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Autore: Darth Curunir    26/09/2015    1 recensioni
Le memorie dell'ispettore Javert, il grande antagonista del capolavoro di Victor Hugo. La vita di un uomo serio, riflessivo, austero, incorruttibile, puntuale, preciso, che tuttavia commette un errore, che si rivela essere il più grande della sua vita.
Dal testo: "Valjean non era il cattivo. Lo ero io."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Memorie di un ispettore
LA VITA DI UN INCORRUTTIBILE FANATICO
 
 
 
Nota: queste Memorie furono scritte dall’ispettore Javert in momenti diversi, man mano che i fatti accadevano. Questa caratteristica avvicina queste Memorie a un diario, benché privo delle formule comunemente usate nella scrittura di quest’ultimo.
 
 
 
Il mio nome è Gérard Javert, ispettore di polizia, e nacqui il 9 novembre 1779.
Nacqui in carcere, da una prigioniera gitana e da un rematore della prigione. Fin da bambino dimostrai qualità che, per un bambino nato fra malviventi e accattoni, erano straordinarie: possedevo un’eccellente memoria fotografica, ero abile con le armi finte per bambini (quali spade, rivoltelle, e baionette), ero un attento osservatore e avevo capacità analitiche eccellenti. Ma soprattutto, odiavo quella razza di zingari abbietti che mi aveva dato al mondo, e avevo un profondo rispetto per le autorità e per l’Autorità.
Queste mie capacità mi distinsero subito dagli altri bambini dell’orfanotrofio carcerario. Tuttavia, quando crebbi e divenni adolescente, in quel periodo in cui il bambino inizia a capire cosa davvero lo circonda, capii una cosa: io ero tagliato fuori dalla società.
Capii che per la società un bambino nato in carcere da una prigioniera cartomante non vale nulla, non è nulla, ancor meno che un bambino qualsiasi. Questa mia deduzione mi lasciò pieno di dolore, amarezza, e desiderio di riscatto. Ma poi, ancora più tardi, notai che, come me, due categorie di persone vengono escluse dalla società: coloro che la aggrediscono, e coloro che la servono. Così come gli zingari, i ladri, gli assassini non fanno parte della società, anche i poliziotti, gli ispettori, i gendarmi, ne sono esclusi, dovendola difendere.
Avevo da scegliere fra quelle due classi d’uomini: se minacciare, o proteggere la società. Guardai dentro di me, e il mio profondo senso della legge e dell’autorità mi fecero scegliere la via di difensore della società.
Per prima cosa, fui addetto alla sorveglianza, come guardia carceraria, della prigione di Tolone. Qui ebbi modo di capire la mente dei carcerati ancor più a fondo. Io ritenevo che chi aveva rubato, per una qualunque ragione, o ucciso, o si fosse ribellato, doveva essere punito, e tagliato fuori dal mondo civilizzato. Così, al mio rispetto dell’autorità, si aggiunse anche il mio odio verso le ribellioni, in tutte le loro forme (furto, assassinio, rivolta).
Nel bagno penale di Tolone c’era un carcerato che tenevo sempre d’occhio. Si chiamava Jean Valjean, ed era in carcere per furto di cibo, benché la sua pena fosse stata prolungata per tentata evasione. Quell’uomo aveva qualcosa che mi attirava, nel senso negativo del termine, e pensavo che da quella mente maligna potesse subito scaturire la miccia della ribellione.
Varie cose mi colpirono di quell’uomo: l’altezza, la robustezza, e la enorme forza fisica. Per Jean Valjean, un masso di cento chili era niente. È in persone come queste, mi dicevo, che nascono focolai di ribellione.
Nel 1815 (ero a Tolone da sei anni), Valjean fu rilasciato, e scomparve per il momento dalla mia vita. Più tardi seppi che aveva compiuto una rapina in casa del vescovo di Digne, e che aveva rubato una moneta a un bambino. Io continuai il mio lavoro di guardia carceraria, sperando che un giorno sarei diventato qualcosa di più che un secondino.
E cosi avvenne. Nel 1820, fui contattato dalla sede di polizia di un paese del nord della Francia, Montreuil-sur-Mer. Qui, iniziai a svolgere il lavoro di ispettore di polizia.
Le mansioni di tale mestiere si inserivano perfettamente nella mia personalità. Più volte mi fu detto che il mio rispetto nella legge, la mia conoscenza di questa, e le mie doti di poliziotto mi avevano fatto guadagnare tale posto.
