Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: MZakhar    01/10/2015    3 recensioni
A chi non è mai capitato di affogare la propria delusione nell'alcol?
Sicuramente è successo a Vittoria – 23 anni, operatrice di un call-center – quando il suo, cosa? capo? fidanzato? amante?, ha deciso di darle buca proprio la sera in cui lei si aspettava di ricevere il tanto agognato anello... Ma si sa che l’alcol porta solo guai, soprattutto se brindando hai indossato vestiti firmati e affascinato ogni uomo del pub. Per questo al suo risveglio, non ricordandosi gran parte della serata, Vittoria sente di aver fatto qualcosa di sbagliato. Qualcosa che ha il volto di un uomo affascinante di cui non sa nemmeno il nome. Eppure... cosa sarà vero e cosa farà parte dell’immaginazione? A Vittoria non resterà che scoprirlo a proprie spese e per la prima volta, forse, riuscirà finalmente a vedere la sua vita dalla giusta prospettiva...
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic



1
H I G H W A Y   T O   H E L L



Pioveva.
Guardai fuori dalla porta-finestra e mi ammosciai sul tavolo; era possibile che per tutta la settimana ci fosse stato il sole e avesse deciso di diluviare nel weekend? Proprio stasera che avevo un appuntamento importante con Carlo... Che tristezza! Non pensavo che il tempo avrebbe potuto essere davvero un impedimento alla nostra serata, tuttavia ebbi paura che la sua compagna avrebbe cercato di tenerselo al calduccio a casa e gli avrebbe chiesto di non uscire.
Chiusi gli occhi per qualche istante e sospirai. Improvvisamente mi sentivo davvero patetica. Frequentavo un uomo già impegnato, lavoravo per lui fingendo che fosse solo il mio capo e guadagnavo una miseria, appena sufficiente per pagarmi le bollette. Come mi ero ridotta così? Probabilmente nella mia vita precedente avevo fatto qualcosa di terribile. O forse alla sfortuna piaceva il mio monolocale al sesto piano, pieno di spifferi e con la caldaia quasi arrugginita.
No. Mi stavo autocommiserando un’altra volta! Quante volte mi dovevo ancora ripetere di restare positiva? Carlo avrebbe lasciato la sua ragazza molto presto, dopodiché ci saremmo trasferiti in una casetta sulla spiaggia e lì avremmo aperto un gastro-pub che avrebbe fatto un sacco di successo.
Sì, era così che sarebbe andata!
Con questo spirito mi alzai e andai allo specchio del bagno, rivolgendomi un sorriso incoraggiante. Il mio riflesso lo ricambiò storcendo la bocca in una smorfia. Potevo sforzarmi di sorridere ancora a lungo, non avrebbe abbellito l’orribile cera che avevo: i capelli si erano appiccicati alla fronte come alghe rosse, la pelle aveva un colorito grigiastro e le sclere erano iniettate di sangue. Colpa della sbronza di ieri sera, senz’altro! Quante volte ancora mi sarei lasciata trascinare nelle bravate di Giorgia? Aprii un’anta dell’armadietto sotto il lavello e presi il collirio, mettendomene due gocce negli occhi. Cos’era che le avevo aiutato a sgraffignare stavolta? Uno di quei costosissimi accendini col tappo, e doveva essere successo mentre il tabaccaio – un ometto basso, panciuto e spelacchiato – era stato troppo impegnato a guardarmi dentro la scollatura. Adesso capivo perché Giorgia aveva preteso che mi sbottonassi la camicetta quasi fino allo stomaco. Quella ragazza aveva bisogno di un uomo che le mettesse la testa a posto! Io avevo provato a parlarle, davvero. Ma ogni volta era andata a finire che mi aveva riempito un bicchiere di tequila (sapendo che non avrei resistito) e avevo perso il filo del discorso. E naturalmente Giorgia ne aveva approfittato per non tornare più sull’argomento e riempirmi nuovamente il bicchiere. Dopodiché mi aveva trascinato in giro per la città a compiere atti di cui entrambe sapevamo mi sarei pentita il giorno successivo. Il rimorso era stata la sensazione che avevo provato anche stamattina. Se non altro – anche se di certo non era una scusa accettabile – stavolta si era trattato solo di un accendino, a differenza della scorsa settimana, quando si era portata via una borsetta di Chanel. Come ci fosse riuscita, non volevo ricordarmelo!
