe gettare le basi per un’amicizia di lunga data.
Molly lo ammira, non perché le rammenta suo padre. È un uomo intelligente e intuitivo, ma anche estremamente ironico e quando sorride le fa venire in mente un pupazzo di neve.
Ogni sera o durante la pausa pranzo, il dottor Stamford viene a sedersi accanto al suo letto e le porta una copia del quotidiano
Le Figaro e ritagli di altri giornali con racconti d’appendice con cui riempire il tempo senza che l’ozio prenda il sopravvento.
Molly gli è grata, cerca di ricambiare come può. Il dottore schernisce i suoi continui ringraziamenti, le sue parole di lode sembrano imbarazzarlo al punto da convincerla a smettere di rivolgergliele.
Fa amicizia con una delle infermiere anziane, Suor
Gervaise e con la donna dai bei capelli di grano dorato. Si chiama Jill (all’anagrafe Jillian Fulbert) e dall’oggi al domani partorirà il bambino che l’ostetrica, dopo averle tastato l’addome per quelle che sono parse ore, dà per scontato che sarà un maschietto. Si sono scambiate le loro storie come fossero carte da gioco, senza indulgere più del necessario in dettagli spiacevoli o descrizioni accurate. Entrambe sanno che i muri hanno occhi e orecchie e che ogni verità potrebbe venir loro ritorta.
Jill è una ragazza madre, rea dell’aver amato l’uomo sbagliato e di essersi lasciata accecare da quei sentimenti, ma che, quando l’abbaglio è svanito, ha avuto abbastanza prontezza di spirito e buonsenso da fare fagotto e allontanarsene. Molly non gliene fa una colpa. L’amore è una bestiolina che nessuna moina riesce ad addomesticare e che può rivolgerti gli artigli adesso come mai.   
Si sta rigirando i pollici, le dita che le prudono per la voglia che ha di ritrarre il sogno che l’ha accompagnata tutta la notte senza darle tregua.
Un vestito fatto di fiori. Il mostro dietro l’uomo. Una landa di nebbia spazzata via in un istante da un’esplosione di fuoco blu e viola.
Da lontano vede arrivare Suor Gervaise con una pila di lenzuola fresche di bucato e si appresta al solito scambio che inaugura ogni nuovo giorno.
Suor Gervaise è una donna robusta sulla sessantina, senza peli sulla lingua e con impetuoso sangue scozzese che le scorre nelle vene. Non si trattiene nella stessa ala dell’ospedale per più di mezz’ora e non sembra conoscere pace. È perennemente in movimento e niente, tranne la messa della Domenica e la confessione del sabato pomeriggio, riesce a trattenerla con i piedi ancorati al suolo. Si vocifera che anche di notte la si veda darsi da fare, sonnambula, a sistemare scaffali e armadietti. 

-
Bonjour, ma petite fille. Comment ça va?
- Bien, merci.

Molly si tira a sedere e lascia che Suor Gervaise la aiuti ad occupare la sedia mentre lei procede con il cambio di lenzuola. Una volta finito, la assiste mentre si infila nuovamente sotto le coperte.
-
Hai la faccia di qualcuno che non ha chiuso occhio -  commenta, mentre le passa la spazzola e lo specchio perché si dia una sistemata.
Osservando il proprio riflesso, Molly non può non darle ragione.

-
Si è lamentata tutta la notte – si intromette Jill, che sta disfacendo con dita abili la treccia serale. – Ad un certo punto si dimenava così tanto che ho temuto sarebbe ruzzolata giù dal letto!
Suor Gervaise le toglie la spazzola di mano e con pochi colpi decisi sgroviglia il nido di rondine che ha in testa. – Se hai problemi a dormire, puoi sempre chiedere al dottor Stamford di darti qualcosa contro l’insonnia.
Molly si morde l’interno delle guance, prima di rispondere. – Non soffro di insonnia e non ricordo di essermi agitata. Ho avuto un incubo, ma nulla per cui valga la pena preoccuparsi.
Il contatto della mano di Suor Gervaise sulla guancia è lieve, come la carezza a sorpresa di un raggio di sole. – Forse. Ma i tuoi occhi dicono una storia diversa. Quando ti andrà di raccontarmela, sai dove trovarmi.
Molly lascia che le passi il vassoio con la colazione, poi prende le sue medicine. Il formicolio alle mani è tornato, è come la sete quando sai che non puoi avere acqua. Le sue dita fremono per il desiderio di ricoprirsi delle macchie di colore dei pigmenti di vernice e la vescica sul pollice è svanita, ricoperta da tessuto cicatriziale che è di un rosa appena più chiaro rispetto alla carnagione circostante. Per un artista, creare è un’impellenza fisica, come respirare o mangiare o sognare. Lei non si esime.
La mattinata trascorre lenta e trafficata nel viavai del personale dell’ospedale. A quante pare dilaga un’epidemia che ha come sintomi di riconoscimento i deliri della febbre e brividi di freddo e che consuma in un paio di giorni coloro che se ne ammalano.
Molly impiega le ore prima del pranzo ad osservare i lavori all’uncinetto di Jill, che sta cucendo il corredo per il bambino. Sono arredi e biancheria di seconda mano, arrivati tramite Suor Gervaise direttamente dalle donazioni fatte all’Ospedale e da destinare alle opere di carità che le suore amministrano, ma Jill li tratta come se non fossero indumenti di lana grezza e mussolina, ma di batista. Ogni punto è una pennellata d’amore, di orgoglio materno.
Sapendo dell’epidemia, non si aspettava che il dottor Stamford passasse a trovarla perciò, quando lo vede impegnato per il solito giro pomeridiano tra i pazienti, Molly se ne rallegra.
Il dottor Stamford le fa cenno di star buona e non sforzarsi. – Sono di passaggio – le spiega, rivolgendo un’occhiata rapida alle sue spalle, quasi si aspetti da un momento all’altro che qualcuno gli corra incontro per richiamarlo in sala operatoria. - Mi è stato riferito che avete avuto problemi, questa notte.
Molly si trattiene dall’imprecare coloritamente e lancia uno sguardo di fuoco a Jill. Ecco, questo è esattamente cosa voleva cercare di evitare. Per nulla turbata, Jill intasca l’occhiata come un bacio volante e gliene scocca uno vero in punta di dita.
L’irritazione di Molly si disperde in un sospiro. – Così è stato riferito anche a me.
Il dottore si avvicina e si china per tastarle la gola. – Fatemi controllare. Aprite la bocca e tirate fuori la lingua.
Molly esegue docilmente.
- No, le tonsille non sono ingrossate e non avete le pupille dilatate, né vi trovo accaldata. Non ci sono ragioni che facciano temere una ricaduta. Volete che vi prescriva un sonnifero per questa notte?
- Non credo che sarà necessario.
- Se lo diventasse, non esitate a comunicarlo a Suor Gervaise. Me lo farà sapere. C’è qualcosa in particolare che vi ha tenuta sveglia, ad ogni modo? Un malessere alle ossa o difficoltà respiratorie?
- Un brutto sogno, tutto qui. Mi dispiace avervi scomodato per una sciocchezza del genere.
- Non mi sembrate il tipo di persona che si lascia scoraggiare da un sogno. Deve essere stato uno particolarmente brutto.
- Non brutto. Solo… strano.
- Capisco. Posso fare qualcos’altro?
Molly esita. Il dannato prurito non è diminuito. – Il primo giorno, avevate accennato alla mia… a dell’attrezzatura, custodita nella guardiola. Sarebbe possibile farmela pervenire?
- Soltanto se promettete di non sforzarvi e di farmi un bel ritratto, ma non uno che mi somigli troppo. Potete farmi passare per l’aitante sbarbatello che sono stato o la ritenete un’impresa troppo ardua?
Con un sorriso Molly gli assicura che non lo sarà.

 

 

Tre giorni dopo, Suor Gervaise minaccia di portarle via i colori se non si decide a riposare.
Le sue notti ormai sono diventate un exploit di immagini impossibili, alcune incantevoli e altre crudeli, ma che hanno tutte una loro vividezza, una che rende sbiadita la realtà al momento del risveglio.
Se le settimane di riposo forzato le avevano restituito un aspetto più sano e colorito, bastano poche altre notti perché le sue guance si scavino e le occhiaie ricompaiano.
Suor Gervaise non mantiene le sue minacce, ma il sesto giorno, dopo giornate in cui le è stato riferito che sia stato impegnato giorno e notte al pronto soccorso e a litigare con l’amministrazione per far accogliere altri malati, allestendo allo scopo anche la sala dottori, quella delle conferenze e la biblioteca universitaria, ecco che il dottor Stamford fa il suo ingresso. Il suo passo è affaticato, ha le spalle curve per il peso del troppo lavoro o forse delle troppe lotte interne.
- E allora – esordisce, lasciandosi cadere di schianto sulla sedia e allungando le gambe nello spazio davanti a sé. – Suor Gervaise sostiene che vi rifiutate di riposare come dovreste e che respingete le raccomandazioni che vi vengono rivolte. Cosa avete da dire a vostra discolpa?
Molly sa di essere in torto, ma non può cambiare questo stato di cose ed egoisticamente neppure desidera farlo.
- Permettete?
Il dottor Stamford allunga una mano per sfiorare la cartellina di pelle in cui lei ha raccolto i lavori per cui Suor Gervaise si è tanto affannata a rimproverarla di incoscienza e avventatezza, ma non accenna a prenderla, aspettando che lei lo autorizzi.
Molly gliela porge con un gesto fiacco.
Lo vede scorrere i suoi sogni e soffermarsi su ogni disegno con occhio allenato da estimatore.

Una landa di nebbia. Una donna dai capelli d’acquamarina che indossa un’armatura di fiori. Un mantello su cui sono state cucite piume d’aquila dalle tinte vivaci. Tre Facce identiche che appartengono a uomini diversi e hanno occhi cangianti di drammatica magnificenza. Una casa su un albero in un Bosco con tronchi lisci e fronde viola, in cui l’erba è nera e l’acqua dei torrenti è verde. Un sogno che non è un sogno e una realtà che aspira a diventarne parte.

Le sopracciglia del dottor Stamford, se potessero staccarsi dal loro posto, a quest’ora sarebbero ben oltre l’attaccatura dei capelli. – Li avete fatti tutti voi, questi? È ciò che vi ha tenuta impegnata in questi giorni? Non c’è da stupirsi che Suor Gervaise si lamenti del fatto che dormiate poco!
Molly stringe i pugni attorno alla stoffa della vestaglia. – Sentivo la necessità di disegnare.
- La necessità, eh? – Il dottor Stamford si sorregge gli occhiali da vista, ma non la biasima né azzarda giudizi. – Sono lavori mirabili – commenta e glieli restituisce con grande riguardo.
Molly ne è lusingata, soprattutto considerando che si tratta di schizzi e ‘larve’.  
- Non vi verrà impedito di proseguire il vostro lavoro.
- Ma? – intuisce Molly.
- La mattina potete dedicarla a dipingere, ma il pomeriggio dovrete riservarlo all’assoluto riposo. Non dimenticate il motivo che vi ha condotta qui.
Molly non può che acconsentire e dalla mattina successiva si adopera con impegno sul famoso ritratto che le è stato chiesto.

 

 

- Non capisco proprio da dove ti venga tutto questo.
Jill è con lei su una delle panche sotto il pergolato che si affaccia sul cortile interno, le mani occupate a spulciare i suoi disegni. Sono spalla contro spalla, infagottate nel doppio strato di coperte e cappotti in cui Suor Gervaise le ha avvolte. - Non vorrete ammalarvi di nuovo! – è stata l’accusa che le ha convinte ad addomesticarsi a quell’imposizione.
- Si chiama immaginazione.
Jill le pizzica il fianco. – Sai di cosa parlo.
Sì, Molly lo sa. Si riferisce ai sogni di cui stupidamente ha avuto l’imprudenza di accennarle.
La sagoma di un bambino nell’ombra che indossa per maschera un becco di corvo. Una città fantasma cinta da mura alte e squadrate che hanno mille e mille porte di diversa fattura e grandezza, tutte prive di serrature, che sono tranelli perversi per i cittadini del mondo che servono a tenere imprigionati.   
- Voglio che tu faccia da madrina al bambino.
La dichiarazione la strappa alle sue illusioni ad occhi aperti.
- Stai scherzando?

Si prende gioco di lei?
Jill fa una smorfia, le punzecchia il braccio, ma questa volta fa male perché è seria. – Quando parlo di lui o lei non scherzo mai.
- Sono una pittrice di strada senza arte né parte.
- Da quel che vedo, di arte ne hai in abbondanza.
- Sai di cosa parlo. Non posso prendermi cura di un bambino.
Jill le rivolge un’occhiata in cui il sollievo è misto alla malinconia, alla riconoscenza per non aver preso sottogamba le sue paure, non averla tranquillizzata con moine frivole e rassicurazioni sciocche. Il parto la preoccupa e vuole pararsi le spalle nel caso in cui qualcosa andasse storto, non trattata con condiscendenza. – Non puoi o non
vuoi?
Molly si prende i gomiti, rimirando le rifrazioni di luce che gocciolano sulle snelle colonnine del patio innevato. Il sole dà loro rilievo e restituisce una consistenza che il candore della neve, bianco nel bianco su fondo unito, aveva affievolito. – Entrambe, credo. Riesco a malapena a prendermi cura di me stessa. Puoi vederlo da te. Immagina come sarebbe con un bambino.
- Io lo vedo, Molly.
Ti vedo. E vuoi sapere cos’è che vedo? Vedo una persona tendenzialmente distratta, che spesso si dimentica di svolgere azioni basilari come il mangiare o il dormire, che si perde dentro di sé perché nasconde un intero mondo. Ma anche una persona che riesce a sognare cose come queste – le mostra i fogli in cui gli schizzi a tinte vivaci sono involucri assoggettati a una danza frenetica di orrore ed esultanza.
– Tu hai un dono, Molly. Chiamala immaginazione se vuoi, ma puoi vedere cose che a pochi altri sono concesse. È a questa persona che sarei ben felice di affidare mio figlio.

Cosa può dirle?
Sperando che vada bene, Molly decide di imitare quello che faceva sua nonna quando lei era piccola e cercava di farla contenta, regalandole i suoi disegni. Quei cieli di zaffiro per cui piangeva disperata. Prende a coppa il viso di Jill e le stampa un bacio sulla fronte. – Ne sarei onorata – mormora turbata.
Jill le butta le braccia al collo e finalmente trova lacrime per le sue paure senza volto, per tutti i fantasmi del suo passato.
E Molly si rende conto che la malattia, oltre che portarla in quell’ospedale, le ha permesso di conoscere persone splendide come Jill, perfino il privilegio di chiamarle ‘amiche’.

 

 

- Dopo il parto ho intenzione di trasferirmi ad Aubervilliers. Ho trovato impiego in una sartoria. La proprietaria è una persona discreta e non farà domande sulla paternità del piccolo.
Mentre le comunica la notizia, Jill non distoglie lo sguardo dal suo lavoro di cucito e l’ago si muove rapido, pressoché invisibile. È quando smette di parlare che solleva gli occhi, posa il lavoro in grembo. – Non hai nulla da dire?
No, non ha parole o perle di saggezza da regalarle né l’inutilità di un’approvazione. – Te la caverai – risponde Molly ed è sincera.
Le rughe di preoccupazione attorno alla bocca di Jill spariscono come per magia e le mostra con fierezza il fazzoletto su cui sta ricamando il suo monogramma.
 

 

 

- Per lei voglio un nome forte.
- Lo sarà indipendentemente dal nome. Lo sarà perché è tua figlia.
- Io sono diventata forte e così tu. A cosa abbiamo dovuto rinunciare? Quanti pezzi di noi abbiamo perso o abbiamo deciso di abbandonare per strada durante il processo? Voglio che sia forte, che sia pronta a lottare per quello in cui crede, ma non voglio che sia costretta a scendere a compromessi per conquistarsi un posto nel mondo. Voglio che sia a suo agio con se stessa, che si trovi comoda nel suo corpo, che non si vergogni mai di chi è o da dove proviene. Voglio che sia determinata e coraggiosa e fiera.
- Vuoi che sia come te, ma senza il percorso di complicazioni che ti ha portato ad essere ciò che sei.
- È un desiderio sciocco, vero?
- La conoscenza si muove mano nella mano con la sofferenza. È il desiderio di ogni madre quello di risparmiare ai figli il dolore, ma il dolore, lo sai, non è mai inutile.

 

 

Il parto è un affare scomodo, decide Molly. Scomodo e sporco.
Lascia che Jill le riduca in poltiglia le ossa delle mani e che le sue urla la stordiscano. Il suo udito, decide, deve aver subito danni permanenti, non sarà mai più lo stesso.  
- Spingi un’altra volta! Si intravede la testa! – sbraita l’ostetrica e Jill fa come le è stato ordinato. Spinge, spinge, spinge come se ne andasse della sua vita, come se da quel fiume di sangue e liquidi nauseabondi dovesse uscire un mondo nuovo e pulito. Jill sbuffa e ansima e il suo volto è viola per lo sforzo, si è morsicata le labbra a sangue e ha gli occhi invasati, la voce rauca per le grida di dolore a cui si è lasciata andare.
Suor Gervaise, all’altro capezzale, le tampona il sudore con una salvietta umida e la incoraggia con parole di rassicurazione, progetti per il futuro, per quando avrà il suo bambino e la fatica sarà solo un ricordo vago.
Un’ultima spinta, tutto il corpo di Jill trema per lo sforzo, ha come un sobbalzo interno e poi si affloscia, inerme. C’è silenzio, le urla sono sparite e perfino la notte sembra in ascolto quando un vagito spezza l’incantesimo.
- È una bambina – comunica l’ostetrica, asciugandosi le mani in un panno pulito di lino. – Ed è robusta e sana.
Le braccia di Jill sussultano quando le viene passato l’involto rosa e urlante che è sua figlia, ma nonostante l’ovvia stanchezza lei serra la presa sulla sua creatura con uno sguardo colmo di adorazione liquida.
– Guardala, Molly e dimmi se non è bellissima.
Molly si china a fare quanto le è stato detto. Vede un naso delicato e una bocca che ulula, ma anche manine minuscole che afferrano il vuoto e una lanugine di capelli fini che al tatto sono fili seta.
- Questa è Molly, Louise. Dovrai essere buona con lei perché la mamma ha faticato come un mulo per convincerla a farti da madrina.  
- Oh, sta un po’ zitta – fa Molly, burbera. – Mi stai facendo fare una pessima impressione.
La risata di Jill suona chioccia, ma non meno musicale.
Molly sfiora la testolina che ora è posata sul seno di Jill. – Piuttosto rumorosa. Questo lo ha di sicuro ereditato dalla madre.
- Speriamo che sia meno piantagrane di lei, allora.
Jill ha parlato piano, batte le palpebre lentamente e Molly si accorge che il sonno sta prendendo il sopravvento, così si offre di prendere la bambina.
Nota che Jill la scruta nella penombra e che ha corrugato la fronte. – Sei sicura di volerlo fare? Adesso che l’hai vista non hai cambiato idea, vero?
- Me lo stai chiedendo sul serio?
- Sì. Non voglio che tu ti senta messa alle strette od obbligata a fare alcunché.
- Hai ascoltato cosa ha detto tua madre, Louise? Sta già ritrattando la mia nomina a tuo ipotetico tutore.
- Non dire assurdità, non è quello che ho detto. Stavo solo pensando che…
- Pensavi a me quando dovresti pensare a tua figlia – la interrompe Molly. – Santo cielo, chi non vorrebbe avere a che fare con questo angioletto?
Jill ha già gli occhi chiusi e il suo respiro è rilassato e regolare.
Molly si siede vicino al letto. La guarda dormire e si chiede come sembrerà la vita quando tornerà ad essere sola.