Finalmente potei lasciare la odiosa divisa da guardia carceraria, e da allora girai sempre con una finanziera grigia, un bastone con pomolo di piombo, e con un cappello ben calcato. Il mio aspetto di fedele e incorruttibile servitore della giustizia metteva timore nei cuori dei malviventi di Montreuil-sur-Mer, timore accentuato dall’aura di mistero che mi avvolgeva: nessuno seppe mai né il mio nome, né la mia storia passata.
Il sindaco della cittadina era un certo signor Madeleine. Era un uomo onesto, buono, gentile con il popolo e, soprattutto, con i ceti meno abbienti della società. Poco o niente si sapeva sul suo passato, ma il suo carattere mansueto e gentile bastava a chiarire le idee sulla sua personalità.
Più d’una volta mi capitò di vederlo camminare per strada, durante una mia solita passeggiata o durante una ronda notturna. Avevo l’impressione di aver visto altrove quella faccia robusta, quel corpo forte, e quella gamba leggermente trascinata.
Compii ricerche sul signor Madeleine, e mi giunse voce di una famiglia scomparsa in qualche luogo remoto della Francia. Incrementai le ricerche, e per un momento credetti di averlo in pugno. Ma erano illusioni, e la mia memoria, sempre infallibile, non mi aiutava.
Del resto, Madeleine mi trattava con gentilezza e rispetto come tutti i cittadini, e di certo non mi potevo lamentare di lui. Tuttavia, continuavo a tenerlo d’occhio.
Un giorno, era lo stesso anno, passeggiando per la strada vidi che un vecchio industriale andato in rovina di nome Fauchelevent era rimasto schiacciato dalla sua stessa carretta, e rischiava di morire. Io osservavo la scena da lontano. Tutt’a un tratto apparve Madeleine, il quale si mise sotto la carretta e la sollevò di peso. Ebbi un fremito: conoscevo una sola persona in grado di sollevare un simile peso, Jean Valjean. Ecco dove avevo visto quel volto, quel corpo, quella gamba: nel carcere di Tolone. Era certo, Madeleine era l’ex-galeotto Jean Valjean!
Passò del tempo, e continuai a fingere benevolenza con Valjean, aspettando l’occasione buona per avere la conferma del suo passato. Un giorno, erano i primi di gennaio del 1823, passeggiavo per la strada, quando vidi una prostituta, di nome Fantine, con un vestito da sgualdrina e le spalle nude, che aggrediva il rispettabile signor Bamatabois. Intervenni subito e, presa per mano la ragazza, la condussi all’ufficio di polizia.
Conoscevo bene la legge, e sapevo bene che l’aggressione a un borghese significava minimo sei mesi di prigione.
Scrissi il rapporto su un foglio, firmai, e lo consegnai al sergente, dicendo di portare la puttana in carcere. Lei mi pregò, come del resto tutte fanno, di lasciarla, che aveva una figlia, e qui, e là. Non sono il tipo di persona che si lascia commuovere.
Ma ecco che entrò il sindaco Madeleine, che chiese la scarcerazione di Fantine. Questa gli sputò sul viso, deridendolo, e io rabbrividii: personalmente le avrei mozzato la testa. Ma Madeleine continuava imperturbabile a chiedere la scarcerazione, e, siccome egli era arbitro della polizia ai sensi del codice penale, aveva lui il coltello dalla parte del manico. Io resistetti, ma lui mi liquidò con un brusco “Uscite!”
E io uscii. Ma ero pieno d’ira. Era chiaro, quell’uomo era Jean Valjean: solo un ex-forzato poteva avere tanto a cuore una puttana. E io non avrei permesso che un galeotto mi trattasse come una cameriera. Così, lo denunciai alla prefettura di Parigi, accusandolo d’essere Jean Valjean.
Tuttavia, quando sporsi denuncia, colui con cui avevo parlato mi disse: “Impossibile. Jean Valjean è già stato catturato vicino a Ally-le-Haut-Clocher, per il furto di mele da un giardino. Pensate, ispettore, che l’uomo si faceva chiamare Champmatieu, ma una volta giunto alla prigione di Arras, dei carcerati lo riconobbero come Jean Valjean. Domani ci sarà il processo: è difficile che questa volta Valjean la passi liscia, sapete, v’è la recidiva! Ciò aggraverà la condanna, e di molto!”