Aprii il rubinetto dentro la cabina della doccia e attesi il solito schiocco della caldaia al di là della finestrella. Miracolosamente ci mise solo cinque minuti per accendersi, forse perché prima avevo usato l’acqua calda per lavare i piatti. Non indugiai comunque troppo a mettermi sotto il getto, quella ferraglia avrebbe potuto spegnersi quando meno te lo aspettavi e lasciarti tutta insaponata, a tremare di freddo.
Mentre mi stendevo il bagnoschiuma sulla pelle, mi tornò in mente l’ultima volta che io e Carlo ci eravamo visti. Era successo a casa sua, durante il viaggio di lavoro della sua compagna. Quel giorno avevamo fatto l’amore in ogni angolo della loro casa e ci eravamo concessi un lungo bagno nella jacuzzi. Per l’occasione, Carlo mi aveva preso degli oli profumati, impegnandosi a stenderli ovunque potessero arrivare le sue mani. Inutile sottolineare che la cosa era piaciuta così tanto a tutti e due che eravamo finiti per fare l’amore anche dentro la vasca.
Al solo ricordo sentii le farfalle nello stomaco. Carlo mi mancava da morire. Avrei voluto baciarlo, accarezzarlo e lasciarmi andare a lui senza preoccuparmi che da un momento all’altro sarebbe stato costretto a correre da un’altra donna. Certo, mi rendevo contro che era sbagliato volere l’erba del vicino, ma non ero stata io a cercarmela.
Convinta delle mie ragioni, uscii dalla doccia coprendomi con un asciugamano. Poi andai all’armadio e controllai che il vestito rosso che mi aveva regalato mamma fosse ancora dentro la sua scatola, intatto e pulito. Lo tirai fuori ammirandolo, ringraziandomi mentalmente per non aver opposto resistenza quando mamma aveva deciso di comprarmelo. Sarebbe stato perfetto per una serata tanto speciale!
Era stata Francesca a innescare tutto, quando stamattina mi aveva chiamata per raccontarmi di aver visto Carlo uscire da una gioielleria con un pacchettino in mano. E si dava il caso che la gioielleria in questione fosse stata la stessa in cui avevo adocchiato un meraviglioso solitario due settimane prima, sbavando senza ritegno sulla vetrina. Dentro la mia testa avevo già immaginato ogni dettaglio: Carlo che mi dichiarava il suo amore eterno, l’anello che brillava timidamente sul mio dito e le mie colleghe che schiantavano d’invidia, domandandomi chi fosse il mio misterioso corteggiatore. E a quel punto io mi sarei scambiata una fugace occhiata con Carlo che avrebbe sorriso soddisfatto sotto i baffi. Non potevo sbagliarmi, l’anello sarebbe stato mio! Dopotutto Carlo mi aveva chiamato subito dopo Francesca e mi aveva dato appuntamento in un ristorante di quelli costosi, raccomandandosi di essere elegante.
Oh, sarei stata la donna più felice di questo mondo!
Feci una giravolta col vestito accostato al petto e per poco non finii per sbattere contro il comodino. L’asciugamano mi cadde e nello stesso istante uno spiffero d’aria fredda entrò dagli infissi, facendomi battere i denti. Allora corsi indietro nel bagno, al calduccio, pensando di iniziare con i preparativi per la cena. Mi impegnai per più di un’ora con il phon e la spazzola, mi truccai seguendo un complicato tutorial su YouTube e infine mi vestii, approfittando dell’occasione per sfoggiare non solo l’abito ma anche il mantello di Burberry che mi aveva regalato Carlo a Natale. Sarebbe stato perfetto. E aveva pure smesso di piovere!
Impaziente, ignorai il fatto di essere in anticipo e decisi di uscire.
Nell'ascensore incontrai la signora Petrelli, salutandola con un caloroso gesto della mano. In genere non accadeva mai perché non facevamo altro che litigare, per lo più per il fatto che mi rifiutavo di partecipare alle riunioni condominiali. Ma il mio coraggioso atto a quanto pare l’aveva confusa a tal punto che non riuscì a farmi la solita predica né si lamentò del fatto che i miei tacchi avrebbero disturbato il suo sonno quando sarei rientrata, e mi appuntai mentalmente di farlo più spesso.
