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Autore: Flownes    27/09/2015    3 recensioni
"Cuffiette nelle orecchie, zaino in spalla e vans – quelle vans – ai piedi.
Con quelle avevo conosciuto lei e lei non aveva detto: «Belle, dove le hai comprate?», le aveva guardate, avevo saputo successivamente, aveva sorriso appena, poi mi aveva stretto la mano e aveva pronunciato la prima parola, la prima fra le tante che ci saremmo scambiate da quel giorno in avanti: Ginevra.
Cos’era Ginevra? Un qualcosa di piuttosto speciale, sicuramente almeno quanto quel paio di vans che amavo tanto portare ai piedi. Lei era la rivoluzione, era il vento che ti fa alzare in volo, lo spasmo di terrore prima del tuffo, ma io ancora non potevo saperlo, mi aveva detto una sola parola e quella parola era il suo nome."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Una ragazza sola che da sempre aspetta il ballo





CAPITOLO I

“Ginevra”

 
 
Quelle vans erano davvero belle, non lo si poteva negare neppure per sbaglio. Bordeaux, spesse ma non troppo, lacci neri, consumate al punto giusto. Ma non erano queste caratteristiche a renderle così belle, erano tutti i passi che avevo fatto con loro ai piedi a renderle così affascinanti, ma gli altri non potevano saperlo, non potevano accorgersene ad una prima occhiata. Per questo quando mi sentivo dire: «Belle queste vans, dove le hai comprate?», io semplicemente rispondevo con un sorriso tirato: «Su internet.». Sempre solo io sapevo che, ovviamente, non era quella la risposta, le mie non erano scarpe che si comprano su internet, erano scarpe indossate, vissute, che avevano preso pioggia, vento e sole, con le quali avevo solcato marciapiedi e mille avventure. Ma tutto questo non si può rivelare ad una persona che si approccia a loro dicendo: «Belle, dove le hai comprate?».
Anche quel giorno le indossavo, mentre ascoltavo quella canzone, quella canzone maledetta, asfissiante e così potente da creare dipendenza. Giuliano era in grado di scrivere testi che mi scuotevano anche il più piccolo e insignificante fascio di nervi, quelle parole mi facevano drizzare i capelli e infrangere ondate di brividi sulla pelle.
Cuffiette nelle orecchie, zaino in spalla e vans – quelle vans – ai piedi.
Con quelle avevo conosciuto lei e lei non aveva detto: «Belle, dove le hai comprate?», le aveva guardate, avevo saputo successivamente, aveva sorriso appena, poi mi aveva stretto la mano e aveva pronunciato la prima parola, la prima fra le tante che ci saremmo scambiate da quel giorno in avanti: Ginevra.
Cos’era Ginevra? Un qualcosa di piuttosto speciale, sicuramente almeno quanto quel paio di vans che amavo tanto portare ai piedi. Lei era la rivoluzione, era il vento che ti fa alzare in volo, lo spasmo di terrore prima del tuffo, ma io ancora non potevo saperlo, mi aveva detto una sola parola e quella parola era il suo nome.