Riuscii persino a convincere le autorità a farmi vedere questo Champmatieu: era vero, assomigliava a Valjean; ma non lo era. Avrei riconosciuto Jean Valjean fra migliaia di uomini, e colui che più v’assomigliava era Madeleine.
Tuttavia, non avrei ottenuto nulla continuando ad affermare che Madeleine era Valjean: per l’opinione pubblica, Champmatieu era Valjean. Così, decisi di sfruttare la situazione a mio favore: avrei porto a Madeleine le mie scuse per aver tentato di denunciarlo, dicendogli che il vero Valjean era stato catturato. Conoscevo l’ex-galeotto, e sapevo che il vero Valjean sarebbe corso ad Arras per chiarire il fatto, e confessare di essere il vero Jean Valjean.
Avrei pazientato. Avrei agito. Avrei catturato.
Così entrai in municipio, e parlai col sindaco. Gli chiesi la mia destituzione, e gli raccontai ciò che avevo fatto e ciò che avevo udito. Madeleine parve stupito di sapere che Valjean era stato catturato, e decise di non accettare la mia destituzione. Io insistei, dissi che avevo commesso un sacrilegio enorme per i miei fermi principi morali, ma Madeleine fu irremovibile. Tuttavia, io gli feci presente che avrei aspettato l’ordine di destituzione, e che avrei continuato il mio mestiere fino ad allora.
Così, continuai nelle mie mansioni, seduto alla mia scrivania ingombra di carte, timbri, sentenze, condanne. Avevo rilasciato la mia dichiarazione in merito al processo, sostenendo falsamente che Champmatieu era Valjean, e non mi sarei presentato al processo. Sarei rimasto a Montreuil, aspettando il ritorno di Valjean dal processo (sicuramente vi era andato) per arrestarlo.
Quella notte non dormii: in qualsiasi momento sarebbe potuta arrivare una notizia su Madeleine/Valjean. La mattina dopo, era da poco l’alba, arrivò tutto trafelato un gendarme, che mi rivelò quanto speravo: Madeleine si era presentato al processo ad Arras, e aveva rivelato di essere lui il vero Jean Valjean. Persino i suoi ex-compagni lo riconobbero. Ma la giuria lo aveva fatto andare, e ora Valjean stava facendo ritorno a Montreuil-sur-Mer.
In realtà, non era finita qui. Dopo il momento di sbigottimento del processo, l’avvocato generale si era reso conto che Valjean doveva scontare la sua pena, sindaco o no. Così, aveva scritto un mandato di cattura “della persona del sindaco di Montreuil-sur-Mer” da consegnare all’ispettore di I classe Javert.
Il gendarme mi porse il mandato. Lo presi, lo tastai. Finalmente, Valjean sarebbe stato mio.
Corsi verso la casa della prostituta Fantine (avevo saputo che Valjean era lì) ed irruppi nella casa.
Impossibile descrivere la mia gioia di uomo onesto e giusto nel pronunciare la frase: “Presto, andiamo!” Il galeotto che mi sfuggiva da anni era, ora, mio. Valjean mi disse che mi avrebbe certamente seguito in carcere, ma prima mi fece una richiesta: dargli tre giorni per recuperare la figlia della prostituta, gravemente malata. La bambina era stata affidata a vecchi amici di Fantine.
Risi in faccia a Valjean. Non ero il tipo d’uomo che cedeva a simili richieste idiote per pura compassione. Fantine chiese a “Madeleine” di prendere sua figlia, ma io le gridai in faccia che costui non era il sindaco, bensì uno sporco galeotto. Ed ella morì.
Valjean volle pregare sul cadavere, ma io non avevo tempo da perdere. Allora, il forzato divelse dal letto una delle sbarre, e mi minacciò dicendo di non disturbarlo. Lo lasciai fare, standolo a guardare.
Valjean parlò alla morta a bassa voce, poi mi seguì in penitenziario. Fu sbattuto in cella, e io potei tornare all’ufficio di polizia, segnandomi sul mio registro dei malviventi catturati il nome di Jean Valjean.
Eppure, quella stessa notte, tutto l’ufficio di polizia fu scosso dalla notizia che Valjean era scappato, distruggendo le sbarre della sua cella. Alla guida di una pattuglia mi misi a cercarlo, ma non lo trovammo in tutta Montreuil-sur-Mer.
Quand’ecco che, la mattina seguente, mi giunse la notizia che Valjean era stato nuovamente catturato, e riportato al bagno penale di Tolone, dove avrebbe pagato per le sue colpe.