Non essere sciocca
, dice a se stessa. Non è la tua famiglia. È solo una persona che hai avuto la fortuna di conoscere.
Eppure le voglio bene. Le voglio bene quanto ne volevo a mia nonna e mi si spezzerà il cuore nel dirle addio.
Perché ogni persona della sua famiglia deve sempre abbandonarla o lasciarla indietro?

 

 

Quella notte sogna la città con le porte che non si aprono.
Sfiora il legno di una verniciata di rosso e quella si spalanca magicamente su un pozzo di buio.
Percorre strade vuote che odorano di miseria e solitudine, sorvegliate da strane creature che sembrano sculture mal riuscite di uomini e donne. Sono calve, nude e hanno la pelle di pietra nera e ambra, cavità vuote dove dovrebbero trovarsi gli occhi.
Non c’è più alcun bambino. C’è un ragazzino vestito di nero, invece, simile a un’ombra tra le ombre, con un becco di corvo sul viso, che la guarda con sgomento.
Molly vorrebbe rassicurarlo.
Lei non è lì, non appartiene a quel luogo, ma ad uno che è infinitamente diverso, migliore o peggiore o ambedue.
“Sei reale?” lo sente chiederle.
“Reale quanto te.”
“Non lo sembri. Sembri… trasparente.”

Per dimostrare qualcosa, a se stessa o al ragazzino non importa, Molly poggia l’indice sul becco appuntito. La sensazione è bizzarra, ma il contatto è tangibile, concreto. Il ragazzino fa tanto d’occhi. Con un sussulto Molly li riconosce. Sono quelli del mostro dietro l’uomo, delle Tre Facce. Occhi cangianti che le sembra di aver già visto altrove, fuori dai suoi sogni.

“Chi sei?”
“Korax.”
“E chi è Korax?”
“È la maschera che porto, non quello che sono.”
“Perché indossi una maschera?”
“Per difendermi da Lei.”

Molly vorrebbe chiedergli chi sia la Lei da cui sente il bisogno di nascondersi.
“Tu non sei di Selimbria.”
“Selimbria?”
È questo il nome della città? “No, non sono di qui.” Una pausa. “Non sembra un bel posto in cui vivere.”
“Com’è casa tua?”

Molly vorrebbe raccontargli dei due fiumi, la Senna e la Bièvre, dell’orologio della
Conciergerie con una lancetta a forma di giglio e l’altra di lancia, degli innumerevoli ponti e dell’acqua che riluce come una cascata di miele dorato all’ora del tramonto. Non si accorge che sta svanendo, che, pensando a casa, questa la sta riportando dall’altra parte, dovunque essa sia.
“Stai scomparendo.” La curiosità negli occhi del ragazzino ha ceduto il passo all’amarezza. Molly sa qualcosa riguardo a come appaiano gli addii a quell’età. 
“Tornerò,” promette.
“Saresti una pazza a farlo.”

Allora sarò una pazza e felice di esserlo.   

 

 

Si sveglia madida di sudore, con un sapore metallico sotto la lingua e del sangue che le cola dal naso. Ricorda la sensazione di smarrimento del sogno, ma non cosa ha sognato. I rimasugli di quanto ancora indugia, ai margini della coscienza, si infrangono contro la realtà e si rompono in mille pezzi scomposti.    
Jill e la piccola Louise partiranno il giorno dopo, ricorda, e lei verrà dimessa.
Fissa il soffitto finché la vista non le si appanna. Dire addio non sarà facile.

 

 

- Ci vediamo in primavera. Cercherò di prendere un permesso speciale dal lavoro. Dirò che mi serve per andare a trovare mia sorella.
- Non dovresti mentire.
Jill le dà un buffetto affettuoso sulla guancia, nel vapore fumoso della stazione gli occhi di lei sono quasi neri, ma ugualmente luminosi. – Non mentirò infatti.

 

 

– Vieni a trovarmi, ma petite fille.  
- Lo farò.
- Sarà meglio – le raccomanda Suor Gervaise e si soffia il naso clamorosamente prima di abbracciarla.
Molly cerca di non badare al fatto che la stia stringendo troppo.

 

 

Il dottor Stamford l’attende nell’ambulacro, seduto sulla stessa panca su cui Jill le ha chiesto di fare da madrina a Louise. Sembra una vita fa e invece è passato soltanto un mese.
Molly si aggiusta la sciarpa di lana lavorata, uno dei tanti regali di Jill e lo raggiunge.
Il dottore sta fumando e Molly reagisce alla scoperta con malcelata sorpresa.
Lui se ne accorge e le rivolge un sorriso stropicciato. – L’unico vizio che mi concedo – dice, mostrandole la sigaretta con aria di scuse.
- Non intendevo giudicarvi.
Il dottore annuisce, prende un’altra boccata. – Lo so.
Sembra teso e Molly non riesce ad immaginarne il motivo.
- Cosa siamo noi due, Molly?
Prima la sigaretta e ora questo. Non sa cosa la colpisca maggiormente: se la natura della domanda o il fatto che abbia usato il suo nome di battesimo. Non l’ha mai fatto prima, è rimasto fedele sino alla fine della sua degenza a quel ‘
chère Mademoiselle’ del primo giorno, all’apparenza così distaccato e impersonale, ma che lui è stato capace di arricchire di mille sfaccettature con la semplice inflessione della sua voce.  
- Molte cose – risponde, cercando con cura le parole da usare, come pigmenti del suo armamentario. - Un dottore e una pittrice. Un dottore e la sua paziente. Un uomo e una donna.
- Che possono considerarsi amici? – tenta lui.
- Io vi ho da sempre considerato un amico.
Inspiegabilmente lui sembra di colpo alleggerito dall’apprensione. Spegne la sigaretta sotto il tacco della scarpa. – Bene. Questo mi facilita le cose. Ho una proposta da sottoporvi e spero davvero che l’esito si riveli favorevole ad entrambi.
- Una proposta di che genere?
- Ho avuto modo di osservare di prima mano i frutti del vostro lavoro, Molly. I ferri del mestiere che mi sono scelto sono assai diversi dai vostri, abbiamo sfere di competenza che convenzionalmente sarebbero destinate a non incrociarsi mai, tranne che in questa singola e particolarissima circostanza. Per farla breve, mi serve il vostro aiuto.

Che aiuto può mai volere da lei?
La curiosità che prova deve essere limpida come acqua, insieme allo sbalordimento, perché il dottore la guarda con simpatia e un sentimento che Molly impiega un po’ a riconoscere come tenerezza.
- Sto lavorando da ormai molti anni a un Trattato sull’anatomia del corpo umano, ma mi rendo conto che per quanto io possa smontarlo, descrivere
l'esatta forma, posizione, misura e interrelazione delle varie parti che lo compongono, una cosa è renderlo a parole e una cosa ben differente è mostrarlo.
- In questo io cosa c’entro?
Il dottore le dedica un’occhiata indulgente che la invita alla pazienza.
- Pazienza, amica mia. Siate paziente, ci sto arrivando. La mia proposta è semplice. Mi serve qualcuno che si occupi dei disegni anatomici, mi serve l’abilità dell’artista e credo, anzi no, sono convinto che quel qualcuno possiate essere voi, Molly.

Oh, cielo. Vediamo se ha ben capito. - Mi state chiedendo di ritrarre parti di corpo dissezionato… muscoli e nervi, ossa e membrane, cuore e cervello – elenca Molly con sorprendente lucidità.
- È esattamente ciò che vi chiedo. La vostra collaborazione.
- Ma io non so nulla di anatomia umana! O meglio – si corregge in fretta – nulla di quella interna.
- Questo è un problema di facile soluzione. Vi basterà assistere ad un certo numero di autopsie. Una decina dovrebbero bastare per cominciare, tanto per andare sul sicuro. Con la vostra capacità di osservazione e un po’ di pratica, sono certo che ovvierete tranquillamente all’inesperienza.
- Non è questo il punto!

Possibile che non capisca?
- Naturalmente riceverete un adeguato compenso per i vostri servigi, se è a questo che vi riferite.
C’è una punta di delusione e freddezza nella voce di lui che per Molly è una pugnalata. Si sforza di non risentirsene.
- Mi riferisco a problemi di carattere strettamente pratico – replica lei. - Come credete che reagiranno i vostri colleghi, sapendo che permettete che assista ai vostri interventi una persona, per di più una donna, priva delle qualifiche necessarie?
- Oh, mia cara! – La risata del dottore è buffa, ma allegrissima. Sovrappensiero si sfrega la mandibola in quello che deve essere un vezzo di quando è in uno stato nervoso o eccitabile. – La cosa farà senza dubbio scalpore, non lo nego, ma una volta che avranno tra le mani il risultato finale, sospetto che non avranno di che ridire tantomeno rimostranze da rivolgerci. Inoltre, se preferite l’anonimato, pubblicheremo i vostri disegni sotto uno pseudonimo o indicando le vostre iniziali. Dunque era questa la vostra preoccupazione? Proteggere il mio buon nome e la mia reputazione?
- Non è quello che si fa, tra amici? – ribatte Molly.
- Lo è, invero.
Si salutano con una stretta di mano e un appuntamento fissato alla settimana ventura per iniziare il lavoro. Molly vorrebbe cominciare da subito, ma il dottor Stamford è irremovibile e insiste perché lei approfitti di quei giorni per sistemare le situazioni in sospeso che quei mesi lontana da casa devono aver contribuito a creare.
È con un tuffo al cuore che Molly si ricorda dell’appartamento a Le Marais.

 

 

III. (1892)

 

La padrona di casa, la signora Thibault, non si fa scrupoli di sorta a palesare l’astio e l’accoglie con l’entusiasmo di un ghiacciolo, come un’incombenza noiosa che valga a malapena il disturbo. Tuttavia non accenna al pagamento degli affitti in arretrato né le chiede dove sia stata, il che, vista la sua natura pettegola e avida, è tanto di guadagnato, ma lascia comunque Molly interdetta e la spinge ad affrontare di petto l’argomento. Via il dente, via il dolore.
- Riguardo agli affitti… – incomincia a dire, con difficoltà.
- Se ne è già occupato il vostro amico – sentenzia la donna con un gesto della mano che è una perla di villania, restituendole le chiavi di casa con malgarbo.
- Il mio amico?
- Le
jeune homme alto e pallido, quello dal nome impronunciabile.
E Molly vorrebbe di tutto cuore sapere di chi stia parlando, perché, davvero, non ne ha la benché minima idea. – Cosa intendete?
- Intendo che ha pagato – replica lei svogliata.
Detto ciò la lascia nell’ingresso e si allontana, imprecando contro un tale Langlais tutto matto, senza degnarla di ulteriori delucidazioni o chiederle cosa, in nome di Dio, le abbia impedito di farsi viva negli ultimi due mesi.
Decisa a non lasciarsi scoraggiare da così poco, un trattamento a cui in fin dei conti ha fatto il callo negli anni, Molly sale le quattro rampe di scale e apre la porticina seminascosta nella nicchia d’angolo che si spalanca sul solaio.
Casa sua la riceve con una zaffata d’aria stantia e un’aura di abbandono e trasandatezza ben poco ospitale. Avanza verso il centro, attenta a non urtare la testa contro la rientranza del sottotetto, lasciando le sue impronte nello spesso strato di polvere che si è accumulato sul pavimento, oltre che sulle poche superfici piane.
Molly incrocia lo sguardo del proprio riflesso nello specchio poggiato sopra la cassapanca e vi scorge perplessità e timore.
Si butta di schiena sul letto, senza preoccuparsi di svestirsi, un braccio messo di traverso sul viso e il pulviscolo che sfarfalla da ogni parte.
È a un bivio della sua vita e l’ultima volta che è successo, il lutto le aveva cucito gli occhi, rendendola cieca alle grazie del mondo e in petto al posto del cuore aveva una ferita pulsante che sanguinava vita e dolore, in un legame di dipendenza vincolata.
Il problema degli affitti per il momento può considerarsi risolto, ma a chi si riferiva la signora Thibault, parlando del suo amico? Rimane un mistero.
Un giovanotto alto e pallido dal nome impronunciabile. Che sia… che possa essere… ma no, la sola idea suona ridicola alle sue stesse orecchie. Ricorda quel giorno come qualcosa di lontano, un miraggio nella nebbia. Ricorda occhi di una bellezza dolorosa in un volto autorevole e il tepore di un bacio rubato a suggello di una promessa. Un bacio per un quadro.
Si addormenta cercando di trovare soluzione all’enigma, con un nome che le sboccia sulle labbra, improvviso. Sherlock. Il suo nome è Sherlock.

 

  

Cammina sotto cieli sconosciuti, striati di giallo e rosa. È in una città che non ha mai visto prima, in cui si aggira con circospezione.
Questa città ha palazzi dalle guglie placcate e auree, strade pavimentate con ceramica smaltata. Maiolica policromatica che è calda sotto la pianta dei piedi, scalzi come quelli di chiunque altro.  
Qualcuno le afferra la mano repentinamente e inizia a correre, trascinandola con sé. Molly non si ritrae alla presa, ma si ritrova a sorridere e a dire con una voce gioiosa che fatica a riconoscere come propria, che è abituata ad usare di rado, il nome dell’uomo smilzo che ora le sta facendo l’occhiolino.
Jim! – chiama l’uomo, che le stringe la mano e la conduce per sentieri zigzaganti.
La gente intorno a loro danza e canta, suonando strani strumenti d’argento e agitando bracciali concentrici larghi come piatti da portata, attorno a cui sono infilati cerchietti di dimensioni più piccole che ricordano dei sonagli. Le donne indossano abiti svolazzanti, smanicati e simili a sottovesti, ma dalle gonne ampie e vaporose. Gli uomini, invece, vestono completi di un tessuto luminoso che cattura la luce dei due soli.
Ra’d Rodhia.
– Se dovessi tradurlo nella tua lingua, direi che significa pressappoco “Canto all’eroe del tuono”.

Jim si allontana, per un attimo si perde nella folla. Torna con una bambina abbronzata dalle trecce ramate e le spiega che farà loro da guida. La Molly che osserva dentro Molly, quella che sta sognando, vorrebbe urlarle un avvertimento. Non sa spiegarsi come, però sa che è un male che la bambina rimanga con loro, che la metterà in pericolo. Ma l’Altra Molly ha un sorriso che è solo per Jim, non ha spazio per inquietudini e apprensioni e alla Molly del Sogno non rimane che assistere senza poter fare nulla.

 

 

Si trova in una cella incrostata di sangue rappreso. Oltre le sbarre, le facce pallide e tristi di due bambini la studiano con sospetto.
Molly è travolta dall’impotenza. Rivolge loro parole di conforto che sono specchietti per le allodole e non se la sente di biasimare la bambina quando lei le si rivolta contro, rabbiosa. – Non ti credo – le sputa in faccia come veleno e l’inadeguatezza diventa una marea che la sommerge e in cui potrebbe annegare, insieme al senso di colpa.
Le ha promesso la libertà e di riportarla a casa sua, ma capisce quanto suoni ridicolo considerato che è imprigionata.  
L’altro bambino, che era di guardia nel corridoio, si fa avanti con una torcia e Molly ha un breve scorcio di lineamenti crucciati e ricci capelli castani. Qualcosa che porta intorno al collo, un ciondolo appeso a un girocollo, diventa all'istante incandescente e sfolgora come una stella cadente, prima che scoppi il putiferio. Il muro alle sue spalle salta in aria, non c’è modo per descrivere il rumore della deflagrazione e la pioggia di calcinacci e polvere che si solleva. Nello squarcio si apre un’enorme tromba d’aria che brilla e arde, azzurra e dall’occhio del ciclone spuntano il braccio, la spalla e la testa di uomo biondo che le intima di far presto, che il portale si chiuderà e che
loro non riusciranno a trattenere la strega ancora per molto.
Molly si sente come se dovesse piangere da un momento all’altro, ma dà le spalle ai bambini e afferra la mano tesa dell’uomo che, lo sa, è la sua unica possibilità di salvezza.   

 

 

Durante la prima autopsia alla quale prende parte, Molly rimane impalata al fianco del dottor Stamford, incapace di articolare una frase di senso compiuto. Si concentra sull’atto della respirazione e inala dalla bocca, per evitare che l’odore del sangue aumenti esponenzialmente la nausea. C’è un altro odore che le pizzica il naso.
– È formaldeide – le spiega il dottor Stamford e per tutto il tempo rimanente la sbircia di sottecchi, probabilmente animato dal timore, più che fondato, che lei stramazzi al suolo o gli vomiti sulle scarpe di vernice.
Molly ha portato con sé la cartellina, ma quel giorno si limita alla semplice osservazione, concedendosi del tempo per prendere dimestichezza con l’oggetto che dovrà ritrarre nei suoi disegni preparatori.
Alla fine della sessione, il dottor Stamford le batte una pacca sulla spalla e le rivolge un cenno di approvazione. – Da brava, Molly, ora tornate a casa e non pensate troppo a quel che avete visto. Concentratevi sul cosa e non sul come.
Quella sera, Molly allaccia la cintura sulla sua gonna migliore, allenta il busto sotto la camicia e la giacca a doppiopetto quel tanto che le basta a respirare e a muoversi con maggiore libertà, cerca di pettinarsi i capelli, emulando l’acconciatura bombata che va di moda in quel periodo ed esce.

