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Autore: _sonder    30/09/2015    5 recensioni
Il ricordo della famiglia fra la cenere di una sigaretta e la sabbia del mare.
| Prima classificata al "Make it simple, make it memorable, make it inviting to look at, make it fun to read" indetto da Stratovella sul forum di EFP. |
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Takashi Ichinomiya, Takehiko Henmi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La storia si è classificata prima al contest Make it simple, make it memorable, make it inviting to look at, make it fun to read indetto da Stratovella sul forum di EFP. Ha ottenuto come riconoscimenti: il premio Fun to Read e il premio Simple.
Alcuni riferimenti socio-culturali sulla condizione della donna giapponese risalgono alla metà degli anni '70 in cui prende il via la storia di Caro Fratello. Molte scene sono semplici headcanon o speculazioni personali sui missing moments vissuti dai due personaggi.


Un pugno di cenere e sabbia

La mano di mio padre era ruvida corteccia sulle guance: a una sua carezza, incontravo i sentieri che le rughe avevano aperto sulla pelle e tremavo, stordito dall'odore di tabacco. Sapevo che quelle dita mi avevano stretto e sollevato, ancora in fasce, con un sorriso misurato e una gioia fuori dal comune. Risparmiava i sorrisi in mia presenza, perché non crescessi viziato e debole; mi bastava incrociarne gli occhi, però, essere seguito dal suo sguardo, per capire che respirava la mia infanzia e celebrava la sua paternità.
Come un fiume, mio padre travolgeva tutta la mia anima: nello sguardo adulto scorgevo la conferma di essere suo, nella carne e nel sangue. Credevo che niente avrebbe mutato la sua espressione e avevo fame dell'approvazione, dei brevi cenni del capo per capire che sì, avevo agito secondo il suo desiderio, donandogli soddisfazione.

C'è un momento in cui il tempo va in frantumi: cade a terra, spezza la cornice di legno del portafoto, infrange il vetro e lascia scivolare l'istantanea di famiglia. E le facce, imprigionate nella fotografia, non assomigliano più a chi le indossa tutti i giorni: le effusioni e gli abbracci immortalati non sembrano altro che un artificio, una cerimonia da inscenare per parenti e amici superficiali.
Mio padre, proprio come il ritratto sereno di famiglia, sgusciò fuori dalle nostre vite. Smisi di credere nella figura eroica che avevo amato e sentii la forza dello strappo con cui aveva spezzato la nostra quotidianità. I giorni condivisi non tornavano ed era soltanto la speranza o l'illusione di possedere ciò che avevo perso a richiamarli.
Aveva scelto il silenzio per andarsene: il clamore veniva dalle urla della mamma, dalle cravatte tagliate e dagli abiti che lacerava per lasciare il marito privo di mezzi, perché fosse la rivale a riverirlo e a diventarne la serva.
Mio padre restava un'ombra su un foglio, su un quaderno degli esercizi; alla sera, sedevo sulla poltrona che gli era appartenuta e toccavo il solco sul tessuto per convincermi di non essere stato abbandonato, di avere ancora qualche traccia di lui. Scaldavo il rivestimento della poltrona perché non la trovasse fredda al suo ritorno, perché mi guardasse, orgoglioso e commosso dalla mia testarda attesa. Volevo che posasse le labbra sulla mia fronte e mi porgesse la palla per giocare assieme. Scorrevo gli occhi sulla libreria dello studio e trovavo gli effetti del passaggio di mia madre, che avevano sconvolto l'ordine paterno di soli sei mesi prima: aveva distrutto parte dei libri, pervasa dalla rabbia di essere stata scartata in favore di un'altra donna. Temevo di non riuscire a orientarmi fra gli oggetti che non richiamavano più la presenza di papà.