Passarono i mesi. Poi, un giorno di ottobre di quello stesso 1823, un sergente mi portò un giornale di Tolone, dicendo che mi sarebbe interessato. Lessi una notizia pazzesca: Jean Valjean, che prestava servizio a bordo di un vascello, aveva salvato un marinaio dall’annegamento. Tuttavia, il galeotto era caduto in mare, e il suo corpo non era stato ritrovato. Estrema dipartita di Jean Valjean!
Non potevo non essere felice. Nel nostro mondo, ciò che non è compiuto dagli uomini viene fatto da Iddio: era chiaro che, se noi uomini non avevamo condannato a morte quell’effigie del male, l’aveva fatto il buon Dio, che lo aveva ritenuto giusto. Insomma, quante colpe aveva commesso quel dannato Valjean? Innumerevoli! Tante da riempire per metà il mio registro: furto di cibo, tentata evasione, furto di argenteria in casa di un vescovo, furto di una moneta da quaranta soldi a un piccolo savoiardo, furto di mele da un giardino (quest’ultimo in realtà era Champmatieu). Valjean non si era meritato di vivere.
Qualche giorno dopo, arrivò una lettera della prefettura di polizia di Parigi, indirizzata all’Ispettore di I classe Javert. La aprii.
“La prefettura di polizia di Parigi invita formalmente l’Ispettore di I classe Javert, nato il 9 novembre 1799, a recarsi nella città di Parigi per adempiere al suo ruolo di Ispettore di I classe nella capitale. Cordiali saluti…”
L’ennesimo successo di Javert. Ancora una volta, le mie capacità eccelse mi avevano guidato verso un lavoro ancor più importante e rispettabile. Accatastai i miei vestiti e i miei numerosi oggetti personali (rivoltelle, spade, ritratti, sentenze passate, quaderni, registri), misi tutto nella mia valigia di cuoio e partii per Parigi.
Avevo già visitato una volta la capitale francese. Mi diede l’impressione di una grande città, piena di bellezze, ma io non avevo tempo di fiutare bellezze. E non appena arrivato subodorai che, in luoghi oscuri di Parigi, s’annidavano malviventi a bizzeffe, che aspettavano solo Javert per andare in galera.
Una notte (non ne sono sicuro, ma credo fossero i primi del 1824), passeggiavo dalle parti del Mercato dei Cavalli, in zone poco consigliabili a persone disarmate, pullulanti di malvivenza. Da quelle parti c’era una catapecchia affittabile a chiunque, la catapecchia Gourbeau. Quella notte passeggiavo lì davanti, con la mia finanziera, il mio cappello e il mio bastone. Quand’ecco uscire dalla catapecchia (saranno state le dieci dopo mezzodì) un uomo, avrà avuto quasi sessant’anni, con una bimbetta. Aguzzai lo sguardo: chi poteva uscire con una figlioletta a quell’ora della notte, in posti come quelli?
Era Jean Valjean.
Sì, era lui, era proprio lui, benché cercasse di nascondere il suo volto, era esattamente lui, com’è vero che sono Javert! Lo osservai di nascosto, mentre lui si avviava in direzione opposta.
Valjean non era morto. Di certo si era salvato a nuoto, quella volta a Tolone, aveva avuto una bambina, o l’aveva presa da qualche parte, e poi era andato a Parigi. Ma questa volta non mi sarebbe sfuggito.
Tanto per cominciare, dovevo accertarmi che fosse davvero Jean Valjean. Così, la notte dopo, mi vestii tutto di stracci, nascondendo il mio volto, e finsi di fare l’elemosina vicino a San Martino. Quella notte vidi di nuovo Jean Valjean, questa volta solo.
L’uomo si frugò nelle tasche. Siccome ero seduto, riuscii a vedere il volto. Era proprio lui. Mi diede una moneta, e lo ringraziai.
Per qualche notte continuai a fingere l’elemosina, per continuare a esaminare quel volto che non era affatto cambiato. Poi, decisi di agire.
Una sera chiesi alla vecchia padrona della stamberga Gourbeau di affittare una stanza per una notte. Pagai, e poi mi diressi su per le scale. In una di quelle camere c’era Jean Valjean. Mi fermai davanti a una porta, in ascolto. Non v’era alcun rumore, forse dormiva. Così entrai nella mia stanza, riguardando il mio registro per tutta la notte e riflettendo sul da farsi. La mattina dopo, mi sarei nascosto dietro a un albero davanti alla stamberga, aspettando che Valjean uscisse per catturarlo.