Le Cafè de l’Enfer offre alla vista degli avventori esattamente lo spettacolo che ci si aspetta, dato il nome che si è scelto.
Fumo di scena che è un trucco rubato al teatro, fiamme di carta velina appese ai candelabri e grida di terrore rimandate dai grammofoni (nascosti in appositi scomparti dietro i pannelli di legno), pareti decorate con altorilievi di scene bibliche tratte dall’Apocalisse e raffigurazioni di mostri e dannati le fanno compagnia mentre gusta la sua cena, che le è stata servita da un diavoletto in calzamaglia rossa e coda biforcuta. Contrariamente al solito, ha deciso di non assistere all’esibizione di magia che sta avendo luogo nella seconda sala, che è preludio dello spettacolo di cabaret vero e proprio. Non si sente in vena di risate, quella sera.  
In un ambiente così poco propenso alla normalità, che non bada alle regole sociali dell’apparenza e della formalità, ma persegue l’eccesso e il grottesco, nessuno presta attenzione alla Mademoiselle che è seduta nell’angolo meno appariscente, allietata dalla sola compagnia del suo bicchiere di grog.   
Un uomo tarchiato in frac e tuba le si appressa e Molly finge di non notarlo, allungandosi ad afferrare il bicchiere di liquore. Spera che basti perché recepisca il messaggio e le scrolli di dosso quell’attenzione indesiderata. Le sue speranze dimostrano la loro natura sciocca nel momento in cui la mano dell’uomo, obbligata nella nitidezza immacolata del guanto che calza, le sfiora in una carezza impacciata le dita poggiate attorno al bicchiere.
Il gesto inappropriato sarebbe di per sé sufficiente ad infastidirla, anche senza le parole che lo accompagnano: - Un’affascinante peccatrice che si sottrae alla vista. Perché? Siamo tutti peccatori, in quest’ora fatale ci riconosciamo gli un gli altri come simili.
Molly si sottrae con uno strattone deciso al contatto sgradevole e all’ancora più sgradito afrore di vino che si emana da lui come un miasma. – Un peccatore che riconosce la sua natura non può più considerarsi tale. Confessare il peccato è il primo passo per espiarlo, ne consegue che noi non siamo simili.  
L’uomo batte velocemente le palpebre mentre tutto il suo corpo è scosso da un fremito. Gli occhi gli si riversano all’indietro e le stramazzerebbe addosso se il braccio di un secondo uomo non impedisse che ciò accada, afferrandolo per la collottola e facendo poi in modo di sistemarlo su una panca, le braccia conserte sul tavolo e la testa poggiata al di sopra. In quella posizione pare soltanto un cliente che si sia concesso un bicchiere di troppo e stia smaltendo la sbornia.
Ma Molly sa come è andata, lo ha visto. Ha colto il movimento fulmineo con cui l’uomo è stato colpito alla nuca.
Guarda con occhi duri il nuovo arrivato. – Non vi ringrazierò.
- Non mi aspetto che lo facciate – replica lui con un sorriso di puro cinismo. Scivola sul posto vuoto di fronte al suo e la considera con quegli occhi così singolari, che adesso le ricordano l’acqua di un ruscello di montagna e le foglie di tiglio in autunno, per le sfumature brunite e giallo-verde intenso.
Gradualmente, Molly sente l’animosità esaurirsi e riesce a ricambiare il sorriso di lui con uno genuino. – Sherlock – lo saluta con un cenno cortese del capo.  
- Molly – replica lui con un identico cenno. – Qual buon vento vi porta alla bocca dell’Inferno? No, dato il contesto forse è errato appellarsi a un vento buono.
Molly fa ondeggiare il liquido nel suo bicchiere con un movimento grazioso del polso e per un brevissimo istante perde contatto con quanto la circonda per concentrarsi invece sul minuscolo vortice che lei stessa ha creato. – Un vento dell’est – risponde sovrappensiero e sente l’inconfutabile verità di quanto ha detto, anche se non riesce a capirne la portata. È uno di quegli strani momenti in cui tutto sembra già accaduto, molto tempo addietro, in cui si riesce a intravedere la direzione di un percorso preciso e delineato, ogni incertezza è dileguata. Dejà vu.
- Come avete detto? – chiede Sherlock con una smorfia e il momento è perduto.
Molly si riscuote, dandosi della sciocca. – Non è nulla – minimizza e posa il bicchiere senza averne bevuto un sorso. – E voi? Dubito che ad attirarvi sia stato lo spettacolo di magia.
- Trucchi mediocri.
- Ma a cui è piacevole assistere.
Sherlock corruga la fronte. – Perché?
- A volte per sperare che il trucco non sia un trucco, altre per la facilità con la quale lo si riconosce per quello che è. Le illusioni funzionano solo con chi si lascia trarre in inganno.
- E voi a quale categoria appartenete?
- Ad entrambe e mi rincresce ammettere che in tutti e due i casi tendo a rimanere ugualmente delusa.
- Non ne dubito.
- Posso osare chiedere come mai?
Sherlock ha le nocche ripiegate sotto il mento. Non risponde immediatamente. Aspetta che il cameriere che l’ha servita e che è tornato a riprendere il piatto e le posate d’argento, sparecchi e posizioni una nuova candela dal fusto lungo nello spazio vuoto tra di loro e un secondo bicchiere a tulipano.
– Voi mi date l’impressione – dice, non appena quello si è allontanato, la coda di stoffa cucita alla calzamaglia che si agita ad ogni passo impettito – di qualcuno che ha aspettative troppo elevate.
- Ci sono uomini – ribatte Molly, controllandosi a stento - che esplorano il mondo e abbattono ogni giorno un vecchio confine, diminuendo l’estensione delle terre che ancora ci sono sconosciute e altri che scoprono rimedi portentosi a malattie che fino a pochi decenni fa erano mortali, altri ancora offrono la promessa di una protezione eterna dalle tenebre o la possibilità ad una persona di ascoltare le voci dei suoi cari, colmando le grandi distanze che li separano. Ogni giorno qualcuno compie un nuovo miracolo e ogni giorno ci addomestichiamo all’idea sempre meno ridicola che in qualsiasi momento potrebbe compiersi lo straordinario. Compiendo gesta straordinarie, l’uomo diventa straordinario. Arriverà un giorno in cui saremo talmente assuefatti all’impossibile che non sapremo più riconoscere la differenza tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Tutto sarà stato già fatto da qualcuno che ci ha preceduto, ogni cosa sarà stata vista, ogni invenzione scoperta, ogni impresa realizzata e le glorie e le vittorie di un tempo non saranno che ombre ed echi del passato. Perciò, monsieur Holmes… – la rinuncia all’uso del nome di battesimo ha l’intenzione di essere un insulto e serve a porre le giuste distanze tra loro - cosa vi fa credere di avere la minima idea di quali siano le mie aspettative?
Lui la studia come un uomo di scienza farebbe con la sua cavia da laboratorio. La sensazione, insieme al paragone, non è lusinghiera. - Vi ho offesa.
Non è una domanda, non ne ha il tono né l’impostazione e Molly non lo degna di una risposta che smentisca né di una che avvalori quanto ha detto.
- Se l’ho fatto, non chiederò scusa. Ciò che intendevo, riferendomi alle vostre aspettative troppo elevate, è la vostra ricerca.
- La mia ricerca di cosa, precisamente?
- Felicità. Non è quello che insegue la maggior parte delle persone? Il miraggio che segretamente ognuno rincorre?
Il sorriso sprezzante di lui appartiene al genere di sorrisi che sono il marchio di riconoscimento della sua risma, tutto pretenziosità e spine grondanti sarcasmo e in quella determinata circostanza, con i sofismi che sembra implicare, ha il potere di contrariarla. Ogni cosa di lui sembra creata appositamente per lo scopo di irritare.
- Anche voi? – domanda, indispettita.
- Io non credo nella felicità e a voler essere onesti mi risulta difficile credere in molte altre cose, compresa l’apparenza forzata dei buoni sentimenti che la società professa si debbano provare nei confronti del prossimo.
- È qualcosa che si impara da bambini.
- È qualcosa che viene insegnato ai bambini – la corregge con la pedanteria di un cattedratico. 
- Perciò la felicità è una chimera e il precetto di etica e gli obblighi morali vi appaiono come forzature di genere. Vi piace essere così meschino?
- Se tra i suoi benefici serve a difendermi dalla stupidità del mondo, allora la mia risposta è sì.
- Avete amicizie? Una famiglia o persone a cui tenete?
- Sapete quanto me che la solitudine ha poco a che fare con i legami d’affetto che si creano nel corso della vita. Siamo meno soli perché amati?
- Per alcuni funziona. L’amore è la cura.
- Effetto placebo. E una volta cessato, non si rimane che con un pugno di mosche.
- Tutto quello che dite, mi dimostra che la vostra è la reazione di qualcuno che preferisce non partecipare a un gioco perché spaventato dalla possibilità di perdere.
- C’è chi vince e c’è chi perde. Perché correre il rischio?
- L’essenza della vita sono i rischi che siamo disposti a correre.
- In nome di cosa?
- Per noi stessi. Per quelli che siamo o ancora stentiamo a diventare. Non c’è felicità senza azzardo e non c’è vita senza lo sprone di incessanti motivazioni a supporto delle nostre aspirazioni.
- E senza tutto questo, cosa rimane?
Molly si decide a guardarlo direttamente e risponde con un sorriso serafico: - La noia.
Sherlock inarca le sopracciglia, ammirato, prima di afferrare il suo bicchiere, alzarlo in un brindisi silenzioso di encomio e berne il contenuto tutto d’un fiato.
Molly si vieta di arrossire. – Quali sono le condizioni del mio quadro? – domanda per distrarsi.
- Non è ancora bruciato, se è questa la vostra preoccupazione.
- Ne sono lieta.
- Una promessa è una promessa. Mi pare di ricordare che fosse una delle condizioni, quella di non distruggerlo.
- Siete un uomo di parola.
- I giuramenti sono impegni che non vanno presi alla leggera.
- Non mi avete ancora detto cosa vi ha portato qui stasera.
- Il caso. Sono un habitué di locali come questo e del quartiere.
- Davvero illuminante – Molly si lascia scappare, ricevendo in grazia una breve risata da lui. Ha l’aria di trovare quanto dice spiritoso, magari la approva, ma glielo lascia percepire senza dichiararlo o manifestarlo apertamente. È destabilizzante.  
- E voi? Una signora non accompagnata che beve liquore in un locale dalla dubbia integrità. Non temete di essere considerata troppo autonoma?
Non è una critica, soltanto un’osservazione casuale, come lo sarebbero disquisizioni sul tempo e la Finanza. 
Molly si stringe nelle spalle. - Era un modo come un altro per celebrare.
- Quale ricorrenza, se è lecito da parte mia chiederlo?
Non lo è, ma Molly comunque lo accontenta: - Oggi ho assistito alla mia prima necroscopia.
L’ombra del sorriso ben noto gli incurva la bocca, simile a quella degli amorini del Canova. - Siete una fonte inesauribile di sorprese. In quale veste avete preso parte all’intervento?
- Solo in quella di ritrattista. Mi occuperò dei disegni anatomici.
Il resto della serata trascorre abbastanza piacevolmente.
Molly scopre nell’uomo che le sta davanti una persona dalla mente acuminata come fil di spada e governata con pugno di ferro da una disciplina rigorosa e intransigente. Impara a cogliere nel colore volubile del suo sguardo di falco l’affabilità che per contro manca alle sue espressioni. Sherlock non ama parlare di sé e non si spreca in dettagli sulla sfera personale della sua vita, concede molto poco di se stesso e quel poco lo centellina con parsimonia, al modo dei vecchi cerusici che debellavano la malattia col veleno, allontanando il fuoco con il pericolo di altro fuoco.
Parlano per ore e ogni ora si dilata per contenere un anno, ogni minuto un giorno.
Si offre di scortarla, data l’ora tarda e Molly non trova nulla di sconveniente nella proposta. L’apprensione sottile che si prova normalmente in compagnia di un estraneo con lui non ha mai fatto la sua comparsa.
Molly si domanda se ciò dipenda dal fatto che lo abbia dipinto. Dipingere qualcuno significa fatalmente tastare la scorza dura della superficie dell’individuo che ci si appresta a ritrarre; significa cercare di estorcere dagli atteggiamenti del volto, dai gesti e dal movimento dell'intero corpo, quella che è la natura più intima da cui traggono forza le emozioni, gli stati d'animo e anche i tratti della personalità. La fatica di riportare a galla l’involucro che si cela dietro l’armatura soffice della pelle e quella assai più impenetrabile delle costrizioni di pubblico ufficio, il riserbo pieno di contegno e moderazione e prudenza che sempre andrebbe mantenuto nel pensare collettivo.
- Una scelta ingegnosa – dice lui ad un certo punto. Sono quasi arrivati. Nella notte in movimento, Molly riconosce l’instrado che conduce a casa sua. – Scegliere un posto come quello, dove la morte è inscenata con le sue vestigia più stravaganti e folcloristiche. Deve aver restituito una certa dignità a quanto avete visto in quella sala chirurgica.
L’intuizione di lui potrebbe sorprenderla, dovrebbe. Che un perfetto estraneo penetri con tale facilità i calcoli che determinano le sue azioni è straordinario. Come è altresì straordinaria, straordinaria e spaventosamente facile, la maniera in cui riesce a dialogare con lui.
La solitudine della sua adolescenza l’ha protetta dai pericoli degli ambienti mondani, l’ha anche resa inesperta e facile preda di errori grossolani. La ragazzina aveva trovato la sua dimensione nella natura incorrotta, aveva costruito il bozzolo in una parte di mondo allo stato brado e primordiale, congelato in un attimo di stasi perfetta. La donna ha scelto per sé il fermento della metropoli in espansione, opera di cambiamenti e continue innovazioni, in cui l’indipendenza coincide spesso con l’arroganza e i pregi di virtù e saggezza sono retrocessi a ballerine di seconda fila di fronte alle promesse di profitto e guadagno.
Ma è su entrambe, donna e ragazzina, che il fascino di Sherlock fa presa. Un’avvenenza indiscutibile, che all’apparenza conserva la calma mansueta del paesaggio bucolico, ma che, grattandola via strato dopo strato, mostra un temperamento turbolento e facinoroso, un’inquietudine in crescendo.
Il brougham si ferma e Molly si muove nell’abitacolo per scendere. Come si saluta un conoscente che non è un amico e a cui neppure si è deciso il modo in cui rivolgersi?
In ultimo è proprio lui a toglierla dall’impasse. Le sfiora il polso e le appoggia nel palmo aperto della mano un cartoncino rettangolare, niveo nella mezza luce.
– Venite a trovarmi.
Non è una richiesta. Molly non dice nulla, ma stringe il biglietto da visita e lo fa scivolare nella tasca della gonna.
Prima che la carrozza riparta, tende del contante al brumista per pagare la sua parte della corsa. Quello lo accetta e abbassa di due dita la bombetta in segno di saluto e ringraziamento.
All’interno, Sherlock non ha reazioni. Il suo silenzio grava più delle parole che avrebbe potuto rivolgerle.       

 

     

Nei sogni ricorda ogni sogno precedente, collega nomi e fatti e particolari.
Nei sogni è una persona completamente differente, che da ingenua e spensierata cresce in qualcuno di più cupo e posato, che ha attraversato le costellazioni del tempo e dello spazio, preso coscienza dei suoi pericoli, degli orrori che può contenere dietro avvenenti facciate variopinte e girandole di splendore ubriacante.
Nei sogni sa perfettamente chi è e qual è lo scopo della sua ricerca, il suo posto nel mondo. Conosce i veri volti delle Tre Facce e sa chi è il mostro dietro l’uomo e perché si definisca un mostro. Nei sogni ricorda una vita diversa, conosce il suo valore, è una persona completa e non si sente spezzata o divisa o ignorante di qualcosa di vitale rilevanza.  
Nei sogni non è sola. Ama e sa di essere amata a sua volta.
C’è un uomo, un uomo importante. Ci ha messo un po’ a scoprirlo, ma ora Molly sa che è lui il qualcosa di fondamentale importanza, il segreto più importante di tutti. Lui è il sogno dentro al sogno. Non sa come è fatto. Sa solo che è alto e che ha mani che ogni artista vorrebbe dipingere, con strani simboli in rilievo che paiono incisi col fuoco sui dorsi, e una voce che è perfetta per raccontare storie. Sa come si sente quando sogna ricordi che lo riguardano e tanto basta per convincerla.
Capisce che è morto o che lo ha perduto la volta in cui, svegliandosi, scopre di aver pianto.      

 

 

Il nome completo è Sherlock Holmes e l’indirizzo si trova nel quartiere di Montparnasse. Per giorni Molly osserva il biglietto da visita finché, stufa della propria indecisione, non stabilisce di nasconderlo nel cofanetto di palissandro che era il portagioie di sua madre, ma che lei usa per conservare le sue lettere. La maggior parte sono quelle che Jill le spedisce. Gliene ne ha scritte una decina per tenerla aggiornata sui progressi della piccola Lilou e nelle quali ammette che, per quanto Parigi le manchi come un pezzo di sé, ad Aubervilliers sente di aver trovato il suo posto.
Anche se non lo ha più sotto gli occhi come prima, il biglietto continua a perseguitarla. Decide che ne ha abbastanza nel momento in cui scopre con orrore di averlo dipinto nella mano della ragazza che sta ritraendo. Ricopre l’errore, trovando l’espediente di inserire nella mano di lei un bouquet di rose gialle, ma la prontezza con cui è riuscita a risolvere l’inghippo non cancella che ci sia stato.