 
Avevo dormito solo poche ore la notte precedente al primo giorno di università, chissà perché associavo quel giorno ad un cambiamento drastico nella mia vita e la cosa mi teneva in uno stato adrenalinico, impedendo ai miei occhi di chiudersi e alle porte dei sogni di spalancarsi. Ora, considerando le quattro ore scarse di sonno e la traumatica sveglia alle sei e trenta di mattina per prendere l’autobus e poi il treno per Roma, le occhiaie sul mio volto non erano affatto un optional. Mettiamo sul fuoco anche il fatto che io e il trucco siamo più o meno come il Polo Nord e il Polo Sud… A questo punto è facile immaginare in che condizioni mi trovavo. Generalmente mi sarei fregata altamente della cosa, ma era il primo giorno della mia nuova vita, così mi passai un filo di matita sotto gli occhi, lo stretto indispensabile per rimediare all’aria trasandata che tendevo ad avere, lo stretto indispensabile per risaltare la parte che più mi piaceva di me stessa: gli occhi azzurri, di quelli che cambiano in base al cielo.
Trovare la via per l’università non fu difficile, più o meno ricordavo le strade che dovevo prendere, gli incroci ai quali girare e così iniziò la mia nuova vita, in un’aula della facoltà di Lettere e Filosofia, circondata da persone a me totalmente sconosciute. Le prime lezioni furono decisamente tutte uguali, nessun professore si mise a spiegare, tutti si misero a fare i classici discorsi di inizio anno nei quali ricordano quanto sia fondamentale la presenza alle lezioni, quanto sia indispensabile studiare con costanza e sistemare gli appunti volta per volta. Ma la mia attenzione – so che non sarebbe dovuto essere così – era rivolta a ciò che era attorno a me e non alle parole dei professori. Si stavano formando già le prime conoscenze, le future amicizie, a gruppi di tre, in un paio di casi di cinque. I ragazzi si scambiavano già le prime battutine idiote sulle ragazze, qualcuno già si lamentava della pallosità della lezione, qualcuno discuteva di calcio, qualcuno scriveva poche frasi su un quaderno ancora immacolato. Poi il mio sguardo, che da sinistra verso destra aveva già fatto una scansione precisa, si posò sulla ragazza seduta alla mia destra e, con sorpresa e un filo di imbarazzo, scoprii che i suoi occhi stavano solo aspettando che i miei li raggiungessero. Occhi neri, di quelli profondi, di quelli nei quali non riesci quasi a distinguere l’iride dalla pupilla, occhi oscuri ma così luminosi, gettati come pietre preziose su quel viso latteo, assieme ad una piccola manciata di lentiggini, seminate con cura sulle gote.
«Ginevra.»
Quella parola sussurrata mi spiazzò non poco, si era insinuata fra le immagini che stavo analizzando nella mia testa, aveva rotto quella specie di equilibrata scansione, facendo sballare il sistema di memorizzazione che stavo cercando di attuare. Le battutine e i discorsi di calcio dei ragazzi, i gruppetti, le chiacchiere del professore si erano confuse le une con le altre, sovrapponendosi e crollando come un castello di carte. La memoria degli ultimi cinque minuti si era totalmente resettata, in quel momento si stava riempiendo dell’immagine di quegli occhi neri, delle lentiggini, di quei capelli mossi castano chiaro, di quelle labbra arricciate verso l’alto in un piccolo sorriso che lasciava appena intravedere denti bianchi – perfetti, ci avrei scommesso – e la sua mano destra tesa verso di me.
«Elena, piacere.»
Ricambiai il suo accenno di sorriso, con uno dei miei, puramente abituali. Eppure il mio sguardo si era fatto attento. Liberai la mano destra dall’incrocio delle braccia sul banco e strinsi quella di lei, di Ginevra.
Ora, la stretta di mano era una cosa fondamentale per me, una stretta di mano può dire molte cose di una persona. Ad esempio io non posso sopportare le mani sudate, scivolose, le strette di mano frettolose, quelle che si lasciano stringere solo le dita, quelle che non stringono affatto… Insomma, ci sono molti tipi di stretta di mano, ma solo un tipo a me va bene, il tipo che non mi lascia niente da obbiettare, una stretta vera. La mano di Ginevra si strinse alla mia, i pollici che si incastrarono precisamente, il palmo combaciò perfettamente con quello dell’altra, le dita asciutte si strinsero sulla mia pelle per quel tempo giusto, prima che la stretta si allentasse e sparisse così com’era venuta, con l’allontanarsi delle mani.
Niente da obbiettare.
«Cosa hai notato?»
Una domanda insolita, spiazzante. Cosa intendeva? Aveva osservato il mio osservare i comportamenti delle persone presenti in stanza, aveva seguito la traiettoria del mio sguardo memorizzando dove si soffermavano i miei occhi, per capire cosa attirava la loro attenzione? Oppure era una semplice domanda, magari relativa a qualcosa di ovvio… Eppure fra tutte le cose che avrei potuto dire, risposi così impulsivamente che dopo aver pronunciato quelle parole ci misi almeno dieci secondi per rendermi conto di aver parlato.
«I tuoi occhi.»
Non solo avevo appena fatto una figura di merda epica, mi ero praticamente attaccata in fronte un cartellino con su scritto “lesbica”, io, che invece preferivo tenere la cosa per me e lo ammettevo solo se costretta. Ad ogni modo, in quei dieci secondi in cui realizzai di aver parlato, capii anche che rispondendo a quel modo le avevo in realtà appena detto che niente di ciò che avevo osservato in quella stanza era degno di nota, se paragonato ai suoi occhi. In quei dieci secondi memorizzai indelebilmente la sua espressione stupita, il suo sguardo che si abbassava imbarazzato per un istante, il suo sorriso mentre lo rialzava, posandolo su di me. Ecco, quel sorriso non me lo tolsi dalla testa per tutto il giorno e per tutto il giorno seguente e quello dopo ancora.