A volte è il tempo a porre fine a ciò che è vivo: rincorre e divora fino a lasciarci l'incredulità di essere soli e impotenti.
Le ultime parole che dissi a mia madre furono le solite, noiose, frasi di commiato prima di andare a scuola. Quando tornai a casa, superai la sua camera da letto, convinto che dormisse per la stanchezza delle faccende domestiche, delle compere e del lavoro. Una donna divorziata e single, che affrontava il rimprovero negli occhi degli estranei, dei colleghi e dei superiori… e la delusione cocente nel giudizio dei famigliari, era vista come una poco di buono. La colpa di mia madre era stata quella di continuare ad amare un uomo che non la voleva e che si era felicemente risposato.
Posso fare a meno di te; credo fossero questi i suoi pensieri, ma a volte ammetteva che era l'altro ad averle dimostrato di riuscire ad andare avanti senza di lei.
A sera, schiusi l'uscio della camera e passai le dita sul viso per scostarle i capelli. Mi colpì la rigidità del suo corpo e la scossi; accesi la luce e provai a chiamarla con il petto che mi impediva di respirare per il dolore e la paura. Urlai più forte, fino a sentire la gola infiammarsi per lo sforzo.
Mia madre non rispose più. Era andata via in silenzio, dopo aver gridato tutte le sue pene.
Strinsi le mani fra loro per sentirmi, per sapermi vivo. Gli occhi puntavano il lembo di tessuto bianco sul suo volto e pensai con sconcerto alla crudeltà di quello scherzo. Non osai togliere il fazzoletto di stoffa, non osai guardare di nuovo l'espressione con cui mi aveva lasciato.

Vennero ad accendere incensi e a lasciare offerte per la mamma: estranei e conoscenti si susseguirono in un lento fiume di preghiere, pacche sulla spalla e dita che lisciavano i miei capelli. Li ascoltavo distrattamente, mentre congiungevano le mani e cominciavano a renderle omaggio. Fra loro c'erano tanti visi che avevano evitato di salutarla in vita, perché aveva un figlio ed era sconveniente che una donna rimanesse sola.
Io, inginocchiato sui cuscini della funzione, mi inchinavo di fronte al ritratto, ma gli occhi controllavano il fondo della sala, con il cuore che accelerava la sua corsa al solo pensiero di rivedere mio padre. Non venne mai e io non riuscii a comprendere come avesse potuto abbandonare mia madre anche nel giorno della sua cremazione.
In collina, all'esterno del forno crematorio, con le ginocchia che cedevano e la mente distrutta alla vista del suo scheletro, provai rabbia e tristezza. Stracciai il primo assegno che giunse dopo la morte della mamma.

– Non è semplice mandare avanti una famiglia di questi tempi. Non con uno stipendio modesto… prendi i professori universitari: guadagnano una miseria.
Mi voltai, incontrando il volto di Takashi, un mio compagno di studi. Lanciava una mela e l'afferrava nel palmo della mano.
– Pensi che perdonarlo sia così semplice?
Takashi si lasciò andare contro lo stipite della porta. L'aula era deserta e durante il nostro turno di pulizia, con la scusa di parlarmi, fui costretto a sgobbare al suo posto.
Eravamo ancora liceali quando diventammo amici. Crescevo in fretta e, con minore frequenza, guardavo dietro di me.

In un cassetto della mia scrivania trovai un disegno. Lo guardai, lo baciai, sorrisi. Un dito accarezzò la carta ingiallita in preda alla nostalgia: provò il dolore di non sapersi intero, mentre scorreva una traccia del passato a cui non poteva tornare. C'era un uomo stilizzato, seduto sulla poltrona, accanto a una palla di fuoco.
Non ho mai avuto talento per ritrarre le cose nella loro essenza. Non avevamo neanche un camino in casa, ma quelle linee oblique accanto a un cerchio rosso e caotico, conservavano l'immagine ideale di mio padre: un pensatore affascinato dalla cultura occidentale, che leggeva Tom Sawyer e amava fumare la pipa.

Trovai un fratello in Takashi e il tempo mi diede l'opportunità di comprendere le sue ferite, il rapporto difficile fra lui e suo padre. Capii che i consigli di Takashi erano un modo per parlare anche con se stesso e placare l'astio nei confronti del genitore.