Fuori non faceva tanto freddo quanto mi sarei aspettata, anche se i minacciosi nuvoloni neri erano sempre lì, in agguato. Nella fretta però non avevo pensato all’ombrello e non avevo voglia di tornare in casa a prenderlo. Quindi, augurandomi che non iniziasse a piovere un’altra volta, m’incamminai a passo lento lungo il viale che costeggiava il fiume fino a giungere al punto in cui sboccava nel mare, giusto a pochi metri dal ristorante in cui Carlo aveva prenotato a mio nome. Il posto si chiamava “L’orizzonte” ed era davvero uno spettacolo, con gente alla moda e macchine costose parcheggiate all’ingresso. All’inizio fui intimorita dal maître che sostava fuori in attesa dei clienti, ma quando lui si dimostrò disponibile tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai accompagnare fino a un tavolino sulla terrazza da cui si poteva godere di una fantastica vista sul molo. Mi aveva pure scostato la sedia, tolto il mantello e domandato se desiderassi dare un’occhiata alla carta dei vini che io avevo rifiutato chiedendo solo dell’acqua. Dopo la serata con Giorgia mi sembrava la scelta più saggia. Il maître aveva annuito e un minuto dopo mi aveva mandato un cameriere con una bottiglia d’acqua delle alpi.
«Desidera altro?», domandò questo.
«Preferisco aspettare il mio amico», risposi, e lui se ne andò senza insistere.
Lo osservai sparire dentro la sala al coperto e controllai l’ora sul telefono: erano appena passate le sette e mezza e ciò significava che avevo ancora un sacco di tempo a mia disposizione. Così mi misi a giocare a una battaglia online, fingendo di fare qualcosa di importante. Una decina di minuti più tardi però me n’ero già stufata e avevo staccato, guardandomi attorno in cerca di una distrazione. La mia attenzione fu catturata dall’anziana coppia a pochi tavoli di distanza da me; quei due si stringevano le mani come se fossero ancora in luna di miele e li invidiai tantissimo. Anche io e Carlo saremmo invecchiati guardandoci negli occhi e amandoci come il primo giorno?
Il fatto che non fosse ancora arrivato mi spinse a controllare l’ora ancora una volta. I numeri digitali mi informarono che mancavano appena dieci minuti alle otto. Strano che non fosse già qui, era sempre stato lui quello in anticipo e io la ritardataria... ma chissà! Magari in questo preciso momento lui stava rompendo con la sua compagna, svelandole il nostro segreto perché voleva fare finalmente le cose nel modo giusto. Alle otto però mi ricordai che mi aveva parlato di un appuntamento di lavoro a Genova e questo mi indusse a pensare che forse aveva avuto un contrattempo e avrebbe tardato di qualche minuto. Tuttavia alle otto e dodici non si era ancora visto e cominciai a tamburellare con le dita sul tavolo e a mordicchiarmi il labbro inferiore, infischiandomi di averci messo un quarto d’ora per applicare il gloss.
Il cameriere passò per chiedermi se desiderassi un antipasto e il mio stomaco ruggì selvaggiamente. Sicura che l’avesse sentito anche lui, mi vergognai un sacco e ci tenni a puntualizzare che oggi mi ero accontentata solo della colazione – con una mela e del succo ACE per di più – e che avrei gradito qualche crostino con salmone che mi stava suggerendo. Me li portò quasi subito e io ne sgranocchiai un paio, finché non notai che erano ormai le otto e trenta e il mio stomaco si chiuse. Il buonumore iniziò a dissiparsi lasciando posto alla preoccupazione mista a irritazione. Di conseguenza presi il telefono e composi a memoria il numero di Carlo. Il telefono squillò a vuoto e al quarto tentativo mi diede addirittura la segreteria. Non riuscivo a crederci. Aveva spento il telefono?
«Tutto a posto signorina?», domandò avvicinandosi il maître.
Doveva aver notato la mia espressione sconvolta e si era preoccupato che ci fosse qualcosa che non andava con il cibo.
«Sì», gli assicurai.
«Il suo accompagnatore non si unirà a lei per cena?», s’interessò allora.
«Non penso», replicai tornando a guardare il cellulare.
«In tal caso desidera ordinare?».
«No».
«Nessun problema, provvederò immediatamente a farle avere il conto».
Il conto?