Non indossa il suo vestito migliore, non si spazzola i capelli con più applicazione del solito, assolutamente non si spruzza dietro le orecchie gocce del profumo che Suor Gervaise le aveva regalato per Natale durante la sua convalescenza. Si appunta il cappello e apre la porta per trovarsi di fronte Sherlock.
È incurvato in una posizione scomoda, doveva essere sul punto di bussare quando lei lo ha interrotto nell’atto, anticipandolo.
Spiazzata, Molly gli domanda: - Cosa fate qui?
Come al solito lui è privo di copricapi e i capelli sono una massa disordinata di ricci neri, neri e lucidi come le penne arruffate di un corvo.
- Non siete venuta a trovarmi – le risponde con aria di accusa.
Molly non nasconde il sorriso. È tutto talmente assurdo!
Il volto di lui si rabbuia e sembra intenzionato ad andarsene con la stessa rapidità con cui è comparso. - Trovate la mia presenza divertente?
- Affatto. Mi avete fraintesa – ribatte Molly, senza smettere di sorridergli. Vuole che capisca. Non sta ridendo di lui né per un gioco a sue spese. Vuole che condivida il lato comico della situazione e ne rida insieme a lei. – Se foste arrivato un minuto più tardi, non mi avreste trovata. – Indica platealmente la propria figura, vestita di tutto punto per uscire. - Stavo venendo da voi.
Un lampo di comprensione lo attraversa, rimuovendo l’astio di pochi istanti prima. – È bastata una settimana a convincervi? – chiede con un’ironia che non può essere solo frutto della sua immaginazione. 
È bastato un giorno, vorrebbe confessargli. Non è stato senso del pudore a trattenerla dall’andare prima, ma, ora lo riconosce per quello che era, paura di quello che avrebbe trovato.
Molly solleva il mento, bellicosa. – Cosa ha trattenuto voi dal venire prima?
La luce negli occhi di lui è quasi insostenibile. Comincia a sfilarle le forcine con cui si è appuntata il cappello. L’abilità e la delicatezza del gesto danno l’impressione che l’abbia già compiuto in passato. Magari con altre donne. La puntura di gelosia è scortata da un fiotto d’acido.
– Volevo lasciarti libera di scegliere.
Il passaggio al ‘tu’ potrebbe passarle inosservato, dato il contesto distraente, ma Molly è un’osservatrice nata e su un dettaglio del genere è impossibile sorvolare.  
- Scegliere cosa?
- Che volevi esattamente quello che volevo io, che ne valesse la pena, che non fosse solo un gioco.
- Se pensavi che per me fosse un gioco – ribatte con foga - significa che non mi conosci abbastanza.
- È molto probabile – riconosce lui docilmente. Troppo docilmente. – Ma a questo possiamo rimediare.
Molly segue ipnotizzata la parabola del cappello che cade sul pavimento, presto dimenticato. Poi l’immensità di ogni altra possibile riflessione è destinata a lui, alle mani che le ha poggiato ai lati del viso e che potrebbero contenerlo nella sua interezza, al modo in cui la sta guardando. Come un poeta guarda la persona a cui ha dedicato i suoi versi migliori, un inventore la sua scoperta più importante, un archeologo il suo reperto più prezioso, un pittore il suo dipinto preferito.
- Forse non dovremmo – mormora. È ancora la paura a parlare? Non ne è sicura. Non è più sicura di niente. – Forse dovremmo aspettare.
- Credo di aver aspettato abbastanza – ribatte lui con un mezzo sorriso impudente. – Credo di star aspettando dal momento in cui una certa ragazza ha deciso che il modo migliore di chiudere l’affare con cui mi aveva appena ceduto uno dei suoi quadri era di baciarmi. O forse sto aspettando da quando una pittrice troppo seria ha dipinto qualcosa che non avrebbe dovuto, solo perché poteva e sono stato costretto a seguirla per farmelo restituire. Ho deciso di smettere di aspettare quando, dopo averla cercata per mesi e aver minacciato la sua proprietaria di casa di orribili ritorsioni, quando avevo abbandonato l’idea di ritrovarla e mi stavo convincendo che fosse stata un’allucinazione prodotta dal troppo assenzio, mi sono imbattuto in lei nell’ultimo luogo in cui mi sarei mai aspettato di incontrarla. Sono stato sicuro che non avrei aspettato un giorno di più quando l’ho sentita rispondere a tono ad un ubriaco e quando ha pronunciato il termine ‘necroscopia’ come se si trattasse di una parola come un’altra.
Sherlock le sfiora col pollice l’angolo della bocca, quel bagliore impossibile nei suoi occhi non si è affievolito.
Molly posiziona le mani sugli avambracci di lui, domina il languore che sente partirle dalle ginocchia. – Davvero hai minacciato la signora Thibault di orribili ritorsioni?
Quando lui la bacia, è probabilmente quello il momento in cui l’attesa finisce. È come in uno spettacolo di burlesque, con le canzoni e i giochi di prestigio che sono meri intrattenimenti per tenere impegnati gli spettatori fino alla parte del cancan. Tutto ciò che lo ha preceduto, il quadro, la malattia, la serata all’Inferno è stato solo il prologo.
Si separano (Molly non è abbastanza pratica di baci per sapere se sia stato lui a iniziare e lei abbia continuato o viceversa), Sherlock le dà un ultimo bacio gentile e poggia la fronte contro la sua.
Dopo un po’ lui si disincastra con delicatezza dall’abbraccio e come se stesse facendo violenza a se stesso, si allontana da lei.
Il distacco brucia violento anche dentro di lei. È bastato così poco? Che ne è stato della sua indipendenza? Come può un bacio riscrivere l’asse attorno a cui gira il proprio mondo e farlo slittare? Ma il punto è proprio quello, no? Non è stato il bacio, semmai è stato il quadro.
Con poche manovre Sherlock si sfila il cappotto e lo appende alla testata del letto, apre la finestrella e si accende una sigaretta. Il profilo severo che si staglia contro la vista dei tetti a spiovente parigini, l’incarnato latteo e l’occhio ferino, la curva decisa della mandibola e la linea elegante della mano ogni volta che la porta vicino al volto per aspirare. Molly vorrebbe dipingerlo.
- Perciò è qui che vivi?
Lo osserva mentre prende nota dell’estensione esigua del solaio e lo valuta criticamente.
- È qui che dormo – replica Molly.
- Potrei aiutarti a trovare una sistemazione migliore.
- Perché?
Lui scrolla la testa. – Non credo di poter dormire in un posto del genere.
- Ferisce la sensibilità dei tuoi lombi?
- Solo quella della mia schiena. Quando dormo – l’occhiata e il tono di lui sono inequivocabili, al punto che Molly sente una vampata di calore arrossarle le guance – pretendo un letto degno di questo nome.

Sfacciato e presuntuoso. – Vedremo – dice Molly e quello mette la parola fine alla questione.

 

 

IV. (1892-93)

 

L’incontro con la locataria di Sherlock è qualcosa che Molly non dimenticherà mai e per il quale ancora si diverte a stuzzicarlo, di quando in quando. Prendere in giro Sherlock, insieme a ritrarlo mentre dorme, sono le occupazioni che predilige negli ultimi tempi. 
Verso la fine di marzo, Molly si ritrova a bussare al portone azzurro polvere di un’elegante palazzina sita al numero 18 di rue du Bac, nel quartiere di Montparnasse.
La signora che viene ad aprirle indossa un abito di una delicata tonalità di lilla e la scruta con comprensibile curiosità, ma, quando Molly si presenta, sul viso le si spiana un sorriso di evidente contentezza e batte le mani come una bambina in preda all’esultanza per la prospettiva di un nuovo balocco.
– Molly? – ripete. Suona deliziata e costernata. – Quella Molly? Oh, mia cara, non sai che gioia sia! È stato di umore orrendo per mesi. Per non parlare del Natale! Una cosa agghiacciante. La casa puzzava terribilmente.
Sherlock, probabilmente richiamato dal frastuono, scende di corsa le scale e arriva nel momento in cui la Signora Hudson sta decantando le sue lodi, sperticandosi in complimenti sul suo aspetto. – Oh, guarda questi occhi! Così espressivi! E questi zigomi! Che mani e che piedi fini e che pelle morbida!
- Mme Hudson – la richiama con un’espressione di monito che pare invitarla a contenersi entro i limiti della rispettabilità – sembra che non abbiate mai visto un’appartenente del vostro sesso, prima d’ora.
La risposta di lei non si fa attendere. – Ma mai scortata da te, ma chère! Prendi quell’adorabile dottore, ad esempio. Lui mi presenta ogni ragazza che porta a casa.
La signora sospira e si volta per rivelarle con un lieve colpetto di gomito e un’aria di complicità: - Non durano a lungo.
Molly si vieta di ridere, anche se l’espressione straziata di Sherlock è esilarante.
Quando salgono nell’appartamento, però, è colta da una sensazione di vertigine che altera la realtà, snaturandola in qualcosa di completamente diverso, la cui configurazione è tipica dei suoi sogni.
Sherlock le è accanto in un attimo e la costringe a sedersi sulla poltrona di pelle di fronte al camino. Pavimenti di legno tirati a lucido, tappeti persiani, carta da parati con gigli stilizzati, librerie rientranti le pareti, un basso tavolino davanti a un monumentale divano di pelle rossa (“Un Chesterfield” le dirà più tardi Sherlock con voce vibrante di autocompiacimento). Molly batte la palpebre e la manipolazione si distorce in qualcosa di nuovamente concreto. Nessuna carta da parati, ma pareti dipinte di verde con strane decorazioni di libellule e fiamme, quadri e libri a perdita d’occhio, un piccolo scrittoio antico con una macchina da scrivere e un posacenere di marmo a forma di mano, la scultura in bronzo di un leone e per fermacarte la testa di un gargoyle.
- Sto bene – si costringe a dire a Sherlock, ma lui fa orecchie da mercante. Le massaggia i polsi con strofinamenti decisi, dopo averle sbottonato i polsini della camicia e le fa poggiare le gambe su un’impalcatura di cuscini che si reggono per volere ultraterreno su un poggiapiedi.
Una tazza di tè più tardi, Molly riesce a fare un po’ d’ordine nel ginepraio che ha in testa. Si sforza di sorridere. – E così è questa la tana del lupo.
Sherlock le allontana una ciocca di capelli dalla tempia e si china a baciargliela. Molly avverte il sorriso di lui premuto contro il sopracciglio. – Immagino di sì – lo sente dire.

 

 

Il salotto è talmente simile da sembrare il riflesso falsato di quello reale, il rispecchio di un’immagine su una superficie curva di bronzo scurito dal tempo. Così simile che Molly si aspetta che sia Sherlock ad attraversare l’arco a muro che si apre sul piccolo corridoio che porta alle altre camere. Ma non è Sherlock a fare il suo ingresso. È un uomo dalla faccia oblunga, perfino più castigato e austero nella sua giacca grigia, che le fa chiaramente avvertire, dal modo in cui la saluta, che, se solo dipendesse da lui, preferirebbe essere esonerato dall’obbligo della sua vicinanza.
La odia, questo è lampante; ce lo ha scritto negli occhi, duri come pietra serena.

“Se lei fosse morta,” lo sente dire alla Molly del Sogno, “lui la mitizzerebbe come una divinità, piangendola senza mai farsi una ragione della sua scomparsa. Morta. Sarebbe meglio se lo fosse. La morte non può essere contraffatta, non c’è ritorno. No, lei è viva. È il fantasma più vivo di tutti i tempi ed è questo fantasma che lui insegue, non smetterà mai di inseguire.”
“Perché?”
“Qual è il lato positivo dei miraggi?”
“Ne hanno uno?”

L’uomo ha una smorfia che è la quintessenza della dicacità. “Inseguire un miraggio fa dimenticare l’asperità del deserto, la miseria, la solitudine.”
“Solo fino a che dura.”
“No, solo fino a quando non si decide che è arrivato il momento di svegliarsi.”
Svegliarsi, pensa con panico Molly. Vorrebbe farlo, per poter abbandonare il Sogno. Prova a forzarne le pareti, urla la sua rabbia al nulla. Il Sogno è una gabbia, lo è sempre stato. Soltanto che lei non lo aveva mai capito prima.
“No,” conclude l’uomo. “Una donna viva porta con sé la peggiore delle sciagure.”
“Quale?” è costretta a chiedere, secondo il copione del Sogno. O del Ricordo?
“La speranza.”

 

 

È in una cella, di nuovo. Riconosce il sangue secco che colora le pareti, che nel riverbero delle torce diventano macchie di rame. Il buio respira, tutto attorno a lei. Suona come i singhiozzi di un bambino. Molly si muove a tentoni e inciampa nella figura accovacciata di qualcuno.
Uno strano fiammifero, un sottile filo di metallo con la punta che arde, mantenuto da dita scarne, incendia istantaneamente il buio e Molly incrocia un paio d’occhi cangianti, costernati quanto devono esserlo i suoi.

“Sei tu. Sei tornata davvero.”
“Korax,” esala. 

Il sorriso di lui è una lama bianca. “Ti ricordi.”
Certo che si ricorda, ma è frastornata. L’ultima volta aveva lasciato un ragazzino, ora è un giovane uomo quello che le sta davanti. Non dimostra più di diciassette anni. Senza pensarci, gli tocca la punta del naso. Lo sente trasalire. “È come essere toccati dal vento,” commenta lui.
Molly smette all’istante e lui la guarda curiosamente. “Non ho detto che mi dava fastidio.”
“Che fine ha fatto la maschera?”
“L’ha presa Lei.”
“Ed è Lei che ti ha fatto rinchiudere qui? Perché?”
“Per via di quello che succederà domani.”
“Cosa succederà?”
“Ci sarà la Cerimonia di Passaggio.”

Il tono che ha usato non lascia presagire nulla di buono.
“In cosa consiste?”
La osserva e il messaggio è chiaro: davvero non lo sa? Come può non saperlo? Ciononostante non indulge in commenti. Torna a sfregarsi le mani, che hanno abrasioni ancora fresche sulle nocche, come se lui avesse preso a pugni il muro. “Dicono che è un rito, ma in realtà è una scelta. Puoi scegliere di morire e rimanere te stesso o scegliere di vivere e perdere tutto ciò che sei.”
“Che vuol dire?”

Lui deglutisce, evita il suo sguardo. “Domani la strega mi chiederà di servirla, diventando un Qohèlet. Se accetto dovrò vederla bruciare la mia maschera e lasciare che mi sottopongano alla scarificazione.”
“Non intendi accettare?”
“Sai cosa fanno? Perché si chiamano così?”

Molly fa cenno di no.
“Sono Radunanti e sono gli unici a cui è permesso uscire da Selimbria. Vanno negli altri mondi e prendono…”
“Cosa?”

“Bambini. Prendono i bambini. Qui non ne nascono. Nessuno è davvero di Selimbria, nessuno appartiene all’Inferno. Nessuno lo lo merita, ma è dove finisce lo stesso, solo perché altri hanno deciso che doveva essere così.” Lo dice con voce piatta, ma il tremore alle mani, ora serrate a pugno, tradisce la portata del suo rancore e della rabbia che cova.
“Korax.”
“Domani morirò.”
“No!”

I suoi occhi azzurro-verdi hanno una luce vulnerabile. “Dove ci siamo conosciuti, Molly?”
Conosce il suo nome. Come può? “Lo sai,” risponde l’Altra Molly e alla Molly del Sogno sembra inspiegabilmente impaurita.  
“No, non è vero. Forse vale per me, ma tu mi conoscevi già da prima. Dimmi la verità. Cosa vuoi che succeda? Domani a quest’ora sarò morto.”
“Non dirlo.” Molly lo ha afferrato per il mento. Esita un istante, come in preda a un ripensamento, si china in avanti e finalmente lo bacia.

Il pallore di lui si tinge leggermente, diventa rosato sugli zigomi pronunciati. “Perché lo hai fatto?”
“Perché non morirai,” risponde lei con decisione.

Il bambino che indossava per maschera un becco di corvo è scomparso, così lo hanno seguito il ragazzino e il giovane uomo. L’uomo, che ha sempre le sembianze del corvo, ma non indossa più maschere con lei, le rivolge un sorriso pigro e caustico. “Di sicuro ho un buon motivo per non farlo.”

 

 

È nella camera da letto di qualcuno. È una stanza a pianta esagonale, con una moquette rosso vino e tende di damasco appese alle portefinestre. Al centro troneggia una gigantesca culla bianca. 
“Korax?” chiede Molly. “Dove siamo?”
“Non ha importanza.”
“Cosa stai – Oh, Korax.”

Korax esce dall’ombra delle tende. È vestito interamente di nero, tra le braccia, macchia nitida e bianchissima la coperta di lana in cui lo ha avvolto, stringe un neonato.
“Faccio quello che mi hai detto. Sopravvivo.” La voce neutra, gli occhi spenti che sono cavità senza luce.
A entrambe le versioni di se stessa, l’Altra Molly e quella che Sogna, si spezza il cuore. Lui ha avuto la libertà che cercava, ma in cambio ha dato la coscienza.

 

 

Sherlock è proteso pericolosamente oltre la balaustra della finestra, in vestaglia e piedi scalzi. Contro il fondale della notte più nera, sembra un’apparizione soprannaturale. Nel dormiveglia, Molly aggrotta le sopracciglia. Manca qualcosa.
- Un violino – mormora.
Al suono della sua voce insonnolita, lui si volta, torna a sedersi sulla sponda del letto e si allunga a toccare in punta di dita la sua spalla nuda.  
- Nel sonno ti sei agitata parecchio.
Molly gli concede lo spazio di manovra necessario perché si stenda e poi gli poggia la testa nell’incastro tra spalla e gola, dove sente risuonare le parole ogni volta che le pronuncia.
- Un sogno – dice, come se fosse il chiarimento che fuga ogni dubbio.
Sherlock comincia ad accarezzarle i capelli. – Che genere di sogno?
- Non mi va di parlarne.
- Perché?
- Perché sei così bravo a togliere cappelli e disfare ganci e lacci del corsetto?
Non voleva chiederglielo, ma l’insistenza di lui l’ha infastidita e questo è il risultato. Le carezze smettono all’istante e Molly si ritrova a lottare contro un freddo che poco dipende dalla temperatura dell’ambiente e tutto con l’assenza delle mani di Sherlock dalla sua pelle.
- Cos’è questo? – lo sente domandare nel buio. La voce è colorata dall’irritazione e Molly si chiede come debba apparire quella che sicuramente gli ha acceso gli occhi. Fiamme blu, come i fuochi fatui delle leggende nelle
highlands.   
- Dipende da cosa intendi con ‘questo’.
- Cosa stai facendo?  
- Cercavo di riaddormentarmi, ma se vuoi possiamo proseguire questa conversazione retorica.
- Sai di non essere la prima.
Sì, lo sa, ma una cosa è percepirlo, saperlo con ogni fibra del proprio essere e un’altra è che sia lui a dirglielo, il tono improvvisamente calcolatore, artico.
Sospira, si accorge di star tremando malamente nel lenzuolo troppo leggero. Le coperte devono essere da qualche parte sul pavimento, scalciate durante il sonno proprio da lei. – Lo so.
- Come io so di non esserlo per te.