La mattina dopo uscii dalla stamberga e mi recai all’ufficio di polizia. Dissi che avevo visto Jean Valjean, pericoloso forzato creduto morto (nessuno osò dubitare del mio fiuto), e che mi serviva una pattuglia per catturarlo. Con il mio seguito di gendarmi, mi recai alla stamberga. Restammo nascosti dietro gli alberi tutto il dì: di notte, Valjean sarebbe uscito.
E così avvenne. Erano passati un po’ di minuti dal tramonto, quando Jean Valjean uscì con la sua bambina. S’intrufolò in vie strette e spezzate, con l’aria di un uomo braccato: e così era, perché noi lo seguivamo in silenzio. Valjean doveva avermi visto il giorno prima, e ora lo avevo stanato.
Dopo una corsa per tutta Parigi, vidi Valjean entrare in un vicolo cieco. Dissi ai miei uomini di frugare là dentro: non aveva speranza di fuggire. Eppure, quando entrammo nel vicolo, il forzato e la sua bambina non c’erano più. Scomparsi. Ma dove?
Rientrai nella stazione di polizia, adirato e furente. Ora, Valjean iniziava a stancarmi. Da quasi dieci anni quel dannato era ricercato, e tutte le volte mi era sfuggito, in qualche maniera. Ora, iniziava a diventare una questione personale. Javert non poteva fallire così. Avrei catturato quel miserabile, l’avrei sbattuto in galera e avrei gettato via la chiave. Jean Valjean doveva essere mio.
Per un bel po’ di tempo, di Valjean si persero le tracce. Passarono quasi sei anni dalla sera in cui lo avevo inseguito, e ancora l’uomo non era stato visto. Non che non avessi lavoro, anzi: a Parigi era tornata a colpire una banda criminale chiamata “Patron Minette”, e la polizia aveva il suo bel daffare con quei miserabili.
Era il 1829 quando, un giorno, un giovane avvocato di nome Marius Pontmercy venne alla stazione di polizia. Quel giorno io sostituivo il commissario di polizia, e Marius mi rivelò che, nell’appartamento accanto al suo, dei malviventi stavano derubando un certo signor Leblanc, e lo avrebbero forse ucciso. La faccenda puzzava tremendamente di “Patron Minette”, e la casa in cui avveniva tutto ciò era nientemeno che l’antica stamberga Gourbeau, al numero 50-52. Mi venne in mente Valjean. Che c’entrasse in qualche modo quel dannato in tutto questo?
Ad ogni modo, dovevo agire. Dissi a Marius che sarei arrivato sul posto per le sei (ora prestabilita dai malviventi per l’uccisione di Leblanc) con una squadra. Ci saremmo appostati dietro agli alberi, attendendo uno sparo per agire. Il colpo di pistola avrebbe dovuto esploderlo lo stesso Pontmercy, e gli diedi due rivoltelle.
Marius tornò alla stamberga, attendendo le sei per dare il segnale. Io e una squadra di poliziotti eravamo appostati dietro agli alberi. Erano le sei, e Marius non aveva ancora sparato. Non sapevo cosa fosse accaduto, ma dovevo intervenire. Mai fidarsi di un giovane avvocato.
Così, io e i miei uomini entrammo nella stamberga. Mi misi a origliare alla porta della loro stanza, e sentii che stavano scappando. Intervenni appena in tempo per fermarli, e vidi che la mente di “Patron Minette” erano i coniugi Thénardier, dei malviventi noti alla polizia di tutta Parigi.
I coniugi, i loro scagnozzi e una delle loro due figlie furono sbattuti in galera. Quando mi volsi per vedere Leblanc (che avevo intravisto quando ero entrato), non lo vidi. Dov’era il derubato? Era fuggito? Ma perché?
Passarono degli anni. Come sempre, di Valjean nessuna traccia. E poi arrivò il 5 giugno 1832. In quella data, il popolo di Parigi insorse contro il nuovo monarca Luigi Filippo, sostenendo squallidi ideali repubblicani e liberali, e ritenendo che la monarchia dovesse crollare e il sovrano dovesse essere destituito.
Allora, io fui assunto dalla Guardia nazionale francese come spia: mi sarei introdotto nelle barricate costruite dai rivoltosi, e avrei spiato i loro piani e le loro intenzioni, per dare vantaggio ai gendarmi.