Alzai gli occhi dal telefono per guardare il maître, ma la sua figura da pinguino stava già svanendo dentro il salone. Allora la mia fronte si imperlò di sudore e mi domandai quanto potessero costare una bottiglia d’acqua e cinque crostini in un posto simile. La risposta mi lasciò a bocca aperta! Impossibile credere a quello che stavo leggendo sullo scontrino...
«Siete andati direttamente sulle alpi a prendere l’acqua e il salmone?!», mi lamentai, tirando il portafoglio fuori dalla borsetta.
Il maître, evidentemente non abituato a certe reazioni, abbandonò per un attimo la sua postura rigida e sbatté un paio di volte le palpebre. Poi mi studiò attentamente dalla testa ai piedi e fece una smorfia.
«Se non può permettersi di pagare...», insinuò.
Aveva alzato la voce un po’ troppo e la gente attorno a noi si voltò nella mia direzione, facendomi sentire malissimo.
«Sa una cosa?», replicai allora, sbattendo sul tavolo una banconota da cinquanta, «Si tenga pure il resto!».
E con questo mi alzai e abbandonai la terrazza per dirigermi verso il centro. Solo una volta che ebbi attraversato i prati di Piazza Grande mi venne in mente che mi ero scordata il mantello, ma di tornare indietro non se ne parlava neanche! Sarei passata a recuperarlo domani a pranzo o un altro giorno, in un posto del genere non correvo il rischio che qualcuno me lo potesse rubare. Adesso invece avevo bisogno di abbandonare tutti i miei buoni propositi e di bere della buona tequila. E l’unico posto in cui potevo trovarla a un prezzo irrisorio – dopo quello che avevo sborsato al ristorante non potevo permettermi grandi spese – era “La tana del lupo”, un vecchio pub su una stradina laterale a due passi dalla Coin.
Lì andai, facendo tintinnare il campanello sopra la porta d’ingresso quando l’ebbi spalancata. Tutti gli occhi si puntarono subito su di me e intuii che il problema stava nel mio abbigliamento: avrei potuto scommetterci una mano che nessuno dei presenti avesse mai visto una giovane donna in ghingheri qui dentro, nemmeno da sbronzo. E il fatto che il mio abito fosse pure di un rosso acceso mi garantì di non passare inosservata. Attraversando il salone infatti un tizio mi fischiò e un altro si alzò per gridare di unirmi al loro tavolo. Li ignorai entrambi, accomodandomi con la grazia di Godzilla sullo sgabello di fronte al bancone.
Il barman, che all’apparenza era un ragazzino appena maggiorenne, mi fece l’occhialino e si sporse verso di me in attesa dell’ordine.
«Vorrei della tequila, sale e limone», dissi con voce piatta, facendogli capire che non ero interessata ai bambini.
Leggermente deluso, il ragazzino andò a prendere la bottiglia e un piattino. E mentre lui tagliava due fette di limone io riprovai a comporre per ben due volte il numero di Carlo. Ma niente da fare, il bastardo continuava a essere irraggiungibile.
«Fanculo!», sputai allora buttando giù.
Non lo sopportavo quando mi abbandonava così, senza spiegazioni!
«Wow», sentii dire all'uomo accanto a me, «Qualcuno deve averti fatta incazzare sul serio».
Gli scoccai un’occhiataccia.
«Non penso che ti riguardi», risposi sinceramente.
Intanto il barman mi servì, perciò mi inumidii la pelle tra l’indice e il pollice e ci misi su il sale. In seguito lo leccai, buttai giù lo shottino e dopo aver morso una fetta di limone chiesi di riempirmi di nuovo il bicchiere.
«...è che non ho mai visto una ragazza tanto carina bere come se non ci fosse un domani», riprese lo sconosciuto dopo una breve pausa.
Io sospirai e mi voltai per fronteggiarlo.
«E la cosa ti crea qualche problema?», domandai già sul piede di guerra.
Lui alzò le mani in segno di resa e il barman mi versò altra tequila. Ripetei il rituale più veloce di prima e pretesi un altro giro. Mentre il ragazzino si apprestava ad accontentarmi, al bancone arrivò un omone pieno di tatuaggi, strizzato dentro una maglietta nera. Ordinò una doppio malto e mi mise una manona sulla spalla.
«Che ci fa una donna come te tutta sola?», chiese esibendo un sorriso che non mi piacque affatto.