Cosa? – Che stai dicendo?
- Andiamo, Molly – taglienti, coltelli lanciati a tradimento nel favore delle tenebre, le parole di Sherlock la raggiungono. – Non è il mio nome che pronunci quando dormi.

No?  
Il suo silenzio deve trasmettergli qualcosa di quanto sta provando, minima trasposizione del precipizio in cui sta cadendo, perché, come si era allentata, la presa di lui torna, calda e confortante, ma non basta a diventare la scala che lei dovrebbe risalire per uscire dallo strapiombo. – Tu davvero non lo sapevi. Com’è possibile che non lo sapessi?
- Che nome?
- Molly…
- Il nome, Sherlock.
- Korax.
La giostra di immagini che le ha orbitato attorno negli ultimi mesi, sfuggente e oscura, le gravita addosso in un colpo che pesa come piombo. Non sono mai stati sogni, pensa atterrita. Erano ricordi.
Si prende la testa tra le mani, un respiro di ghiaccio le ha agguantato il cuore. Sherlock è una statua di sale, d’un tratto le pare irreale quanto le sue fantasie. Cos’è vero? E cosa non lo è?
Gli racconta tutto. Dei sogni, delle sensazioni che perdurano al momento del risveglio e che il sole non riesce a stroncare, del falso riconoscimento che l’ha colta quando è entrata per la prima volta nel suo appartamento. Idee falsificate, come quella che il cielo sia del colore sbagliato o che le macchine di ferro che stanno trionfando tra coloro che possono permettersene il possesso dovrebbero correre sulle strade di sopra, in alto sulle loro teste. Navi che solcano il cielo e non la terra.
- Sogno cose impossibili – conclude, in preda a un terrore e a un’angoscia crescenti. – Conservo ricordi di luoghi in cui non sono mai stata, di persone che non conosco perché non esistono. Ho ricordi che non mi appartengono e … - mi pare di impazzire.
Sherlock ha accolto la sua confessione con il massimo controllo e se c’è un freno alla sua moderatezza, lei non lo ha ancora portato all’esasperazione. – Cosa credi che siano? – parla e ragione con calma, a sangue freddo, non tradisce ansia o agitazione per le sue rivelazioni.
La risata a cui si abbandona suona alle sue stesse orecchie aspra, febbrile, da folle. – Allucinazioni? Deliri? – ipotizza. – Non lo so più.
- Credi davvero di essere pazza?
- Non so più in cosa credo.
È la verità e fa male, ma le sembra che ogni cosa abbia tre facce, tre dimensioni, tre piani di realtà. Tutto è un vaneggiamento e lei è allo sbando.
- No, non è vero – la sbugiarda Sherlock. La afferra per le spalle, le dita affondano nella carne, imprimendovi tanta forza da procurarle trafitture di dolore. La scuote fino a che lei non riacquista un briciolo di lucidità. – In cosa credi, Molly Hooper?

Già, in cosa? - Credo in ciò che posso vedere e toccare, di cui è comprovata l’esistenza. Credo nella scienza e nell’arte.
Il verso sbuffante di lui è derisorio. – Fino a pochi secoli fa la scienza veniva chiamata magia e l’arte era considerata una truffa. Credi anche nel vento? Eppure non puoi vederlo.
- Posso sentirlo – replica lei in tono d’ovvietà.
- E quando non puoi sentirlo?
- So che esiste.
Non capisce il punto né dove lui voglia portarla, ponendole quelle domande.
- Perché? – insiste Sherlock. – Come fai ad esserne così sicura?
- Perché so che la sua esistenza non dipende da me o dai miei desideri. La mia esistenza non influisce sulla sua.
- Esattamente!

Esattamente, cosa? Molly lo segue con gli occhi mentre si alza e comincia a camminare in tondo per la stanza come spiritato, con le mani a trapassarsi i capelli.
- Sherlock?
Lui si volta, nella penombra le ricorda qualcuno. Qualcuno posseduto dalla stessa energia travolgente, una dinamicità senza arresti di alcun tipo. Molly scaccia il pensiero e non vi si sofferma. Non vuole quei sogni, non più.
- Non vedi, Molly? Non capisci? Sono solo sogni, ma sono i tuoi sogni. Sei tu a sognarli. Come puoi dire che non ti appartengono?
Molly si porta una mano alla fronte, sospira, esausta. – Ne stai facendo una questione epistemologica.
- Perché lo è – una carezza di rassicurazione, il respiro di lui vicino a lei è vero, non una manipolazione della propria mente malata o disturbata o chissà cos’altro. – Se anche non lo erano prima, sognandoli te ne sei appropriata. Ti sei conquistata il diritto di chiamarli tuoi.
Molly rimane in silenzio, rigida nell’abbraccio di Sherlock. Decide che per il momento è meglio non parlargli delle frequenti epistassi che solitamente seguono i sogni.

L’episodio non conduce a variazioni significative nel suo rapporto con Sherlock, se non l’uso di un vezzeggiativo che lui ha creato appositamente per lei, da usare nei momenti di maggiore tenerezza o intimità.
Mon petit rêve, la chiama. Il mio piccolo sogno.

 

 

Incontra Mycroft Holmes esattamente un anno dopo che è iniziata la sua relazione con Sherlock. È al corrente del fatto che lui abbia un fratello maggiore e che i loro rapporti, mai diplomatici e compromessi da punti di vista discordanti, si siano irrimediabilmente deteriorati dopo un incidente risolutivo intorno al quale Sherlock preferisce non dilungarsi o fornire dettagli scomodi.
Si aspettava un uomo come Sherlock, vistoso ed anticonformista al parossismo, ma basta un’occhiata per farle capire che quest’uomo, impeccabile nel completo d’alta sartoria e di un’eleganza sobria e ricercata quanto quella di Sherlock è moderna e disinvolta, è di ben altro stampo. L’imperturbabilità di uno è indagata e portata avanti come un’esplorazione in itinere, nel caso del secondo, invece, è una terra da tempo sottomessa.
Porta un’orchidea come fiore all’occhiello della redingote e ha un bastone da passeggio. Nota raffinata è la spilla preziosa che fa da fermacravatta.
Per un attimo Molly si sente intimidita. La tenuta comoda in cui è abbigliata, gonna nera svasata a campana e ampia camicia bianca che è appartenuta a Sherlock e che si è arrotolata per amor di praticità sugli avambracci, è del tutto inappropriata ad una visita formale, ma consona all’attività a cui si stava dedicando.
Dovrebbe porgergli la mano, ma lui la precorre, stringendo le sue sul bastone da passeggio e rendendo inequivocabile che non trova necessario seguire l’etichetta, non con lei.
– Immagino che voi siate Miss Hooper.
Ha pronunciato il suo cognome all’inglese. Molly non lo corregge. – Molly – ribatte con semplicità. – Non ci sono Miss qui, Monsieur.
L’uomo annuisce, la scruta con occhi insondabili e freddi. – Non credevo che mio fratello se ne sarebbe trovata un’altra così presto.
La cattiveria gratuita di quell’affermazione la fa quasi sussultare. Il suo viso deve tradire il turbamento che prova o Mycroft Holmes deve essere una persona attenta alle sfumature quanto lo è il fratello perché il suo sorriso assume un accenno di vago compatimento. – Dalla vostra espressione è facile dedurre che non ne sappiate nulla.
- Difatti è così. Non so nulla, ma voi siete evidentemente desideroso di mettermene a conoscenza, perciò perché non procedete? Sono tutta orecchi.
Una lunga pausa le fa sperare che l’argomento cadrà, la temerarietà con cui gli ha detto di procedere e che ha lanciato come un guanto di sfida non verrà accolta. Speranza vana. Lui si è solo momentaneamente focalizzato su qualcosa che si trova alle sue spalle, gli occhi hanno individuato il disegno al quale sta lavorando e poi il quadro che recentemente Sherlock ha spostato dalla collocazione sopra al camino, sui cui ora domina uno specchio dalla cornice dorata, ad uno spazio meno individuabile, ma sempre di riguardo, tra due scansie. – Noto che nonostante i cambiamenti, quello è rimasto.     
Senza che lui aggiunga niente, Molly capisce e si riscopre a fissare con occhi all'improvviso consapevoli la donna dalla bellezza dirompente che vi è raffigurata. La Donna, quella che è stata la prima. E dire che l’ha avuta sotto il naso sin dal principio…
- Irene Adler – la informa Mycroft. – Precedente infatuazione di mio fratello. Una seduttrice impenitente. Lo ha lasciato per un Conte appena pochi mesi prima che entraste in scena voi. Sherlock ha smesso il lutto piuttosto precocemente, ma suppongo che ci siano necessità e bisogni che il tempo da solo non può assecondare.  
Molly solleva il mento e fissa senza gentilezza il fratello di Sherlock. Non ha intenzione di nascondere l’antipatia che nutre o trincerarla come lui dietro maniere posate e insulti ricercati. – Non sono un rimpiazzo. Se Sherlock mi avesse dato questa impressione, lo avrei già lasciato.
- Mio fratello è un uomo singolare e ha un carattere volubile, esacerbato dai vizi in cui gli piace ricadere con ricorrente saltuarietà.    

Dipendenze a cadenza irregolare, ma persistente come devono esserlo le sue visite, pensa Molly. - Sarà una caratteristica di famiglia.
- Miss Hooper…
- Molly.
- Sono disposto a concedervi un’equa rimunerazione se sottoscriverete un contratto in cui accettate di non rivedere mio fratello né di associare il vostro nome al nostro.
- Intendete pagarmi – Molly pronuncia con deliberata lentezza – per farmi sparire di scena?
Non le occorre ascoltare una pomposità di più. Lo mette poco cortesemente alla porta e ritorna allo scrittoio. Stringe i bordi del ripiano da lavoro fino a farsi dolere le articolazioni, ma non versa una lacrima. Le lacrime sono sempre state per lutti e sogni.  

 

 

- Sai – dice una mattina come un’altra a Sherlock, intanto che zucchera il caffellatte – ancora non ho capito che genere di occupazione svolgi. Alle volte ho come il sospetto che tu sia una specie di baronetto in incognito. Una rendita a cui attingere in segreto spiegherebbe il tenore di vita che riesci a mantenere, pur non avendo che lavori sporadici.
Da quando lo frequenta, infatti, Molly lo ha visto pubblicare dietro lauto compenso una serie di articoli di stampo liberistico o dalle tematiche scottanti su gazzette e giornali radicali; vendere un poema sinfonico a un giovane compositore; guadagnare con scommesse clandestine su gare di galli o puntando alla roulette; interessarsi a listini, quotazioni, titoli azionari e indici di Borsa; condurre esperimenti con magneti infilzati su sugheri galleggianti in una bacinella; impartire lezioni private di tedesco, inglese e latino a collegiali che danno mostra di venerarlo e insegnare famose arie italiane a un aspirante tenore. Lo ha visto maneggiare il denaro con la disinvoltura della media borghesia e la noncuranza a disfarsene che è prettamente aristocratica. Ha visto gente arrivare e andare alle ore più strampalate del giorno e della notte, che viene a chiedergli consigli e avvisi su questioni di qualsiasi sorta.   
Stanno facendo colazione nell’appartamento di lui con i croissant e il caffè bollente che la Signora Hudson non manca mai di far loro trovare, trincerandosi dietro la scusa della sua presenza. “Una giovane graziosa come la nostra Molly va vezzeggiata, ma chère!” è la reprimenda affettuosa e burbera che solitamente rivolge a Sherlock in quei casi. Molly ama il momento in cui, non appena la signora volge loro le spalle o esce dall’appartamento, Sherlock le soffia sulla bocca “Nostra?” rifacendole il verso e poi, correggendosi, ripete “mia” un’infinità di volte. 
- Questo farebbe di te la mia amante? O la mia mantenuta? O magari la mia governante?
Sherlock è apparentemente preso dall’ennesimo articolo che sta leggendo sull’Affare Dreyfus, ma riesce comunque a scansare la traiettoria della babbuccia che lei gli ha lanciato contro.
Molly è speranzosa. I sogni non popolano da mesi le sue notti, sono come scomparsi; il loro ricordo è affievolito e ha nascosto i dipinti che hanno ispirato in un posto sicuro. Ha appeso i pennelli al chiodo e si concentra sui disegni anatomici per Mike.
Nell’attesa che il passato le frani addosso, cerca di godersi il presente e di non pensare troppo al domani.

 

 

V. (1894-99)

 

Molly adora i Tableau vivant e buona pace se questo la rende, come sostiene Sherlock, inguaribilmente prevedibile. Entrambi sono ormai considerati presenze assidue nei caf'conç, specie se Le Chat noir, lei perché attratta dagli esercizi acrobatici e dal teatro d’ombre, lui dal funzionamento delle macchine teatrali; entrambi sono rallegrati dalla reciproca compagnia e da coppe di hypocras o assenzio.
È il 20 dicembre 1894 ed è stato un inverno atroce che ha tenuto Parigi in scacco, costringendo per settimane la città che non chiude occhio all'immobilità forzata. 
Sherlock entra, usando la chiave di riserva che lei gli ha dato, scortato dagli strepiti sdegnati della signora Thibault che si rincorrono dal pianterreno. Non si è preoccupato di scrollarsi di dosso la neve e questa ha lasciato pozze d’acqua nell’atrio e lungo le scale.
- Madame Bouchard rischia di trovarsi dell’arsenico nel liquore alle ciliegie che nasconde nella sua cappelliera, un giorno o l’altro.
Molly lo riceve con un mugugno, concentrata com’è sul Trattato di Laennec che Mike le ha prestato. Ormai è abituata al nomignolo che ha affibbiato alla sua padrona di casa. Signora Bocca larga, non può dire che non sia veritiero. 
- Cosa stai facendo?
Gli indica il paragrafo a cui è arrivata e che sta trovando particolarmente stimolante. - Sapevi che il volume del cuore è uguale al volume del pugno del soggetto?
Sherlock si sfila i guanti e chiude la mano attorno alla sua, che è impegnata a mantenere in equilibrio il testo sulle ginocchia. – Perciò il mio cuore è più grande del tuo.
Lei fissa vacuamente il dorso della mano di Sherlock, che è di un bianco marmoreo, privo di imperfezioni o incisioni. Incisioni? Con un tuffo di apprensione, per distrarsi dalla direzione pericolosa a cui quel pensiero può condurre, Molly si concentra sulle scatole che lui ha portato. – E quelle? Sembra che tu abbia svaligiato una boutique.
Con la solita trascuratezza per ordine e simili, Sherlock ha trovato posto ai suoi acquisti dove capitava, rendendo il solaio ancora più angusto e pressoché inagibile per la profusione di cofanetti e pacchetti che ora lo riempiono.
- L’addetto alle vendite non se ne è lamentato.
Molly sorride. – Vorrei ben vedere.
Sherlock si sfrega le mani e poi, con aria da cospiratore, prende la scatola più grande e gliela mette davanti, invitandola ad aprirla.
Sotto strati fruscianti di carta velina, le dita di Molly tastano la consistenza morbida e setosa di un abito da sera.

- Andiamo a teatro,
mon petit rêve.

 
 

L’abito è in satin avorio e ricami, con rose disposte a ghirlanda e uno strascico che le risulta difficile riuscire ad apprezzare quando pensa all’attenzione con cui dovrà muoversi per non rischiare di inciampare nei suoi stessi piedi.
Quando esce dalla camera da letto, il collo privo delle perle che Sherlock ha tirato fuori dal suo Bai yan chu, armadio cinese a cento occhi, senza alcun ornamento all’infuori degli orecchini di sua nonna, lo sente discutere animatamente con qualcuno.
Molly fa il suo ingresso nel salotto e lo sconosciuto smette all’istante di parlare. È un uomo biondo, di statura media e con portamento marziale, che, notandola, inarca le sopracciglia e dirige occhiate di strabiliata meraviglia ora a Sherlock ora a lei.
- Molly – Sherlock si interpone per fare le dovute presentazioni e se nota l’assenza delle perle (ovvio che sì, è Sherlock) non ne fa parola – questo è Monsieur John Watson. John, questa è Mademoiselle Molly Hooper.
Molly gli porge la mano e sorride con educazione. – Così voi siete l’inquilino del piano di sopra.
John Watson, il dottore di cui la signora Hudson non smette di parlare come l’altra faccia della mela dei suoi “cari giovanotti”, acclamato donnaiolo, le fa un perfetto baciamano. – Incantato. Se avessi saputo di essere diventato coinquilino di una simile… – comincia a dire, ma Sherlock lo interrompe con un secco: - Giù le mani.
Il dottore ride, come se quello di Sherlock fosse un loro gioco personale. – Vi teneva nascosta al mondo? Com’è possibile che non ci siamo mai incontrati?
- Orari incompatibili – la anticipa Sherlock. – Molly ha l’assurda concezione che il tempo non vada sprecato in serate di baldoria sfrenata e che l’alba sia l’ora migliore per dipingere.
- Dunque fate la pittrice.
- Faccio quanto mi è concesso dai mezzi e dalle abilità che mi illudo di possedere – replica Molly, non lasciando trapelare la malinconia. L’ispirazione è come scomparsa, perciò si sta dedicando anima e corpo al perfezionamento dei disegni anatomici. – Al momento sto collaborando con il dottor Stamford dell'Hôtel-Dieu.