Così, copertomi con un lungo pastrano, fui “reclutato” dai rivoltosi in via delle Billettes. Poi, entrai nella barricata costruita attorno a un vecchio locale, e mi sedetti in un angolo, spiando e tenendo a mente ogni dettaglio dei piani dei nemici.
Ma la fortuna non volgeva a mio favore. Mentre ero seduto, un monello di strada di nome Gavroche, che avevo già intravisto in altri luoghi, prese a girarmi attorno. Temetti che mi avesse riconosciuto. E infatti, ecco che il ragazzino andò da Enjolras, uno dei capi dei rivoltosi, mormorandogli qualcosa all’orecchio. Subito dopo Enjolras venne verso di me. Capii che il monello gli aveva rivelato che ero una spia.
Non cercai di nascondermi dietro a un dito. Non era un comportamento da ispettore, da poliziotto e da servitore della legge. Restai a testa alta, ma mi legarono comunque a un palo del ristorante.
Restai legato a quel palo per tutta la notte fra il 5 e il 6 giugno. Ottenni poi di farmi spostare su un tavolo, e rimasi lì, sdraiato. I rivoltosi erano intenzionati a non uccidermi, e a farlo solo prima della soppressione della rivolta da parte della Guardia nazionale. Così io aspettavo la mia ora, impassibile come lo ero sempre stato.
Era suonato mezzodì, ed Enjolras stava dando istruzioni ai rivoltosi, quando mi disse: “Non ti dimentico”. Detto ciò, il capo della rivolta disse che l’ultimo a uscire dalla barricata avrebbe dovuto uccidermi. Sentii la voce di un uomo che non vidi, siccome ero sul tavolo a pancia in giù, chiedere un favore: uccidermi di persona. Ma chi faceva una simile richiesta? Alzai la testa.
Ancora lui. Jean Valjean.
Era invecchiato dall’ultima volta, aveva ormai sessant’anni compiuti, e aveva l’aria sciupata. Non mi stupii troppo di trovarlo lì: luoghi del genere erano più che perfetti per uomini miserabili e malvagi come lui. Tuttavia, non fui nemmeno contrariato dalla sua richiesta, tant’è vero che dissi: “È giusto”.
Fra me e Valjean c’era sempre stato odio. Lui odiava la società, e io, in quanto protettore della società, odiavo lui. Era naturale che fosse così, ed era naturale che ora volesse uccidermi. Un po’ come un orso che profana un alveare in cerca di miele: l’ape, in quanto protettrice dell’alveare, ha il diritto di cacciare l’orso. Ma quando l’ape è a terra, con un’ala spezzata, è giusto che l’orso la finisca.  
Era questo ciò che pensavo. Per questo, non gridai, non implorai la grazia. Era giusto che Valjean avesse la sua vendetta da assassino qual era.
Enjolras acconsentì, e mi consegnarono a Jean Valjean, lasciandomi mani e piedi legati. Uscimmo dalla barricata sulla deserta via Mondétour. Eravamo soli. Era giunto il momento della vendetta di Valjean.
“Prenditi la rivincita,” dissi guardandolo negli occhi.
Valjean si pose la pistola sotto al braccio ed estrasse un coltello.
“Un coltello! Hai ragione, è più adatto a una persona come te.”
Ma Valjean non mi conficcò il coltello nelle carni. Tagliò le corde che mi legarono.
“Siete libero,” mi disse.
Fu la prima volta nella mia vita che la mia faccia era stupita. Mi si aprì la bocca dallo stupore.
“Non credo che sopravvivrò”, disse. “Ma se ne uscissi, sappiate che abito, sotto il nome di Fauchelevent, in via dell’Homme-Armé numero 7.”
Non ci credevo. Non solo Valjean non mi aveva ucciso, ma mi aveva dato il suo indirizzo per permettermi di arrestarlo. Doveva essere un indirizzo falso… ma perché non mi uccideva? Lo avevo inseguito per quasi vent’anni!
Cercai di recuperare la mia solita rigidità, e mi allontanai. Ma non resistevo: era ingiusto nei confronti della legge naturale ciò che Valjean faceva. Perché non mi uccideva?
“Voi mi seccate,” dissi. “Uccidetemi piuttosto.” 
“Andate.”
Così, voltomi verso i mercati, andai. Sentii dietro di me che Valjean sparava in aria, e poi tornava alla barricata. Sentii la sua voce dire: “È fatto”.
