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Autore: BukowskiGirl2    01/10/2015    0 recensioni
[Jeremy Irons]
La bellezza malata di una ventottenne incontra il fascino culturale di un cinquantenne. Jeremy è semplicemente frustrato e stanco della sua solita vita e Victoria è naturalmente spaventata da quello che la aspetta, per quanto riguarda il mondo del cinema.
Dal testo:
"La guardava insistentemente, tenendo gli occhiali sulla punta del naso. Era enormemente affascinato da lei, consapevole di quanta superbia ci fosse, in realtà, sotto quel finto velo di modestia."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tornata a casa ebbe il piacere di scoprire che aveva nuovi ospiti. Un uomo e una donna – più probabilmente una fanciulla e un garzone – attendevano davanti alla porta d’ingresso della sua dimora.
-Cercate qualcuno? –
-Victoria, tesoro, sono io. Pronto?! Celestina. –
Guardò indifferentemente e con aria nauseata e stanca il volto illuminato di quella teatrale figura.
-Certo… Celestina. E tu sei… -
-Marco. Assolutamente. – disse mentre infilava la chiave nella serratura – Mi ricordo della profonda aria di originalità e inventiva che aleggiava nella vostra famiglia, nel vostro cerchio di… cerchio di relazioni, di amicizie. –
I due si guardarono in viso e ripensarono a quanto fosse stata sbagliata la loro idea di sorpresa.
-Precisamente, cosa ci fate qui? Vi sapevo a Milano. O da qualche parte, a fare i grandi modaioli. –
Nuovamente, si scrutarono a vicenda, per poi accennare un falso sorriso che sarebbe dovuto servire a farsi spazio in quell’aria irrespirabile di ostilità.
-No… cioè, sì. Viviamo un bel po’ a nord, ormai. Ma siamo venuti a farti una visita. Penso proprio che però prenderemo una stanza in qualche albergo, per non darti fastidio. –
-No, per carità. Cosa raccontate poi ai tuoi genitori, che mi credono ancora la dolce bambina di una volta, la good girl dei bei tempi? E’ bella e grande questa casa: vi lascerò il mio letto, che è matrimoniale. Se dovete fare le vostre cose la notte, vi prego di avere l’accortezza di chiudere la porta: solitamente, io, la notte dormo. –
-No, no… - rispose con cortesia la donzella, sorridendo ingenua.
Guardando l’orologio insistentemente, sperava le comunicassero da un momento all’altro che sarebbero usciti e – dettaglio aggiuntivo che l’avrebbe sicuramente compiaciuta – non fossero tornati mai più a disturbare la sua tranquillità. Decise però che sarebbe stata lei, ad uscire, perché la voglia di risultare ciniche e terribilmente scontata, le mordeva l’orgoglio.
Chiusa la porta alle sue spalle, cercò disperatamente di estrarre il telefono dalla tasca.
-Oh, dannati aggeggi. Dannata tecnologia. –
Rubrica
-A, b, c…g, h, i….J! Jeremy Coso. –
Estrasse anche il pacchetto di sigarette da una fantomatica tasca nascosta e - sorreggendo decine di cose, fra le quali occhiali, telefono, pacchetto, sigaretta e accendino – aspirò il primo alito fumoso e compose il numero.
Continuare a camminare sarebbe stato anche troppo, dunque si bloccò appena fuori dal suo appartamento con addosso il costantemente presente sguardo di Alfonso.
-Sir. –
-Miss Lewis. –
-Mi ascolti bene. Lei salverebbe mai un animale raro dall’estinzione? –
-Con tutti i mezzi a mia disposizione, Miss. –
Boccata di fumo.
-Mi salvi, per favore. –
Silenzio. Boccata di fumo.
-Casa sua è a due passi dal Bar di Venezia. La aspetto lì. Ah, poco sgomento per il fatto che conosco il suo domicilio, grazie. –
Le telefonate fra italiani si concludono sempre con un saluto più o meno caloroso. Victoria non era una nazionalista.