L’accenno a quella partecipazione non intende essere uno sfoggio di vanità o egocentrismo, ma una verifica. Lo studio delle reazioni che solitamente si accodano a quell’infelice uscita, quasi sempre le fanno decidere se è il caso di approfondire una conoscenza, coltivandola, oppure di troncarla sul nascere. La simpatia provata nei confronti di John Watson assume una venatura di rispetto, vedendo la naturalezza con cui accetta la notizia come un dato di fatto.
- Deve risultarvi impegnativo – afferma con espressione seria, smettendo l’abito da consumato adulatore e indossando quello del medico. - Avevate esperienze precedenti in tal senso?
- Non ero mai entrata in una sala chirurgica prima, anche se ho una certa dimestichezza con l’ambiente ospedaliero. Mio padre esercitava la professione di medico.
- Stamford, avete detto? Non sarà Michael Stamford?
- Lo conoscete?
- Abbiamo studiato insieme.
- Dobbiamo andare – interloquisce Sherlock.
Molly nota che nel frattempo ha già indossato l’Havelock sopra lo smoking – camicia di un violetto scuro invece di una bianca, per distinguersi dalla massa - e che, eccezionalmente, ha sotto braccio un cilindro nero (sa quanto odi i cappelli in generale e i cilindri nello specifico). Cerca di nascondere un sorriso che Sherlock, tuttavia, è lesto a cogliere. – Togliti quell’espressione, Molly. Sembri un gatto.
- Non del Cheshire, spero – replica lei, tra il serio e il faceto.
Sherlock le porge la mantella, quindi si rivolge a John: – Continueremo il discorso un altro giorno. Porto Molly alla
Société Nationale de Musique.
L’altro annuisce. - Si tratta di quell’esecuzione che si rifà al poema di Mallarmé?
Mallarmé? – Ascolteremo qualcosa che è ispirato a “Il pomeriggio d’un fauno”? – domanda Molly, elettrizzata. Ne ha sentito parlare, ma non credeva, non sperava…
Sherlock alza gli occhi al soffitto, ma appare soltanto vagamente risentito. – Ti ringrazio, John.
- Oh – fa lui con autentico dispiacere. – Doveva essere una sorpresa?
Questa era l’intenzione, sì, Molly glielo legge nello sguardo. Mallarmé. Non riesce a crederci.
- È uno dei tuoi poeti preferiti – afferma Sherlock.
Difatti è così. Lui, insieme agli altri poeti parnassiani animati dal concetto comune de
«l'art pour l'art», le sono cari al cuore.
Molly rimane in silenzio, non riesce a spiegare l’enormità di quanto sta provando. Piccoli tasselli, come tessere di un enorme puzzle, vanno al loro posto. Sherlock, che sa che le piace la marmellata d’arance, che predilige le rose gialle e i vestiti bianchi, che ama tutto ciò che è romantico, anche se è contrario alla sua natura prudente. Sherlock, che ha finto di avere corrispondenze ed esperimenti e letture da ultimare per rimanere alzato insieme a lei quando il timore di dormire, sognare, era troppo grande per abbandonarvisi. Sherlock, che le ha fatto una moltitudine di regali, ma mai, neppure una volta ha preteso che lei li utilizzasse o glielo ha chiesto. Sherlock, che apprezza la sua libertà e non fa nulla per limitarla o circoscriverla, che la lascia essere se stessa sempre, non chiedendole nulla in cambio. Sherlock, che alla sua decisione di continuare ad essere affittuaria dell’appartamento in Le Marais, ha accolto la notizia senza una protesta.
Sherlock, che ha sondato gli abissi dentro di lei, solitudine, paura, vergogna, mortificazione, sconforto, senza avvilirla per averli provati. 
Sono insieme da due anni. Due anni di Sherlock, con Sherlock. Sherlock.    
È in quel momento, afferrando quanto profondamente lui abbia decodificato i cardini del suo carattere, abbia interpretato correttamente la sua necessità di avere spazi suoi, spazi salvi in cui non dovesse contenere l’estro creativo e potesse ritornare ad essere la Molly selvatica della campagna, è assimilando queste verità che Molly capisce di amarlo.
La voce le trema un poco, ma è un fremito che passa inosservato o, sarebbe più giusto dire, su cui, per riguardo a lei, lui sceglie consapevolmente di sorvolare, quando Molly conferma: - Lo è.
  
Sherlock le porge il braccio e Molly lo prende con la massima dignità. Non può sapere di essere di colpo impallidita né che il suo sguardo, da assorto che normalmente tende ad essere, si sia fatto d’un tratto radioso, quasi abbia trovato un’ancora nella figura d’uomo che le sta al fianco.  

 

 

Lei è lì. Durante l’intervallo, prima della replica del brano la cui richiesta è stata accolta dal compositore, Molly la nota per caso nella folla degli altri ospiti ed è come essere colpiti da un fulmine a ciel sereno. Il sorriso gioioso le muore sulle labbra, le gambe le diventano inarticolate come tronchi d’albero.
Lei. Irene Adler. Splendida e agguerrita, valchiria sanguinaria, una sirena che seduce i marinai con la malia del suo canto, stordendoli in un abbraccio carnale che non conoscerebbe fine se non fosse la morte a strapparglieli dalla braccia. Trascina in gorghi di sensuale pericolosità. Non c’è garanzia di porti sicuri, non ci sono promesse. Solo quella di un attimo di sublimazione, l’occasione di una volta soltanto, unica ma perfetta.
Lei è perdizione, attrazione irresistibile, il fascino rapace di una notte di luna nuova, nera nel nero. Una favola rosso sangue. 
I capelli lucidi e scurissimi, gli occhi scattanti che perlustrano la sala
d'Harcourt in cerca di conoscenti o visi su cui valga la pena soffermarsi, la disinvoltura con cui riesce a muoversi in quel vestito di raso dalle spalline troppo basse e che le lasciano scoperta una buona porzione di petto e spalle. Calamita l’attenzione. Suo è quel tipo di bellezza che pretende riconoscimento dal consesso, ma non ne ricerca approvazione. È una figura eccentrica e al contempo esuberante e per un attimo, richiamato dalla rassomiglianza, le sovviene il ricordo di come le è apparso Sherlock la prima volta che lo ha visto. Leopardo nero. Un uomo disposto a dare il mondo alle fiamme per la giusta causa. O la persona giusta.
- Molly.
Sherlock la richiama con gentile fermezza e lei si accorge di aver perso il filo del discorso e che ha smesso da tempo di ascoltare il racconto dell’Ammiraglio che lui le ha presentato. Si affretta a porgere le sue scuse, ma da quel momento lo splendore della serata le si sfilaccia tra le dita e lei ne osserva, manchevole, il disfarsi.    

Alla fine del concerto, attardandosi mentre aspetta che Sherlock ritorni con la sua mantella, gironzola per la sala che va svuotandosi. Oltre una colonna di marmo, un ampio tendaggio cremisi nasconde parzialmente alla vista l’accesso discreto ad un’ulteriore sala, di dimensioni assai più modeste, arredata da un lampadario a gocce, poltroncine d’epoca e un maestoso camino sormontato da una grande specchiera da parete con la cornice d’argento. I capelli che appaiono tanto più chiari, soffusi di una luce avorio, quale malinconica apparizione è mai. Il pallido spettro di giovane donna che vi è riflesso ha l’espressione di un cervo, poco prima che il cacciatore gli spari. Ha combattuto, ma riconosce l’imminenza della sconfitta e scopre, forse, che in vita sua non ha atteso che il sopraggiungere di quell’ultimo e decisivo sparo.   
È lì che lui la trova, le spalle rigide e gli occhi asciutti, ma le guance ancora umide che serbano il ricordo fresco del disincanto.

“Forse amai un sogno?*”

 

 

“Coppia addio; tra poco
L’ombra io scorgerò che diveniste.”

*Il pomeriggio di un fauno

 

Quella notte non dorme. Sa che, se lo facesse, l’inquietudine mobiliterebbe i sogni. La trascorre in salotto ed è lì che la scopre, l’indomani mattina, Sherlock.
Appunta come se volesse fissarseli nella memoria i suoi capelli sciolti e scarmigliati, la vestaglia porpora che gli ha rubato e indossa sopra la vaporosa camicia da notte, i piedi scalzi sul pavimento su cui è seduta, le braccia allacciate alle ginocchia che tiene premute contro il petto in una parvenza di abbraccio.
Un sospiro annoiato. - Avresti potuto quantomeno accendere il camino.
- Non ho freddo – replica Molly.
È una bugia, ma Sherlock non la smaschera. Va invece al mappamondo di legno che contiene i liquori e si versa del cognac.
Molly segue i suoi movimenti, accigliata. – A quest’ora?
- Può considerarsi come un domani molto presto, ma anche uno ieri molto tardi – è la risposta enigmatica di lui.
Molly ritorna a fissare i quadri poggiati sulle poltrone. “Sfuggiva l’illusione, Fauno, dagli occhi azzurri e freddi, come Sorgente in pianto*.”
Sherlock le si appressa, si porta il bicchiere alle labbra come se intendesse bere, ma non ne prende un sorso. - È davvero così che appaio?
Lei lo osserva, di sottecchi. – Alle volte.
Gli occhi di lui si volgono dal quadro che lo raffigura a quello che ritrae Lei, vi si soffermano e si accendono di un bagliore nostalgico, ma che nulla ha di affezionato. – La bellezza l’ha avvelenata – dice senza rimpianto e brinda. – Requiescat in pace.
Settimane più tardi, lei capirà cosa intendesse. La bellezza ha corrotto Irene. Nel tuo caso, invece, ti ha reso sensibile a quella altrui.

 

 

- Cosa leggi, Molly?
Aspettando la prossima mossa di Sherlock, assorbito interamente dal goban, John volta il busto di tre quarti, poggiando il braccio sullo schienale della sedia. Si allunga a sbirciare il titolo sulla copertina. - “Il sogno” – legge.
Abbandonata nella poltrona vicino al camino, Molly non cambia posizione, volta pagina. È un giorno di pioggia e una lieve debolezza alle gambe l’ha convinta a reclamare per sé un pomeriggio di dolce far niente. – È di Zola. 
- Non avevo idea che fossi religiosa. Credi in Dio?
- Ho smesso di credere nelle divinità da anni – risponde Molly, serena. Non è un concetto nuovo, per lei. È stato più facile convincersi che tutto il dolore provato in vita sua, le innumerevoli perdite subite siano state il frutto delle macchinazioni degli uomini. Uomini che sbagliano, ottusi e caparbi. Errori umani, sì, quelli può accettarli.  No, gli dei non esistono e se esistono non potrebbe importarle di meno.
John la lascia con tatto alla sua lettura, tornando a prestare attenzione alle pedine del go. È un gioco orientale e Sherlock se ne è appassionato di recente, dopo aver letto un trattato scritto al riguardo dallo scienziato tedesco Oskar Korschelt.
Con disappunto di Molly, la conversazione tra i due uomini riprende esattamente dal punto in cui l’avevano interrotta.
– Mycroft è un dichiarato monarchico – afferma Sherlock. – Per questo odia Marianne.
- Tu no? – chiede John con un sorriso provocatorio.
Molly si scopre suo malgrado curiosa dalla risposta che darà. Tanti anni, pensa, e rimangono ancora innumerevoli misteri nell’uomo poliedrico con cui ha condiviso perfino i suoi sogni. Per ogni cosa che desume o impara di lui, le sembra che ce ne siano altrettante da scoprire.
- L’anarchia è pura utopia – il tono che Sherlock usa è accorto, ponderato. – Una pregevole, ma di fragile fattura. Non durerebbe a lungo. La democrazia, al contrario, parte da presupposti ragionevoli, ma la sua sete di uguaglianza e giustizia si rivela inattuabile nello zelo di equilibrio e cieca alla verità. Nessun uomo è uguale a un altro.

Nessun uomo è uguale a un altro.
Molly fissa vacuamente le parole d’inchiostro del libro. È una bugia, lo sa con cognizione di causa. Il problema è che non ricorda perché.

 

 

Come ogni anno, riceve una visita di Mycroft alla vigilia dell’autunno. John assiste per caso all’ultimo atto del dramma – è passato per invitarla a una passeggiata sulla sponda destra della Senna - e quando cerca di risollevarla, percependo quanto l’incontro l’abbia messa di cattivo umore, Molly si lascia scappare qualcosa sull’esserci abituata ormai, che la pratica l’ha addestrata e fortificata.
- Lo avevi già incontrato, in passato – evince John. Si tocca i baffi. – Sherlock ne è al corrente?
- Non ne sono sicura.
John la studia con una strana espressione. – Dunque è così. Ne sei innamorata ed è evidente. Malgrado ciò hai deciso di non parlargli dei tentativi di sabotaggio di Mycroft. Ai miei occhi appare come una grande dimostrazione di fiducia o della sua completa assenza. Ti fidi di lui?
- Ne ho ogni motivo.
- Non è una risposta.
Molly prende un respiro profondo. - So di poter fare affidamento su Sherlock. È in me stessa che non nutro particolare fiducia, non nella misura in cui dovrei o vorrei.
Osserva quella che considera casa sua da anni, in cui ha imparato ad amare e lasciarsi amare, che le trasmette una sensazione di tranquillità, ma non le dà sicurezza, non fino in fondo. – Non ci siamo mai promessi nulla.
Il viso di John è comprensivo. – Questo ti spaventa?
- Mi dà da pensare – ammette Molly con un sorriso minuscolo – e fornisce legna da ardere alla mia insicurezza cronica. Eppure lui non mi ha mai mentito né ha cercato di forzarmi ad essere qualcun altro. Onestà, accettazione, comprensione dell’altro, non è questo amore?

  

  

Onestà, accettazione, comprensione dell’altro, non è questo amore?
Il ricordo riecheggia dentro di lei e Molly lo ritrova nello sguardo di rabbia e pena che John le sta lanciando dall’altro capo della sala. Rabbia per quello che Sherlock ha fatto, pena per lei che l’ha subito. Si sente violata, defraudata di qualcosa che credeva sacro e puro. Come ha potuto?
(In attesa di commenti, si mangia le mani per il nervosismo mentre Sherlock, schiena piegata in avanti e dita che tamburellano sulle labbra chiuse, scompone analiticamente i disegni che gli ha mostrato e che sono disseminati per il letto.

– Li trovi macabri?
- Diversi.
- Bene. Diverso è bene, è meglio di noioso.
- Ne hai altri?
Il sorriso di Molly è sgargiante, le va da un orecchio all’altro. – Quanti ne vuoi.
)   
I suoi quadri, figli di sogni non voluti, le ammiccano dalle pareti di una saletta elegante, illuminata da una luce azzurrina. Rubati, trafugati a sua insaputa per essere dati in pasto al mondo.  

Come ha potuto?
- È un successo! – afferma Sherlock trionfante e Molly trema visibilmente, per un attimo sospetta di odiarlo.
Onestà.
Le ha mentito ignobilmente.

Accettazione.
Ha rifiutato il suo desiderio di proteggere quella parte di lei che Molly non sente come propria, ma che la rende la donna che è diventata. Aperta alle sfide, ai cambiamenti operati dal tempo e a quelle che in un’epoca passata erano da considerarsi trasgressioni.

Comprensione dell’altro.
Non ha voluto ascoltare ragioni diverse dalle sue. È il suo cuore, il suo sangue quello sugli affreschi. Lui non lo ha capito.
Non è questo amore?
- Come hai potuto?
Lo dice senza animosità, in un tono apatico che ha il potere di sortire un effetto ben più profondo in Sherlock. Forse ha penetrato appieno la portata del tradimento di cui si è macchiato, ma è troppo tardi.

Brancoliamo alla ricerca della verità, ma in ultimo è la verità a farci sanguinare e a segnare la nostra fine.
Concludendo, sì, Molly ha amato un sogno. 

 

 

La signora gentile le chiede di tracciare con del gesso il disegno di una porta sul tronco di una quercia.
Pur non capendo le ragioni dietro quella richiesta stravagante, Molly obbedisce.
La vede approvare il suo lavoro, una volta finito, avvicinarsi e ricalcarne i bordi con il ciondolo a forma di chiave che porta al collo. Il contorno della porta si illumina, c’è il rumore di uno scatto, simile a quello prodotto da una serratura che si apre, poi quella si spalanca verso l’interno, rivelando una landa di nebbia.
La signora le dice di rimanerle vicina.
“Giusto cielo!” Il suo brontolare è molto diverso da quello delle suore dell’orfanotrofio. “Diventa più buio e tetro ogni volta che ci metto piede.”
“Dove siamo?” chiede Molly. Sta battendo i denti per il freddo e si guarda intorno ad occhi sgranati.
“Povera cara, quel vestito che indossi non deve tenerti particolarmente al caldo. Ecco, prova con questo.” La signora gentile le porge il suo manicotto di pelliccia. Sembra sul punto di aggiungere qualcosa, ma gli occhi le cadono verso il basso. “E tu da dove sbuchi?”

C’è un gatto bianco e grigio che miagola e si struscia contro le caviglie di Molly.
“Oh, è tuo. Avresti dovuto dirmelo, cara,” le dice la signora con tono di lieve rimprovero.
“Ma non è mio,” obietta Molly. “Non l’ho mai visto prima!”

Nel momento in cui lo dice, però, si rende conto che non è del tutto vero. Lo prende in braccio e la signora annuisce con l’aria di approvare, prima di voltarsi e puntare il parasole contro la nebbia come un’arma impropria, per disperderla. Un istante più tardi, nella nebbia si apre un varco da cui avanza un uomo biondo che le fa venire in mente un soldato. Indossa i vestiti più strani che Molly abbia mai visto.
Anche la signora li sta osservando con malcelata riprovazione ed emette un verso afflitto.
“Da dove vieni?”
“Da quando,” rettifica lui, bonario. “Una versione della Terra, inizio XIX secolo. Aveva bisogno di alcuni ingredienti per i suoi esperimenti.” Nota Molly e la fissa con un’espressione comicamente terrorizzata.
“Non è bene fissare a quel modo, caro,” lo riprende la signora.
“Lui lo sa?”
“Ovvio che sì. Non si potrebbe nascondergli niente neppure volendo. Saresti così gentile da aprire per noi il passaggio? Ho un appuntamento per il tè con Betty, la signora Turner, ricordi? E ho una mezza idea che Molly, qui, desideri un bel bagno caldo e una buona dormita. Ti ho raccontato in che orribile posto fosse?”