Jean Valjean mi aveva salvato la vita. Mi aveva risparmiato. Un rivoltoso, ex-forzato, ladro, mentitore senza scrupoli e, forse, anche assassino mi aveva risparmiato la vita, dopo anni e anni di caccia nei suoi confronti.
Ero allibito. Com’era possibile? Ma soprattutto c’era un’altra faccenda: ora io ero indebitato con lui. Gli dovevo la vita. L’onore è onore, e benché odiassi quella feccia umana, ero in debito con lui. Non potevo sopportarlo. Era una situazione insopportabile, essere indebitati verso un uomo che avevo ricercato e considerato un miserabile malvivente. Ma in fin dei conti lo era. Il fatto che mi avesse risparmiato non lo giustificava, e non lo rendeva un uomo onesto.
Ritornai all’ufficio di polizia, dove raccontai che ero stato catturato ma ero riuscito a scappare, e rivelai i dettagli che ero riuscito a scoprire. Quel pomeriggio, venni a sapere che la barricata nella quale ero stato tenuto prigioniero era stata invasa dalla Guardia nazionale, e la rivolta generale era stata domata.
Nello stesso momento, ricevetti un altro messaggio, quest’ultimo un ordine, dal prefetto Gisquet: setacciare tutta la rete fognaria di Parigi, per paura che nelle fogne si rifugiassero dei rivoltosi. Molti altri ricevettero quest’ordine, e così mi diressi verso una delle aperture della fogna presso la Senna. Poi scorsi un uomo che scappò vedendomi, e riconobbi in lui il malvagio Thénardier. L’uomo iniziò a correre verso un’apertura della rete fognaria vicino alla Senna, e vi entrò, aprendo la grata con una chiave. Io rimasi fuori, appostato e nascosto, attendendo che uscisse.
Restai vicino all’imboccatura della rete fognaria fino al crepuscolo. In quel momento, sentii una chiave che girava nella toppa della grata della fogna: stava per uscire qualcuno.  
La grata si aprì, ed uscì un uomo anziano, sciupato, stanco, che portava sulle spalle il cadavere di un uomo che avevo già visto: Marius Pontmercy.
Mi stagliai davanti al vecchio.
“Chi siete?” chiesi.
“Io,” disse lui.
“Chi, voi?”
“Jean Valjean.”
Posai le mani sulle sue spalle e avvicinai il mio volto al suo. Era vero: Jean Valjean, ancora una volta, mio. Ma questa volta, non aveva scampo. Lui era debole, sporco, malridotto, stanco, stremato. Io ero riposato, armato, e irato.
“Ispettore Javert,” mi disse Valjean, “sono in mano vostra, lo sono da stamattina. Disponete di me come volete, prendetemi; solo accordatemi un favore.”
Io osservai il cadavere.
“Che vuol dire quell’uomo?”
“È di lui che volevo parlarvi,” disse Valjean. “Fate di me ciò che volete, ma prima aiutatemi a portarlo a casa. Vi chiedo solo questo.”
Guardai il corpo (allora lo riconobbi), e Valjean mi disse che era ferito, benché a me sembrasse morto. Ma una cosa mi stupì: Valjean lo aveva portato in spalla attraversando le fogne? Solo per salvare un uomo che, se non era morto, lo sarebbe stato di certo poco dopo? Perché? Era un comportamento insolito per un uomo malvagio quale Valjean.
“Abita in via Filles du Calvaire, presso suo nonno,” mi disse Valjean, porgendomi un biglietto contenuto nel portafoglio del giovane che recava l’indirizzo di quest’ultimo.
Chiamai una carrozza e, sistemato il ferito sul sedile anteriore, mi sedetti dietro con Valjean al mio fianco.
Lo osservavo con la coda dell’occhio. Osservavo quel volto che io avevo sempre considerato crudele, spietato, pronto a tutto, con una luce nuova. E… e se mi fossi sbagliato per tutto questo tempo? E se Valjean non fosse l’uomo perverso che io avevo sempre ritenuto?
La carrozza arrivò in via Filles du Calvaire. Parlai col portinaio, e gli dissi di portare a casa Marius. Il cadavere (per me rimaneva tale) fu portato in casa, e io richiamai Valjean. Risalimmo sulla carrozza, e Valjean mi chiese:
“ Ispettore Javert, accordatemi ancora di lasciarmi tornare un momento a casa, e poi farete di me ciò che volete.”