«Sono particolari. Lo diranno spesso anche a te.»
Il delirio di pensieri furiosi contro la mia impulsività fortunatamente cessò nel momento in cui capii che la sua risposta non era stata affatto scortese, offesa, gelida. Avevo addirittura rimediato un complimento dalla ragazza dagli occhi neri. E un sorriso. E che sorriso.
«No, in genere mi dicono solo che vorrebbero averli loro gli occhi azzurri.»
«Beh, non mi sembrano proprio azzurri. Non sono cangianti?»
Schiusi le labbra per rispondere, ma quando compresi le sue parole, nessuna voce prese vita dalla mia bocca. In compenso mi strappò un sorriso, non il solito abituale, di circostanza. Pazzesco, così avrei detto se un’amica mi avesse raccontato di una definizione così impensabile dei suoi occhi. Chi mi avrebbe mai contraddetta se gli avessi detto di avere gli occhi azzurri? E chi altro li avrebbe definiti “cangianti”? Feci ruotare la penna che stringevo tra le dita, inclinai il viso verso destra, guardandola, la sorpresa e la curiosità irrevocabilmente stampate nei miei lineamenti.
«…Sì, in effetti sono cangianti.»
Lei annuì, con l’aria di chi sa di aver fatto centro al tiro al bersaglio e la soddisfazione di aver destato l’interesse ambito. Si passò una mano tra i capelli, scostandoli dal viso candido con un gesto passabile per spontaneo, ma avrei volentieri giurato che fosse solo una copertura per l’aria soddisfatta che si era impadronita del suo volto.
«È il tuo primo giorno di università?»
«Sì, perché, non è il primo anche per te?»
No, non era il suo primo giorno nel mondo universitario, per lei quel giorno non era l’inizio di una nuova vita. Aveva due anni più di me, prima si era iscritta a medicina, ma a quanto pareva la scelta non era stata proprio sua. Suo padre, chirurgo affermato, l’aveva spinta a fare il test, lei era entrata, lui l’aveva fatta immatricolare. Purtroppo – in realtà per fortuna – aveva capito che non era affatto quella la propria strada, con due anni di ritardo, ma certamente non era stato tempo sprecato. Così si era iscritta a Lettere e Filosofia, la facoltà che avrebbe voluto scegliere dopo gli esami di maturità.
Parlammo degli esami, della scuola, di quanto era stato facile il test per Lettere, di quanto fossero inutili le cose che stava dicendo il professore in aula e dei brontolii che lo stomaco iniziava ad emettere furiosamente.
«A pranzo hai già impegni?»
Se avessi avuto impegni li avrei annullati seduta stante e sicuramente lo sapeva anche lei, ne ero certa. Quella ragazza aveva la capacità di usare gli occhi per vedere oltre l’aspetto esteriore, era come se già sapesse tutto di me. Ma forse era solo una mia impressione.
«No, tu?»
«Pranzo con te, credo.»
Non era affatto solo un’impressione.
Gli altri del corso avevano già formato i loro gruppetti e quei gruppetti a loro volta si stavano unendo in un gruppone, il famoso gruppo classe. Probabilmente mi sarei dovuta curare del fatto che forse avrei dovuto inserirmi fin da subito, ma in quel primo giorno della mia nuova vita, non riuscii a preoccuparmi minimamente di poter restare in disparte. Del resto era solo il primo giorno, avrei avuto tempo per fare amicizie varie o anche solo qualche conoscenza… Al momento i miei pensieri e la mia attenzione erano proiettati solo su una persona, con la quale passai il resto della giornata, a lezione, nelle pause sigaretta durante la lezione, durante i famosi quarti d’ora accademici e ogni altro momento della giornata piena che costituiva il mio primo giorno.
Alla fine mi ritrovai a correre per raggiungere Termini in tempo, il treno non avrebbe aspettato me, neppure se gli avessi raccontato della ragazza dagli occhi neri, del suo sorriso brillante, delle sue labbra disegnate e dei suoi atteggiamenti sicuri, degli sguardi complici, dei centri al bersaglio e del suono di quel “A domani” con cui mi aveva salutata prima di girarsi e incamminarsi nella direzione opposta alla mia.
Con il fiatone, riuscii a salire sul treno, benedicendo le mie vans, che non mi deludevano mai, facendomi volare esattamente dove volevo essere al momento giusto. Solo una volta chiuse le porte mi resi conto di un grosso errore, l’errore di non aver chiesto a Ginevra il numero di telefono, quale spiacevole dimenticanza. Un altro regalo della mia notevole intelligenza… Ma quando tirai fuori il libro per leggere – Le Onde, Virginia Woolf – notai un secondo segnalibro, un semplice foglietto a quadretti da quattro millimetri, con una serie di cifre scritte sopra a penna nera.
 
 




°Nota dell'autrice°
Se avete letto fin qui, innanzitutto vi ringrazio.
Per chiarire piccole cose lasciate in sospeso nel capitolo, la canzone di cui Elena parla è "L'amore qui non passa" dei Negramaro e il Giuliano di cui parla è il loro cantante, Giuliano Sangiorgi.
Elena è un personaggio ripreso da una precedente storia, "You and me, time and space", che potete trovare sul mio profilo. Che dire, la storia che mi accingo a pubblicare è una sorta di proseguo della precedente, ma per seguire "Una ragazza sola che da sempre aspetta il ballo" non è necessario leggere la storia precedente di cui Elena è protagonista, gli eventi raccontati sono separati.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi sarei grata se lasciaste una recensione, fanno sempre bene, negative o positive che siano.
Al prossimo capitolo,
Flownes
  
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