I nostri giorni da studenti universitari stavano giungendo alla fine. Ci aspettava il mondo del lavoro, la solitudine di essere ormai adulti su vie in procinto di biforcarsi.
Andavamo in direzione della spiaggia, lontana dagli uffici e dalla modernità della metropoli, per ritagliarci un po' di quiete.
Takashi non si accomodò sulla balaustrata del lungomare e scese le scale fino ad avvicinarsi alla riva. I suoi occhi si tesero verso il panorama, penetrarono il paesaggio, mentre, in lontananza, il treno viaggiava sulle rotaie e lo stridio dei freni feriva l'aria.
– Gli uomini tradiscono gli altri e poi se stessi, – mi disse senza voltarsi. L'accendino scattò e una fiammella tremò fra le sue mani, – ma io non voglio diventare come lui. Non voglio vedere sulla mia donna lo stesso sguardo di mia madre.
Il mare cantava delle nostre vite e delle tante che si erano abbandonate nel suo abbraccio. Takashi osservava le onde diventare schiuma e sfumare sotto i suoi occhi. Pure l'amore sapeva ridursi così. Si chinò a terra e strinse un pugno di sabbia fra le dita, ma i granelli sfuggirono alla sua morsa, come tutto ciò che era fatto a misura dell'uomo; e più si intestardiva a trattenerli, più essi seguivano il soffio del vento per tornare a terra, accompagnati dalla cenere della sigaretta. Rimasi in silenzio e i pensieri cercarono di ricostruire il volto di mia madre, ma la sua pelle, nella memoria, era anch'essa un esile velo di sabbia.
E piansi, intuendo la tristezza di Takashi, che diventava la mia, perché non eravamo riusciti a proteggere le donne che ci avevano generato. Avevamo perso entrambi i genitori: le madri falciate troppo presto dalla morte e i padri allontanati dal nostro orgoglio, dai loro errori.
– Anche tua madre voleva che le sue ceneri fossero sparse in mare?
Annuii, rabbrividendo. Ricordai la piccolezza dell'urna, così lontana dalla figura di mia madre e come le dita faticarono a riversare il contenuto fra gli spruzzi vivaci dell'acqua.

Mi tornò alla mente la mano di mio padre: il gesto lento con cui avvicinava il cerino alla bocca della pipa, l'odore intenso del tabacco e come scuoteva il fiammifero bruciato, con riguardo, senza gettarlo via. A occhi chiusi, mio padre era già lontano, coi pensieri che correvano incontro a una donna sola e alla sua piccola bambina. Era già lontano da me, dai giochi e dalle storie che mi raccontava. Io, che non comprendevo la sua solitudine, che credevo di bastargli, poggiavo la testa sulle sue gambe e lo supplicavo di leggermi un altro romanzo. E il vento freddo, che batteva me e Takashi sulla spiaggia, che penetrava la nostra carne e ne chiedeva la resa, forse era lo stesso che si schiantava contro le imposte e stringeva il cuore di mio padre, obbligandolo a scegliere fra me e la nuova famiglia.