Qualche giorno prima non avrei mai accettato una simile domanda. Eppure, non mi sentivo di negare. Sapevo che Valjean allevava una bambina (ormai sarebbe stata una ragazza), e non potevo negargli il permesso di darle un ultimo saluto.
Così dissi al vetturino di andare in via dell’Homme-Armé numero 7.
Lungo il viaggio riflettei ancora su Jean Valjean, il miserabile forzato che mi aveva ingannato più d’una volta sfuggendomi, e di cui ora provavo pietà. Ma perché ero così bendisposto nell’animo verso quell’essere crudele? Forse perché iniziavo a comprendere che… Valjean non lo era. Chi era il crudele? Chi in questa storia lo era? Non lo sapevo. So solo che pensai addirittura di esserlo io.
Arrivammo in via dell’Homme-Armé, pagai il vetturino, e feci salire Jean Valjean in casa.
“Vi aspetto qui,” dissi.
Valjean salì in casa, stupito per tanta indulgenza da parte mia.
Io camminavo avanti e indietro davanti alla facciata della casa. Un pensiero mi opprimeva, ma tutte le volte che cercavo di individuarlo, mi sfuggiva. Poi, dopo un po’, riuscii a sentire il mio pensiero: “ricordati del debito…”
Mi ero ricordato del debito che avevo nei confronti di Valjean. Tutto vorticava turbinosamente nella mia testa: Jean Valjean, Madeleine, la carretta di Fauchelevent, il processo Champmatieu, Marius, le barricate, la fogna… e quel volto, quel volto che io avevo sempre considerato così truce, ora così triste, così... buono.
Mi voltai, e mi allontanai dalla casa.
Mi dirigevo verso la Senna, non sapevo bene perché. Poi mi affacciai sul fiume, nel punto in cui – fra il Pont Notre-Dame da un lato e quello del Cambio dall’altro, e fra il lungo Senna Mègisserie e quello dei Fiori – la Senna forma una forte rapida, che persino i barcaioli più esperti temono.
Osservavo quell’acqua così turbolenta, ma mai quanto la mia anima. Pensavo a Jean Valjean. Riflettevo su quell’uomo, e più pensavo, più mi accorgevo che la mia vita era solo un grande errore. Valjean era stato un miserabile, e questo era certo. Ma da tempo era cambiato, e io non lo avevo capito. Aveva salvato Champmatieu rivelando di essere il vero Valjean; aveva salvato Fauchelevent; mi aveva salvato la vita; aveva salvato la vita a un giovane ferito, rischiando la sua nel lungo e difficile attraversamento delle fogne. Ma per me era rimasto un uomo crudele. Perché? Come avevo potuto considerare un uomo tanto pio come un pericolo per la società?
Valjean non era il cattivo. Lo ero io.
Sul lavoro, avevo imparato che per ogni colpa spetta una pena. Per ogni offesa spetta una destituzione. Ma come lavarmi dalla colpa che avevo commesso verso quell’uomo? Come ci si destituiva nella vita reale? Non lo sapevo, non lo avevo mai saputo. E poi, sentii netta la risposta nella mente:
“Suicidio.”
Mi diressi, allora, verso un posto di guardia, in un angolo di piazza dello Châtelet. Qui, redassi il mio ultimo rapporto. Firmai, e chiusi il rapporto in una busta, lasciandolo sul tavolino. Poi, ultimai le mie Memorie, che avevo chiuse in una recondita e nascostissima tasca della finanziera.
Ora sono qui, nel posto di blocco, e ultimo le mie memorie. La colpa di cui mi sono macchiato verso quel pio uomo è grande, troppo grande per sopportarla. Mi suiciderò. Le rapide della Senna accoglieranno il corpo di quest’uomo malvagio, troppo malvagio in quanto il suo lavoro lo obbligava a essere giusto. E, se il fiume non mi vorrà, forse Satana mi accoglierà.
Queste Memorie sopravvivranno. Le nasconderò in una tasca segreta posta all’interno del mio cappello, che lascerò sul parapetto. Se qualcuno le troverà, saprà che, un tempo, è esistito un ispettore che, credendo di essere nel giusto, perseguitò un uomo giusto; e alla fine, l’ispettore pagò per le sue azioni.
Gérard Javert, Ispettore di polizia di I classe,
ore 1e trenta antimeridiane del giorno 7 giugno 1832   
   
 
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