M’irrigidii, sentendo la spalla andare giù sotto il suo peso. Avevo ancora lo spray al peperoncino dentro la borsa? Altrimenti non avrei esitato a infilargli un tacco nell’occhio...
Ma con mia enorme sorpresa e sollievo non ci fu bisogno di gesti estremi. Anche l’uomo accanto a me mi mise una mano addosso, più precisamente attorno alla vita, sottraendomi con un’abile mossa alla presa del gorilla.
«Chi l’ha detto che la mia ragazza è qui da sola?», chiese candidamente.
L’altro lo squadrò riducendo gli occhietti già piccoli in due fessure minuscole e capii che non gli credeva. Allora feci l’unica cosa che mi venne in mente: mi tirai indietro sullo sgabello e mi spalmai sopra lo sconosciuto, rivolgendo all’omone un sorriso raggiante.
«Sarà per un’altra volta», dissi.
Lui continuò a squadrarci. Il dubbio nel suo cranio lucido era palpabile: da una parte c’era una fanciulla che sembrava pronta per il “Red Carpet”, dall’altra un giovane uomo con la giacca in pelle e jeans strappati che sorseggiava una birra. Non ci avrei creduto manco io. Neanche se fossi stata davvero la ragazza del tizio alle mie spalle.
«Sai, la sua serata tra donne è saltata ed è un po’ infastidita stasera», intervenne quest’ultimo quasi a voler giustificare la differenza d’abbigliamento e mi diede un fugace bacio tra i capelli.
Frenai la voglia di scansarmi e mi strinsi nelle spalle.
L’omone ci studiò ancora per un secondo, poi prese la sua birra e se ne andò sbattendo la porta d’ingresso. Finalmente lasciai andare il fiato e il tizio accanto a me si mise a ridere. Mi tolse subito le mani di dosso.
«Lo trovi divertente?», gli domandai rimettendomi in sesto.
In tutta risposta lui afferrò il mio sgabello e se lo tirò più vicino.
«Nel caso tornasse», spiegò con nonchalance.
Io sbuffai e ripresi a bere. Ero arrivata al terzo giro e cominciai ad avere un po’ di caldo.
«Però su una cosa ha ragione», riprese il tizio, «Non dovresti girare da sola in certi posti».
Mi feci riempire un’altra volta il bicchiere di tequila e la buttai giù così, senza né sale né limone, accusando il terribile impatto con lo stomaco. Presi persino a tossire, spingendo il tizio a darmi qualche barbara pacca sulla schiena.
«Non-sarei-sola-se-qualche-porco-non-mi-avesse-dato-buca!», mi lamentai tra un colpo di tosse e l’altro.
Non avrei dovuto bere la tequila liscia, sapevo che non l’avrei retta. Eppure l’avevo fatto e avevo intenzione di rifarlo ancora.
«Oh!», esclamò il mio finto fidanzato, «Il problema è un uomo, quindi...».
«E non solo il mio», grugnii, chiedendo al barman un altro schottino.
Il ragazzino esitò ma non disse niente. Evidentemente cominciavo ad avere una brutta cera.
«Versane uno anche a me e metti tutto sul mio conto», chiese il tizio.
«Oh!», esclamai allo stesso modo, «Cerchi di comprarmi, quindi...».
Lui arricciò la bocca in un sorrisetto e mi guardò dritto negli occhi.
«Sta funzionando?».
Ricambiai l’occhiata, stringendo le palpebre per sembrare minacciosa e rimanemmo a fissarci a questo modo per un po’, finché il mondo non iniziò a perdere i contorni e non ressi più.
«Al diavolo...», borbottai allora, allungando una mano verso il bicchiere.
Ma il mio finto fidanzato fu più veloce e me lo sfilò da sotto il naso portandoselo alla bocca.
«Hei!», protestai, «Hai già il tuo!».
In quel momento mi squillò il telefono e dovetti rinunciare al mio bicchiere per tirarlo fuori dalla borsa. Mi si annodò lo stomaco quando lessi sullo schermo il nome di Carlo. Aprii il suo messaggio e m’incupii. Diceva solo:

SCS.
GROSSI PROBLEMI A CASA.
GIURO CHE MI FARO’ PERDONARE.


Problemi a casa? E di che genere? La sua compagna stava di nuovo cercando di tagliarsi le vene per sport? Avrebbe potuto anche avvertirmi!