Con l’aspetto da brava ragazza e l’alito da camionista, si incamminò verso una meta comune per la popolazione romana. Camminando osservava intorno a sé i luoghi della sua infanzia. Li guardava con immenso disprezzo, erano qualcosa da dimenticare necessariamente. Erano stati un tradimento, per lei, come per la sua storia. La famosa illusione dell’essere felici. Ma guardare il mondo con gli occhi di chi può comprarselo, lascia accettare l’orribile e l’inguardabile, il dolorante.
-Una volta sono stata a Singapore. – disse una voce femminile, dal tavolo accanto, mentre i due sedevano uno di fronte all’altra in silenzio.
-Le hanno mai spento una sigaretta addosso? – chiese la giovane.
-No, che pensiero osceno. –
-Un tale, una volta, mi ha raccontato che a suo fratello hanno dovuto farlo. Aveva tipo un pungiglione o qualcosa del genere. Non dev’essere una bella sensazione, no. –
Sospiri e sguardi. Sguardi, sospiri e labbra pallide. Capelli lucidi ma non come quando sono unti, no.
-Non voglio che ogni volta che ci incontriamo debba essere un ammanco economico per le sue tasche. –
-Ammanco economico per le mie tasche. – replicò sorridente. Poi le guardò le gambe.
-E’ interessante come l’uomo moderno non abbia minimo pudore nello sbavare davanti alle gambe di una donna. –
-Oh, avanti. Sarebbe fin troppo scontato anche per un uomo ignorante, fare una cosa del genere. Stavo guardando le sue francesine. Perché si chiamano così, no? –
-E’ una cosa che mi chiedo costantemente. Credo di sì, comunque. Più volte penso al fatto che se fossi un uomo comprerei solo questo tipo di scarpe. Oppure i mocassini. Oh, i mocassini. –
-La apprezzerei davvero, da uomo. Ma da donna, oh, da donna è sensazionale. –
-Anche questo è fin troppo scontato per uomo elegante come lei, no? –
-Sì, volevo solo sentire l’ebrezza dell’ovvio. –
Restarono a fissarsi per qualche secondo. Dentro di lei sentiva il normale imbarazzo crescere e prendere spazio, ma voleva essere scontrosa, non voleva perdere un attimo, un angolo, un riflesso solo, di lui.
-Lei viveva qui prima, vero? –
-Molto prima, sì. –
-E perché se n’è andata? –
-Perché mia madre era stanca di stare qui, perché tutti eravamo abbastanza stanchi di stare qui. Quando ti cuci la tua storia addosso, senti che non c’è modo di cambiarla. Ma puoi sempre scappare. Alle volte mi sentirà fare queste metafore del cavolo e anche un po’ random, ma spero solo che qualcuno qualche volta non si spinga oltre il “cosa intendi?”. –
-No, la preferisco cento volte di più quando usa tutto come una metafora. –
-Io le odio le metafore, figuriamoci. –
-Posso fermarmi a di che storia parla? –
-E’ già molto oltre. Ma oggi mi va di parlare solo con persone potenzialmente pericolose, e non con due babbei che si presentano a casa tua come se foste fratelli. –
Sgranchì le mani, poi si voltò a guardare un bambino che passava, sorridendo alla sua mamma. Lo guardò con il classico sguardo di chi deve iniziare un discorso difficile e davvero non ce la fa.
-So che è stupido serbare rancore, ricordare per anni, non dimenticare. Ma ci sono cose che nessuno ti spiega e che mai capisci. Come quella stronza pseudo secchiona alle medie. –
Tentava di fare uscire i peggiori aggettivi senza risultare volgare, ma lasciando intendere quanto odio e rancore provasse ancora.