Guardo le spalle di Takashi, la fattura degli abiti che ne sottolinea l'agiatezza. Il suo cognome desta deferenza e aspettative: riveste del peso in società, un peso di cui non si lamenta, ma che suscita paragoni fra lui e suo padre, fra le loro scelte personali, le loro carriere, lo stacco fra l'erede e il procreatore. Anche adesso, mentre Takashi mi parla e accende un'altra sigaretta con disinvoltura, ha un sorriso ironico che gli stende le labbra. La sua espressione spensierata tende a scrollarsi di dosso le occhiate invadenti. Credo che Takashi stia tentando di affermare la propria identità, di lottare con lo scudo dello scherzo e della frivolezza. Sono sicuro che mantenga un aspetto amichevole e confidenziale con tutti, una soglia che non lascia superare e, dietro di essa, c'è la preoccupazione, l'amore per entrambe le sorelle.
– Siamo un duo comico, – afferma, squadrando i miei capelli arruffati, e alza la voce per sopraffare il grido dei gabbiani. Nel cielo è il sole a strappare spazio alle nuvole per lacerare il panorama: abbaglia i nostri sguardi assopiti e abituati ai colori plumbei dell'autunno.
– Continuando a cadere di fronte ai miei studenti, ti soffierò il lavoro, – gli rispondo. Ride, ma la risata perde forza sotto la corrente dei flutti, si spegne come se non avesse emesso fiato.
– Speravo obiettassi. Puoi sempre diventare il fratellone di una studentessa e darti alle conquiste, – chiude un occhio e lo strizza con complicità. Takashi gioca e scherza come al solito, ma i suoi gesti sono agitati come queste acque in balia della marea. – Henmi… ti chiedi mai come sarebbe abbracciarla adesso?
Si scosta appena dalla battigia, le mani in tasca e la sigaretta fra le labbra. Inspira e le palpebre si socchiudono per riflesso, mentre è intento ad assaporare il piacere del fumo. A ogni boccata c'è l'insoddisfazione, la mancanza che spinge inesorabilmente al tiro successivo.
– Penso che oggi avrebbe tante rughe qui, – continua, senza attendere una mia risposta. È perso nei ricordi e non fa più caso alla mia presenza: sfila le dita dal cappotto e sfiora gli angoli della bocca. – A stento arriverebbe al mio petto. Darebbe la colpa a me che sono diventato troppo alto, piuttosto che alle sue spalle curve da vecchina.
Faccio per sedermi, gli occhi più malinconici e invidiosi. Takashi sa ancora disegnare il volto di sua madre e lo cerca con animo saldo, senza temere la sofferenza che rievocano le memorie agrodolci.
Mia madre… mi domando se assumerebbe la posa severa e sdegnata che sfoggiava dopo il divorzio, torcendo un fazzoletto fra le mani. Sfogava sugli oggetti ciò di cui non poteva lamentarsi pubblicamente; lo scandalo del tradimento l'aveva resa nervosa e insicura.
Nei suoi occhi leggerei lo stesso bisogno di attenzioni che l'aveva consumata? Mi domando se ora, scoprendomi più simile all'uomo che le aveva imposto una simile sofferenza, proverebbe rancore per me. Piego il capo sulle ginocchia e le abbraccio.
– Tante volte la immagino con uno straccio umido fra le mani e il volto rosso di rabbia. Ha gli occhi simili a una guerriera dei miti antichi e il braccio puntato in basso, come a impormi di chiederle scusa… tanta solennità solo per un pavimento appena lavato! Poi, agita il manico della scopa, pronta a scagliarmelo sul fondoschiena… credo che qualche vicino anziano ricordi ancora i miei pianti poco virili!
Scoppio a ridere e cerco una lattina di birra. La voce risuona vuota, perché ho negli occhi l'infelicità di mia madre e le notti in cui si ritirava al freddo sul balcone, con la scusa di sistemare il bucato, pur di non mostrarsi ferita e di darmi l'ennesima conferma della rottura con papà. Provavo spesso il timore di accrescere la sua tristezza, di suscitarle nostalgia. Divenivo più simile a mio padre, a quel padre che non era più mio, nell'aspetto e nei modi, e tentavo di emularne i passi per trattenere una traccia di lui in me.
Oggi che, come lui, sono un insegnante, mia madre avrebbe sorriso serenamente?

Takashi mi affianca e posa una mano sulla spalla: la stringe e la batte per rassicurarmi.
Restiamo curvi, improvvisamente infreddoliti, a tenerci le ossa e le carni, perché il vento non ci trascini lontano. Con il bavero alzato dei pastrani, siamo soltanto due fiammiferi, inumiditi dall'aria salmastra; senza più luce, senza più fiamma e la vaga idea che qualcuno, un tempo, ci abbia sfiorati.

  
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