La signora continua il suo sproloquio contro i religiosi e l’uomo, intanto, le fa un cenno d'intesa e prende un oggetto dal taschino. Ora ha una fiaccola rossa in una mano e nell’altra una specie di sfera di mercurio che cambia continuamente volume e forma, come una cosa viva e animata dotata di una propria coscienza. Camminano nella nebbia finché non arrivano a una porta, la targhetta fissata sopra l’imbotto recita in caratteri eleganti ‘Londra, XXIII secolo’.

 

 

Janine è l’allieva, cameriera personale e factotum della signora H.; ha capelli morbidi come il vello di un agnellino e occhi che bruciano come le foglie autunnali. Il suo famiglio è una salamandra che lei porta in una speciale cassetta appesa alla cintura, insieme al mazzo di chiavi della casa.
La aiuta ad ambientarsi, le mostra la biblioteca e le insegna come superare senza perdersi il primo piano fantasma, affittato ad una specie di stregone che vive in un’altra dimensione e che là lo ha trasferito. Le spiega che la signora H. è una fattucchiera specializzata in filtri d’amore e incantesimi di cuore e che da grande le succederà nella sua attività. Sottovoce le racconta che è stata sposata ad un uomo di fama terribile, ma anche incredibilmente affascinante, che gestiva un postribolo ad insaputa della moglie e usava i suoi sortilegi migliori per attirare con l’inganno i clienti, ubriacarli di sentimenti fino a svuotar loro le tasche.

 

 

Il signore con l’ombrello si presenta alla porta della signora H. con la puntualità delle stagioni. Ogni volta le rivolge tutta una serie di domande che la piccola Molly trova assai bizzarre. Dopo la prima volta impara a precederle e, nascosta nell’armadio a muro dell’anticamera, si copre la bocca per attutire le risatine che le sfuggono dalle labbra. Per lei è un gioco. La prima volta, ricorda, si era nascosta perché Janine l’aveva sfidata a non farsi trovare. Allora il tono del signore non era stato freddo e impersonale, ma brusco e carico di emozioni ballerine: dalla speranza al desiderio alla preoccupazione.
Dopo le prime visite, le domande si sono sfinate, riducendosi ad una.
“Nessun cambiamento?”
Di solito la signora H. snocciola i suoi progressi negli studi e l’uomo sbuffa, troncandola e dicendo, testuali parole, che ‘tutto questo è irrilevante’.
Una volta, visto che l’altra taceva, l’uomo ha insistito.
“Ebbene?”
La signora H. ha mormorato di sogni nella nebbia e di città con mura altissime.
“È iniziato.”
“È il momento, caro? Devo prepararla?”
“Non ancora, ma presto.”  

Quel giorno è diverso. L’uomo non dovrebbe essere lì, così come lei non dovrebbe essere nel guardaroba, ma d’altronde è stata una brutta giornata.
“Il dottore dice che non rimarrà alcuna cicatrice. Oh, cielo, credi che lui si arrabbierà molto?”
“Una cicatrice sul sopracciglio destro, avete detto.”
“Una ferita, caro. Si spera nessuna cicatrice. Come ti dicevo, il dottore mi ha assicurato che guarirà in due o tre settimane. In tempo per Natale!”
“È il momento.”
“Ma è Natale!”
“Per alcuni lo sarà di certo di più rispetto ad altri.” Dalla voce, Molly non riesce a capire se ne sia contento oppure no.
“È proprio necessario? È solo una bambina.”
“Lo siamo stati tutti. Tutti siamo stati solo bambini, fino al momento in cui qualcuno o una circostanza ci ha costretto a diventare altro. Ci assomigliano e per questo ci si aspetta che un bambino si comporti da adulto, ma ci si dimentica che deve ancora diventarlo. Le loro prime delusioni e ferite, nel nostro caso sono già cicatrici. È quel momento. È il momento in cui diventi ciò che è destinata ad essere.” 

 

 

Molly sogna e impara a muoversi nel sogno come nella realtà. Una notte, però, le pareti del sogno le si restringono attorno come le spire di un serpente. Spinge e spinge e sente un crack e l’oscurità cede sotto la pressione delle sue mani, arrendevole. Si guarda intorno, ansante, mentre la nebbia cala intorno a lei e intravede una scia di luci azzurrognole che galleggiano nello spazio vuoto. Le segue. Si ritrova di fronte a una porta. Bussa e dopo aver aspettato un ragionevole lasso di tempo, quando sta per allontanarsi, quella si apre.
Entra in un appartamento arredato spagnolescamente. Un uomo biondo, di cui ricorda confusamente il nome, le racconta la storia fantastica di Tre Facce, tre uomini che indossano un volto che non è il loro come una maschera, che hanno una potestà a cui sono vincolati, anima e corpo. Lei è destinata a trovare chi sostituirà Uno dei Tre, il cui dominio è il Tempo. La ricompensa in caso di riuscita, (è ancora una ragazzina e ci vuole una buona ragione per convincerla a rischiare la sua vita, qualcosa che non sia la parola ‘destino’ o ‘gloria’) se si sobbarcherà l’incarico, è un ricordo. Il ricordo di un giorno della sua vita, presente o passato o futuro, a sua discrezione.
Molly pensa ai suoi genitori, i cui i volti cominciano a sbiadire dalla sua memoria e firma il contratto magico con la penna di corvo che John e l’uomo con l’ombrello, Mycroft, le porgono.

 

 

Ci sono tre porte di fronte a lei. Una si apre su un bagno azzurro, una su una camera da letto, l’ultima su un corridoio. Il corridoio è infinitamente lungo, su ogni lato ci sono una sfilza di passaggi con didascalie prive di alcun senso logico per lei. Il Limbo. Il Bosco. Gutteridge. Una attira la sua attenzione. Ha il pomolo di cristallo e la dicitura recita ‘Archivio’.
È una stanza con le pareti imbottite e cornici con stucchi decorativi. Ci sono scaffalature su scaffalature, teche di vetro, mobiletti e scansie e mensole. Su ogni ripiano ci sono cuscini di velluto occupati da orologi che ticchettano, ma le cui lancette si muovono in senso antiorario.
C’è un orologio in particolare che attrae la sua attenzione, uno che non ticchetta. Molly lo prende, lo apre per studiarne gli ingranaggi e le lancette cominciano a muoversi come impazzite, il quadrante si illumina, la illumina. Istintivamente lei chiude gli occhi. Quando li riapre, si guarda attorno e reprime un tremito. Un cielo opprimente, palazzi fatiscenti, strade dissestate. Molly vede un’ombra strisciare verso di lei, all’imbocco del vicolo. Prende una pietra e si mette in posizione di difesa. La pietra le cade di mano e le rotola oltre i piedi. Si tratta di un bambino con un becco di corvo per maschera e la fissa a bocca aperta.

 

 

VI. (1902)

       

La cucina è spartana, ma confortevole, con il pavimento di pietra e un grande focolare in cui è acceso un fuoco invitante. Pentole di rame scintillante, utensili e una gabbia laccata di verde sono appesi alle travi del soffitto, insieme alla parte superiore di una credenza senza ante e ripiena di piatti dipinti a mano, un cappello a cono di paglia e una gerla con le cinghie di corda agganciate a dei rampini di ferro.
È sprofondata in una panchetta, ha le braccia incrociate su un tavolo rustico e lustro, a poca distanza da un trincetto, un pezzo di formaggio, degli ortaggi freschi e un recipiente di terracotta con una sola ansa, traboccante di giaggioli e viburni.
C’è una donna che armeggia di fronte al treppiedi con un paiolo che schiuma e che riattizza le braci. È bionda, bassa e formosa e ha gli occhi sagaci e briosi.  

“Perché hai smesso di viaggiare?" domanda Molly.
“Lo si fa davvero?” replica l’altra, senza voltarsi.

Molly può sentire il suo sorriso fisicamente, come se fosse un’essenza da cogliere.
La donna viene a sedersi di fronte a lei e comincia a tagliere con perizia le verdure. “
Arriva un momento,” le dice, senza interrompere quanto sta facendo, “in cui non importa cosa tu abbia fatto o non abbia fatto, tutto quello che vuoi è fermarti e riposare. Diventa un desiderio del cuore e quei desideri andrebbero sempre ascoltati perché sono i bisogni che il corpo non ha modo di esprimere. Io ho visto molte cose, alcune delle quali non avrei voluto vedere, altre così meravigliose che tuttora mi pare incredibile che non siano state frutto della fantasia. Non è stato facile e non è sempre stato felice, ma è stato il mio viaggio. Riesci a capire?”
Invero, Molly ci riesce. 
“Una volta che la bambina sarà nata, io non ci sarò più.”

Gli occhi di lei sono malinconici, ma rassegnati. Molly vorrebbe che non lo fossero, non la vorrebbe docile e rinunciataria. “Perché?”
“Il mio tempo è finito da anni. Altri hanno rinviato la scadenza per me e io ho finto di non sapere da dove provenisse il tempo in più che mi veniva regalato, perché l’ignoranza mi faceva comodo. Se ti dicessi che lo rubavo ad altri, cosa penseresti?”

Gli altri sono sconosciuti, persone senza volto e volontà. La donna di fronte a lei invece è reale e ciononostante, tra quegli sconosciuti può esserci stata sua madre. Può essere ai suoi genitori che lei, loro hanno sottratto del tempo. Molly sospira. “Non sarebbe giusto.” 

 

 

“Ricordo questo momento,” sente dire a qualcuno. Si rende conto con un attimo di ritardo, che si trova nell’arrangiamento modificato del salotto di Sherlock e che ci sono due versioni di sé. Una è trasparente e pare un fantasma, impercepibile ai presenti: lei sta sognando all’interno di quella.
La porta dell’appartamento si apre ed entra un uomo allampanato, dal colorito grigiastro e gli occhi infossati. “È in travaglio,” annuncia.
L’altra sé, quella più vecchia che ha parlato e che sta vivendo il momento, non ne è mera osservatrice, è totalmente votata all’uomo in nero che è piantonato al suo fianco. Gli sfiora la mandibola e per un istante Korax chiude gli occhi, sovrapponendo la mano di lei con la sua. Quando li riapre, vi brilla una feroce risoluzione. Si muovono come se avessero organizzato tutto nei minimi dettagli, agiscono come un sol essere. Lei prende una borsa da medico, lui fissa al taschino della giacca uno strano orologio a cipolla che assomiglia a un Cylindre remontoir. Li vede spostare un mobile e svelare una porta dell’altezza di un bambino. Ci entrano, scomparendo e così fa lei, svegliandosi.

 

 

Il risveglio è dolore e per la prima volta Molly prova quasi il desiderio di immergersi nella dimensione onirica dei suoi sogni. Lì il dolore è acuto e persistente come quello che potrebbe provocare un vestito troppo stretto, qui è un martellare prettamente fisico. Per quelle che le paiono ore, rimane sdraiata nella penombra del suo appartamento, stremata.
Ore o giorni dopo, si alza per lavare le lenzuola. Questa volta l’epistassi è stata copiosa.

 

 

Molly cara,
Sarò a Parigi per la settimana ventura insieme a Lilou. Abbiamo tante cose di cui discutere e vorrei una tua opinione riguardo una certa faccenda che potrebbe permettermi di lavorare nella capitale. Non ti anticipo nulla, ne riparleremo quando ci vedremo.

Con affetto infinito,
Tua Jill.

 

 

- Era da tanto che non ci si vedeva.
- Tre anni – rimarca lei, senza il disagio imbarazzato che sembra aver preso possesso dell’uomo che le è seduto di fronte.
- Tre anni? Sul serio? Diavolo, come vola il tempo!
È morto un secolo e ne è nato un altro, nel frattempo. Ci sono state le Olimpiadi e un’Esposizione Universale, un anarchico ha cercato di assassinare lo Scià di Persia, l’Australia si è resa indipendente dal Regno Unito, se ne è andata una Regina ed è salito al trono d’Inghilterra un Re, c’è stata la prima trasmissione transoceanica, la grazia ad Alfred Dreyfus, il trionfo del cinematografo dei fratelli Lumière, l’apertura di due stazioni ferroviarie e l’inaugurazione della Métro de Paris. Più importante del resto, lei ha fatto tana in una piccola struttura piena di finestre e atelier pullulanti di altri artisti, ubicata nel quartiere Vaugirard, dal nome evocativo de La Ruche.  
- John, se ti ho chiesto di incontrarci è per un motivo preciso.
- Un motivo che immagino non abbia a che fare con lui, vero?

Lui. Molly lotta contro il senso di vertigini, l’occlusione alla gola e alle vie respiratorie che il solo accenno a lui le sta provocando. Lui, malattia e veleno. Lui, bugiardo e impostore. Lui che, è venuta a patti nel corso degli anni, ha agito a fin di bene ed è incorso nel rischio del suo odio affinché anche il mondo riconoscesse i suoi meriti.  
John fraintende il suo silenzio come una possibile apertura, magari un ripensamento. – Non è stato più lo stesso dopo che te ne sei andata. Ha cominciato a girovagare tra l’Europa e l’Asia. Adesso è da qualche parte in Turingia, nelle zone di Erfurt o Jena. Un conoscente gli ha chiesto di valutare i suoi affari, per decidere se gli convenga investire nell’industria tessile in Germania. Dicono che tiri una brutta aria e si parla di ostruzionismo e antisemitismo.
Molly si porta una mano al viso. La sente intorpidita e subito la poggia sul tavolo, di fianco al piattino con i vari assaggi di Charlottes che ha ordinato, ma di cui non è riuscita a inghiottire che poche forchettate. – John.

- Se ne va in giro con un borsalino e pensa che si è anche preso un cane, un cocker spaniel nero. Lo ha chiamato Ventimiglia.
Lei sorride tristemente. Sherlock ha sempre avuto un’inclinazione per le citazioni e i riferimenti sottili. Non è un caso, quindi, che abbia scelto il nome Ventimiglia. Ventimiglia come la signoria de “Il Corsaro Nero”. La filibusteria è un punto debole di Sherlock, nel modo in cui lo è la sua riconosciuta idiosincrasia per i copricapi.   
John non sembra intenzionato a cedere le armi, acceso com’è dall’improbabile prospettiva di una riconciliazione. - Un cane, capisci? – esclama con un fervore che lei, francamente, trova eccessivo.
- Io ho preso un gatto – ribatte, atona. Non è questione di cani o gatti, ma di rispetto. Sherlock ha travalicato il limite di ciò che l’amore concede di fare in suo nome. - John, non ti ho contattato per rivangare i vecchi tempi, ma per un consulto medico.
Lui strabuzza gli occhi e finalmente non fissa gli interni verdi della brasserie solo per evitare di incrociare i suoi né gira a vuoto il cucchiaino con cui sta giocherellando da quando ha finito il suo Mont Blanc, nemmeno studia con interesse clinico gli altri avventori dagli specchi a parete. È lei che guarda, che adesso esamina nella sua interezza e Molly è desolatamente cosciente della misera visione che deve offrire.
- Non sarai…
John gesticola animatamente, fa cenni verso l’addome ed è il turno di Molly di spalancare gli occhi. – Cosa? No! Non sono… non aspetto alcun… - prende un respiro profondo e dice l’unica asserzione che sia vera: - Non c’è stato nessun altro.
- Mi dispiace.
Sembra sincero mentre si allunga a stringerle il polso, accarezzandole il dorso della mano e Molly scuote la testa e si morde le labbra.
- In effetti – prosegue lui, distogliendola dai pensieri legati a Sherlock – non hai una bella cera.
Il che, lei lo sa bene, è un eufemismo ed è esattamente la ragione che l’ha spinta ad organizzare quell’incontro. Ha collaudato il discorso un’infinità di volte, trovando in ogni prova qualcosa di ridicolo e stonato. John, credo di star morendo. John, credo di soffrire di una grave malattia. John, i sogni mi stanno dissanguando. John, ho paura.

- Voglio che mi visiti – dice tutto d’un fiato.
Se ne è sorpreso, lui lo maschera bene. Si limita ad annuire e a rivolgerle domande circostanziali e che Molly aveva preventivato come di rito.
Lo vede mutare espressione, mano a mano che gli offre risposte diverse da quelle che avrebbe voluto sentire. Incupito, si sfiora i baffi. Non un buon segno.
Lasciano la
Bouillon Racine a braccetto, sotto un cielo gravido di pioggia che comincia a rabbuiarsi e bagliori di saette all’orizzonte.
Quella notte un fulmine colpirà la Tour Eiffel. Quella stessa notte Molly avrà un collasso e la mattina successiva sarà portata d’urgenza all’Hôtel-Dieu.

 

 

È l’inizio della fine. O piuttosto la fine dell’inizio. Si trova in un limbo di nebbia e tenebra, con lei c’è un uomo dai capelli neri che si agita ai suoi piedi e urla in modo straziante, disumano, in preda a una sofferenza inimmaginabile. È come se lo stessero dilaniando dall’interno e Molly grida a propria volta, invoca aiuto. Ha ferite profonde che lei tenta di cauterizzare con il fuoco, ma per quanto riesca a bloccare il deflusso di sangue, le urla di lui non diminuiscono, il dolore pare amplificarsi invece di attenuarsi. Per ogni taglio che cura, se ne aprono altri due, come teste d’Idra. 
“Devi riportarmi a Selimbria” lo sente gemere. In uno scampolo di lucidità le ha afferrato il polso.
No. No! Molly scuote la testa. Ci deve essere un altro modo, ci deve essere! “No.”
“Ascoltami. Hai visto il marchio.”
“Lo brucerò.”
“Ci hai già provato e non ha funzionato. Ha il mio sangue ormai. Le ferite non si rimargineranno. Molly, fa’ come ti dico. Riportami là.”
“Non puoi chiedermelo.” Un singhiozzo. Voleva essere forte. Non ci riesce, non ora che l’incubo sta prendendo forma.
“Ti prego, Molly.”