-Lei era sempre seduta con me, mi seguiva sempre. Capitava di rado che litigavamo, o se lo facevamo era colpa dei suoi genitori. Sì, dire che si intromettessero nella sua vita è un eufemismo. Era la classica santarellina, sempre studiosa, sempre pronta a spiegare, ad essere interrogata. Sempre con la lacrimuccia in bilico, se sa di cosa sto parlando. Be’, forse perché ero più intelligente di lei, riuscivo a sopportarla, a sottomettermi ai suoi discorsi enfatizzati all’esaurimento. Ma una cosa è sicura, quei suoi genitori, mai potei capirli. –
Lui la guardava serio, con il corpo in ascolto e apprendimento. Non avrebbe osato interrompere l’eloquio per nulla al mondo.
-Purtroppo, quando racconto delle persone, lo faccio perché mi hanno fatto male, perché mi hanno fatto un torto. Così possono essere anche mondiali portatori di pace, dei; ma esce dalla mia descrizione solo il loro peggio. Dunque riduca al minimo ciò che le sto raccontando fin ad ora. –
Annuì.
-Dunque, al terzo anno, quello decisivo, non le andava a genio come le stavo sottraendo il posto di reginetta dell’intelletto. Doveva fare qualcosa, per togliermi di mezzo, per farmi apparire orribile, oscena. Diceva che da tempo respirava aria cattiva in quella classe, sosteneva che tutti ce l’avessero con lei: non lasciava copiare nessuno, rispondeva correttamente alle domande poste agli altri e spesso corrompeva con la sua dolcezza la mente fredda di molti insegnanti. Giuro che però fino all’ultimo (o penultimo, dovrei dire), l’avevo sempre difesa. Avevo sempre detto “Ma povera Imma, avrà il suo carattere, ha bisogno di comprensione”. No! No! Non andava mica bene. Ormai ero nella sua mira, nella mira dei suoi genitori. Doveva sparare, dovevano ferirmi. Così, uscì fuori la storia dei lividi e dei morsi. Secondo sue recenti e passate analisi scientifiche del corpo, aveva fotografato i danni riportati dai morsi e dai lividi che le avevo lasciato addosso. Neanche fossimo amanti, mr. Irons! Decidendo di mostrarle al direttore scolastico, innescò così la sua bomba. Il putiferio. I professori si servirono di uno dei nostri compagni per risalire alle nostre conversazioni in chat di gruppo, chat nelle quali avevo lasciati alcuni messaggi scurrili e con un linguaggio poco consono. Messaggi dove spiegavo il mio disappunto, dove dicevo che l’intervento della madre di Imma era anche esagerato e che darci ansia per niente, era il suo principale scopo. –
Gli occhi dell’uomo iniziarono ad illuminarsi. Mai aveva amato tanta teatralità.
-Può bene immaginare la reazione dei miei genitori, appena saputo l’accaduto sotto forma di versione dei genitori di Imma, meglio chiamata la versione di chi non sa ma adora raccontare. Il continuo del putiferio, insomma. O più semplicemente, per una ragazzina di dodici anni, la fine della sua vita, la perdita della credibilità, della fiducia e dell’affetto, del rispetto degli altri e della stima. Chiusa questa storia e aperto l’eterno litigio e la spietata indifferenza, iniziò un periodo di ansie, di odio da parte degli insegnanti, di puntualizzazioni inutili e ostacolanti e di divieti e negazioni. La maturità di donne e uomini sui cinquanta messa alla pari di quella di adolescenti. –
-E’ meglio che lei abbia vissuto questo in giovane età e che l’accaduto sia stato così poco grave. E’ riuscita comunque a recuperare il tutto, altrimenti non avrebbe l’ambizione di stare qui. –
-E’ facile dirlo. Sentirsi umiliati e soli è una sensazione che non finisce. Scorrono ancora nella mia testa le immagini della mia frustrazione, della sua vittoria e del loro menefreghismo. Non c’è bene che vinca, su questo mondo. -
   
 
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