Un altro singhiozzo. Non riesce a riconoscere se provenga da lei o da lui, ma ha qualche importanza? 
“Molly.”
Scompaiono per riapparire in quella città maledetta in cui tutto ha avuto inizio e in cui tutto avrà fine. Non capisce. Non è stata lei a portarli a Selimbria, allora chi?
Il bambino delle segrete abbassa il cappuccio e torna ad essere visibile. In mano ha l’orologio che lo qualifica al grado di Uno dei Tre, la carica che è stata di Korax. Le porte sono tutte sigillate, con l’eccezione di una rossa, sulla cui soglia aperta c’è la figura smilza di un uomo che sogghigna. Jim.
Korax ha smesso di urlare. Ora è un tipo di dolore diverso a farsi largo dentro di lui, è la consapevolezza di quello che succederà a breve.
Molly gli si inginocchia accanto e gli prende la testa per poggiarsela in grembo, scostargli i capelli dalla fronte, cancellare con le dita le rughe che il dolore gli ha scavato attorno alla bocca e ai bordi degli occhi annebbiati. Ma non è dolore, è tempo. Sono gli Anni che gli stanno ricadendo addosso, uno dopo l’altro, ora che il suo servizio è giunto al termine. Sulle nocche delle mani le incisioni sbiadite della scarificazione stanno tornando ad essere nere. Gli è stata restituita la sua vera età.
Lui accoglie le sue carezze con un sospiro di sollievo.
“Sei sempre stata troppo materna.”
Molly sente il cuore incrinarsi, sotto lo sforzo eccessivo del peso che sostiene.
“Molly.” La voce di lui ha lo stesso tono supplice di quando le ha chiesto dove si fossero incontrati e lei lo ha baciato per la prima volta.
Troppo tardi, vorrebbe dirgli. Ha fatto la sua scelta. “Verrò con te.” Lui ha uno spasmo, ma il sorriso ieratico che gli rivolge è irremovibile. “Non puoi impedirmelo.”
“Rimarrò qui piuttosto che lasciartelo fare.”

Le sta dicendo che preferisce morire. Le sue mani sono scosse da un brivido, ma non smette di toccarlo. Non può farne a meno. Potrebbe essere l’ultima volta, quella. L’ultima volta. “Non è giusto.”
“Separarmi da te non lo è mai.”

Molly si china in avanti, poggia la fronte contro la sua. “Cosa succederà adesso?”
“Le porte si apriranno un’ultima volta.”
“E poi?”
“Tu crescerai la bambina nel Bosco di Mary.”
“E tu?”

Lui non risponde, non che sia necessario. È un addio, quello definitivo.
Mi sarebbe piaciuto invecchiare insieme a te.
Jim prende Korax in custodia, lo mantiene in piedi e nel momento in cui perde la presa su di lui, Molly si abbraccia i gomiti e cerca come può di mantenere insieme i pezzi di se stessa. Non lo bacia. A che pro? Per ricordare ad entrambi quanto stanno perdendo?
Raggiungono la porta e le ferite di Korax cominciano a rimarginarsi, eppure lui non le è mai parso più esausto o ferito e vulnerabile.

Murato vivo, cantilena una voce dentro di lei, spietata e insistente. Murato vivo. Murato vivo.
E un’altra parola le si scolpisce a fondo nell’anima, sanguina come una ferita che niente farà guarire quando la porta si richiude sul viso di lui, non più inespressivo, ma specchio della disperazione di entrambi. Addio. 

 

 

C’è una casa, in un Bosco che è un sogno impossibile, dove tutto è il contrario di come dovrebbe essere. Il cielo è verde e l’erba è nera e gli alberi altissimi hanno tronchi lisci e fronde violacee che fremono sotto aliti di vento fantasma, sembrano danzare al ritmo immaginario di una musica che nessuno sta suonando.
Ci sono geni della natura che abitano i torrenti e le rocce e vivono nelle caverne che raggiungono il cuore della terra in gole profonde.
E c’è una bambina bionda con gli occhi azzurri che corre a perdifiato e ride, perdendosi nel recinto sicuro del labirinto che è il suo dominio e non sembra far caso al particolare che, là dove poggia i piedi o sfiora il fitto e intricato sottobosco, l’impossibile ritorna ad essere possibile e la realtà comune scalza l’irrealtà del fantastico. Lei che, pur così piccola, già impugna la verità come un’arma.
C’è una donna vestita di bianco, con un peplo che le copre il viso severo, che le fa da guardia, appollaiata sul ramo di un pino.
E c’è una seconda donna, al centro di una radura, nella casa che è una Locanda, che tritura erbe per le sue pozioni e inforna biscotti e scrive un diario che, a suo tempo, consegnerà alla bambina. E intanto ricorda una grande stanza mangiata dalla polvere, piena di orologi le cui lancette contano il tempo al contrario, non quello che scorre, ma quello che manca prima del ticchettio risolutivo, la nota di chiusura. Ricorda un uomo dagli occhi penetranti e del colore della tristezza che, andandosene, si è portato via metà di lei. E ricorda la donna di cui sta crescendo la figlia e mescola e mescola e i ricordi turbinano e si fanno meno precisi, il dolore che li accompagna diventa meno appuntito, rende quasi verosimile l’idea di sopravvivergli. 

 

 

Molly apre gli occhi e finalmente sa chi è e cosa non è. Vede facce amiche intorno a lei, che vestono il costume di quel tempo, di quel mondo senza sapere che è una maschera. Che vedono e non osservano. Che pensano di saper distinguere tra verità e menzogna, ma si perdono nel ponte grigio che sta in mezzo. Chiude per l’ultima volta gli occhi, ma non li riapre nel sogno. Anche il tempo dei sogni è finito e un nuovo ciclo inizia.
Si sveglia e tutto è rumore, luce. Galleggia nel vuoto. Fino a un attimo prima era in una bolla confortevole, ora la bolla è scoppiata e lei è stata catapultata altrove, in un posto pieno di giganti mostruosi e vocianti. C’è troppo colore, troppi suoni, troppo freddo.
- Molly - le sospira una voce all’orecchio. È una voce familiare, la stessa che le parlava nei recessi della coscienza quando si trovava nella bolla. Il suo pianto si placa. Anche la Voce è un gigante mostruoso, ma meno chiassoso. Sa di buono ed è caldo e morbido al tatto. Non quanto la bolla, ma può andare.    

 

 

Lei è morta. Sherlock arresta di colpo i suoi passi e poco gli importa se questo crea incomodo agli altri passanti. A centinaia di miglia di distanza da quella strada, in una città altrettanto straniera, lei si è appena spenta. Ha arrestato le sue funzioni vitali, che è un modo come un altro per dire che ha cessato di esistere, che tutto ciò che la rendeva lei, unica e speciale, si è estinto. Nello stesso istante lui ha ricordato. È troppo tardi.
Prende l’ultimo treno della giornata da una stazione affollata e sporca. A Parigi percorre con confidenza strade che guarda con occhi distaccati di estraneo, cercando la figura di lei che non troverà più, non là.
Ci sono tutti, tutte le persone che contano, anche se non sanno di esserlo, insieme a facce nuove. Non lo sorprende. In ogni vita lei è stata capace di creare nuovi legami, esplorare fino in fondo le capacità dell’epoca e del luogo. L’insoddisfazione che provano entrambi, come un parassita che si agita sottopelle, si manifesta diversamente, com’è normale che sia: nel suo caso si traduce nell’inadeguatezza dei rapporti interpersonali, la vaga e persistente ricerca di qualcosa che assorba la sua mente, un proposito, un traguardo irraggiungibile perché impossibile da definire.
Quando lo vede entrare nell’obitorio, sembra che John voglia tirargli un pugno. Non sarebbe una novità. Poi lo guarda bene in faccia e la collera annega di nuovo nel dolore. Ma è un dolore così misero, ridotto, meschino rispetto al suo. Cosa vuole saperne questa variante di John del dolore? Il vero dolore è ritrovarla quando lei è già andata via, è passata oltre, senza che lui possa raggiungerla perché non è ancora arrivato il suo momento.
John gli stringe la spalla con partecipazione. - Ha fatto il tuo nome prima di… - esita, la sua postura mostra un’incrinatura nella corazza. Ma è John ed è un soldato, anche se non lo ricorda, perciò è lesto a riprendere il controllo di sé. - Ha fatto il tuo nome – ripete e null’altro conta.
Sherlock annuisce. Ovvio. Anche lei ha ricordato. Il processo era iniziato da tempo, dai sogni, ma è giunto a compimento poco prima della fine.
– Altro?
- Vivi – risponde John con occhi incredibilmente bui, foschi. – Ma non so a chi fosse riferito.

Lui lo sa e tanto basta.
- Ha detto qualcos’altro – interviene una voce femminile e John si volta di scatto per incenerire la donna che ha parlato. L’atteggiamento, la carnagione e i colori chiari rassembrano Mary, ma è una somiglianza effimera che si arresta alla superficie.
- Cosa? – la sollecita Sherlock in tono spento. 
– Korax – dice e nonostante le premesse c’è un accenno di scusa, una richiesta di perdono nella voce di lei.  
Sherlock chiude gli occhi, sente i sentimenti scavargli la pelle tutto attorno. Oh, Molly. Molly mia.
Loro fraintendono e come potrebbero non farlo? Non hanno ragione di capire, non hanno cognizione di nulla. Vorrebbe fargliene una colpa, ma la verità è che non può. Sarebbe stupido, irragionevole. Inoltre non la riporterebbe indietro, non gliela restituirebbe.
Le mani di Molly sono gelide tra le sue; il suo volto è bianco e disteso. – Ha sofferto?
- Se ne è andata nel sonno.
Perciò è andata via sognando.
Le sfiora le sopracciglia, le guance, le labbra, i capelli che profumano di fiori. Le bacia il dorso della mano, il palmo. Cosa sognavi? Dov’eravamo noi, nei tuoi sogni? A che punto della storia?

Ho ricordato, vorrebbe dirle. Sono qui. Lei non si sveglia, non può sentirlo. È inutile. È troppo tardi.

 

 

- Non hai un non-luogo di cui occuparti, tu?
Svegliandosi, non saluta i due ragazzi che gli stanno facendo compagnia. Loro non sembrano dispiacersi per quella mancanza di convenevoli. D’altro canto ci sono abituati, lo conoscono e non si aspetterebbero trattamento diverso.
Veronica si scosta dal viso i lunghi capelli biondi che le sono d’impiccio e il sorriso fiero è la riproduzione esatta di quello che per anni Mary gli ha rivolto. – La famiglia prima di tutto.
- Dove sono gli altri?
Lei capisce subito a chi si riferisce. Si adombra percettibilmente. – Erano impegnati. Anche John, mi dispiace.
Sherlock le rivolge un’occhiata penetrante e lei arrossisce. Ecco, in questo è figlia di Molly e non di Mary. Mary avrebbe preferito il lapsus, l’errore piuttosto che l’abiura.
– Papà – si corregge lei, bofonchiando e torna ad osservare nel bacile. La sta cercando, sta studiando l’intera mappa dello spazio-tempo per trovarla e potrebbero volerci secondi come anni. La bravura non basta, a volte è una questione di colpi di fortuna, cercare nei posti giusti al momento giusto. Le probabilità sono tutte contro di loro, lo sono sempre state.   
Sherlock accarezza con gli occhi socchiusi la sagoma della persona dormiente distesa sul basamento di pietra. – La sua vita… com’è stata, questa volta?
Archie è in piedi accanto al piedistallo su cui è seduto lui, pronto a sostenerlo in caso vacillasse. I risvegli sono sempre duri da digerire, rischiosi.
- È rimasta sola a lungo – Veronica parla lentamente, cerca di non lasciar trapelare l’emozione. Ama Molly e lo stesso vale per Archie. Non è difficile crederlo. È così semplice amare Molly proprio perché è lei a renderlo facile; il difficile è convincersi di valerne la pena, di essere degni del posto che si occupa in un cuore che è generoso e disinteressato, che elude il principio del
do ut des. – Ha vissuto con intensità. Ha provato la disperazione, ma anche la felicità quando ti ha incontrato.
- Novità? – chiede. Meglio non rimuginare sul passato, è una lezione vecchia quasi quanto lui.
- Siamo ad una svolta – risponde Archie, senza nulla dell’esultanza azzardata che caratterizzava il ragazzino che è stato, ma con la posatezza che è propria all’uomo che sta diventando. – In questa vita vi siete conosciuti relativamente presto. Inoltre Ronnie è riuscita a controllare i suoi sogni.
Veronica fa una smorfia. – Odiava quei sogni, ma Archie ha ragione. La prossima volta avrò maggiori possibilità di manovra e –
- Scordatelo – la interrompe Sherlock.
- Ti avevo detto che lo avrebbe detto – gongola Archie.
Lei sporge le labbra, imbronciata. – Non abbiamo mai tentato!
- Per una ragione – replica Sherlock.
- Potrebbe avere effetti imprevedibili – gli dà manforte Archie.
Veronica non aggiunge altro, ma Sherlock è un osservatore, fa parte della sua natura e come Korax e come Uno dei Tre. È tale e quale a sua madre, entrambe le donne, sia quella che le ha dato la vita sia quella che l’ha cresciuta come propria. In virtù di questo, lui può prevedere che farà di testa sua a prescindere.
- Trovata! – la sente esclamare, a sorpresa. - Terra, Inghilterra, Londra, XX secolo. Bene, questa volta avrai l’elettricità.
- E l’acqua corrente – interviene Archie con un sogghigno.
- Per non parlare dei telefoni cellulari!
- E del tubo catodico.
- Rock e Tolkien!
- Einstein e Gandhi e lo sbarco sulla Luna!
- E guerre – si ridimensiona Veronica. – Un bel mucchio, in effetti.
Sherlock li ascolta, senza realmente ascoltarli. Dopo quarant’anni accarezza di nuovo il volto di Molly. Altri vent’anni e, se è abbastanza fortunato, potrà ascoltarne la risata.

  

 

“Com’è?” chiede la piccola Ronnie.
L’aggettivo ‘piccola’ non le si confà. Non è più adatto, riconosce Sherlock, se riferito alla giovane donna che gli sta di fronte. Bionda, alta e sottile, precoce e arguta, espansiva e mordace. E curiosa, come dimenticarlo. Tremendamente, testardamente curiosa.
Non è dimenticarla la parte difficile.”
Veronica annuisce con l’aria di capire. Forse può, quasi sicuramente non può. Ha davvero rilevanza?
No, non è dimenticarla la parte difficile, dice a se stesso. Perché ogni volta ha la sicurezza che lei ci sarà, che la troverà e farà in modo che occupi il posto nel mondo che è al suo fianco.

“Qual è allora?”
“È ricordare.” Ricordare di averla avuta rende tutto più complicato, rende impossibile convivere con il pensiero di non averla, accettare di non poter averla. Ricordare cosa sono stati insieme gli fa detestare cosa sono separati. Perché lui sa, nel profondo, che non averla è l’unico modo in cui può averla. È come funziona la maledizione. Divisi anche quando insieme, infelici adesso e per sempre.

 

 

La bambina spalanca gli occhi come finestre che si aprono per la prima volta sul panorama tutto da scoprire del mondo. Gli occhi sono bluastri, dello stesso colore delle piante di Myosotis (altra nomenclatura per classificare la Veronica Persica, il nontiscordardimé) che lui ha fatto recapitare nella stanza d’ospedale ore prima che annunciassero che il nome che avevano scelto era Veronica.
John è raggiante d’orgoglio e un’occhiata poco approfondita rende chiaro che ha bevuto un bicchiere di troppo del Porto Vintage che Lestrade gli ha regalato.
Mary gli tende la bambina, appellandosi alla giustificazione del suo esserne padrino e Sherlock non può tergiversare o svicolare dall’incombenza.
Veronica Watson chiude la manina attorno al suo indice, lo considera con il suo sguardo raziocinante e assurdamente saggio. L’azzurro dell’iride è acqua specchiante, specchio di specchio e Sherlock si ritrova catapultato al suo interno. Ricorda.

Un becco di corvo per maschera, una città senza porte, una ragazza vibrante e dalla personalità forte, una casa in un bosco, un orologio che non ticchetta, Tre Facce identiche che appartengono a tre uomini differenti, una maledizione che solo i ricordi possono spezzare.
Ci sono volti amici, alcuni antichi, altri recenti. In mezzo a loro, Molly brinda alla salute di madre e figlia e lui vorrebbe andare da lei e – ma può aspettare. Un minuto in più, dopo cento vite, cos’è mai?
Insopportabile, benedetta ragazza. Alla fine ha fatto di testa sua. Non più sogni e indizi, non le è bastato. Questa volta ha proiettato se stessa. Lei che è vera immagine, conduttrice del vero, ha pilotato la verità del tempo fino a loro. Lei che, già così piccola, impugna la verità come un’arma di dannazione e salvezza. Lei, degna figlia di sua madre.


 
N/A:

Detto sinceramente, non pensavo di arrivare fino a questo punto e spesso ho pensato che non avrei scritto la parola fine. Se siete ancora qui con me, ebbene, pionieri, a voi è d’uopo un GRAZIE e un SIETE MERAVIGLIOSI. Questa storia non vuole essere niente di che, nasce come una prova di coraggio, un trampolino di lancio per qualcosa di più grande e un pochino più complesso. Sono come minimo un paio di anni che intendevo scriverla e nel decidermi a farlo, ho voluto dimostrare a me stessa semplicemente che potevo, che, malgrado le paturnie e infinite paranoie, se mi ci fossi messa d’impegno avrei potuto portarla a conclusione e difatti così è stato. Non ci ho pianto sopra, anche se ci sono andata vicina xD, ho sudato mille camice e ci sono parti che vorrei riscrivere, altre che vorrei cancellare, insomma, le solite cose!

La mia scelta di non pubblicarla capitolo per capitolo è una questione di preferenza. Sono abituata al libro formato digitale e quando leggo qualcosa di lungo sui siti di fan fiction il dover premere continuamente la freccia per andare avanti, invece che procedere scorrendo in basso, mi fa ammattire. Mi auguro vivamente che questo non vi abbia creato disturbi e spero che la lettura sia stata qualcosa di gradito. Se volete e se avete un po' di tempo a disposizione, mi fareste immensamente felice dicendomi cosa vi è piaciuto o cosa non vi è piaciuto, se c’è una frase, un paragrafo, un pezzo in particolare che vi ha colpiti favorevolmente.

Io sono qui, come sempre, a vostra disposizione per qualsiasi chiarimento ;)


  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Ruta