Sentii l’urgente bisogno di annaffiare l’odio che mi stava salendo con altra tequila.
«Tutto bene?», domandò il tizio percependo il mio improvviso cambio d’umore.
Io però mi rivolsi direttamente al barman: «Voglio tutta la bottiglia», dichiarai.
Il ragazzino assunse uno sguardo attonito, spostando gli occhi da me all’uomo al mio fianco. Non potevo biasimarlo. Stavo mettendo a dura prova il mio limite di resistenza all’alcol. Un altro bicchiere sarebbe bastato a mettermi K.O., era evidente. Ma il problema era che era esattamente ciò che volevo. Lo capì anche il mio finto fidanzato e il suo sguardo si fece più attento, seppure non cercò di fermarmi. Al contrario, fece un cenno al ragazzino insinuando di portare la bottiglia. Quello si oppose spiegando che fosse contro le regole, il cinquantino però risolse ogni cosa e presto lo sconosciuto reggeva una bottiglia tra le mani. Okay. In realtà era solo una mezza bottiglia, ma non me ne serviva di più. Sorrisi al mio benefattore e i suoi occhi scuri presero a vorticare leggermente. Allora strinsi le palpebre per un secondo e lo rimisi a fuoco, allungando poi una mano verso la bottiglia.
«No», disse lui, «I soldi erano miei, perciò decido io come spartircela».
Feci una smorfia.
«Se vuoi che mi tolga la maglietta, scordatelo!», lo avvisai.
Lui inarcò un sopracciglio.
«Tu non porti la maglietta», osservò.
Mi guardai la scollatura a cuore del vestito: touché!
A questo punto ci fu una pausa e il barman ne approfittò per dileguarsi, in parte perché non voleva più assistere e in parte perché era arrivata l’ora di mettere la musica. Lo osservai trafficare davanti lo stereo con alcuni CD, riflettendo.
«Che cosa vuoi?», domandai infine.
Il tizio si alzò dallo sgabello e mi porse una mano. Non ero sicura di volerla accettare, ma lo feci lo stesso. Fortunatamente aveva una presa abbastanza salda perché non appena mi alzai il mondo mi traballò sotto i tacchi e lui dovette sorreggermi.
«Stai cercando di rapirmi?», gli domandai, affrettandomi a liberarmi dalle sue mani.
Lui mi lasciò andare e curvò la bocca in un ghigno.
«Naturalmente. E poi farò fuori tutti i testimoni».
Mi accigliai, lui sospirò.
«Cambiamo solo posto. O vuoi bere direttamente dalla bottiglia davanti a tutto il pub?».
«Possiamo sempre riempire i bicchieri», gli feci notare.
Lui sospirò di nuovo.
«Quel ragazzino ha fatto uno strappo alla regola solo per noi. Cosa pensi che accadrebbe se vedendoci anche gli altri pretendessero di prendersi una bottiglia?»
Di fronte a questo ragionamento non trovai nulla da obbiettare. Quindi lo seguii a un tavolino rotondo in un angolo appartato, dove nessuno avrebbe fatto caso a noi – nemmeno con il mio vestito rosso acceso – e lì cercai di nuovo un contatto con la bottiglia.
«Sembri un’alcolizzata in astinenza», osservò il tizio, spostandola pazientemente più lontano da me.
«Per quel che ne puoi sapere, potrei anche esserlo», ribattei piccata.
Lui sbuffò e si tolse la giacca; la vista del fisico atletico che si nascondeva sotto il maglioncino mi spiazzò.
Lo sentii rivolgermi un altro ghigno.
«Adesso chi è la maniaca?», domandò.
Colta in flagrante preferii non rispondere.
«Okay, ti propongo di fare un gioco», proseguì lui, posizionando la bottiglia sul dorso, in mezzo a noi.
«Che gioco?».
«Un gioco molto semplice che di sicuro conosci: obbligo o verità».
«Oh, andiamo...», sospirai.
Lui mi zittì con un gesto della mano.
«Ognuno gira la bottiglia. Se si ferma su di te, scegli se preferisci dire la verità o se preferisci un obbligo. Stessa cosa vale per me».
«Le conosco le regole», osservai.
Lui mi zittì di nuovo.
«Qui però entra in gioco la variabile dell’alcol... Per ogni verità che dici e per ogni azione che svolgi, puoi avere un sorso dalla bottiglia. Altrimenti a bere sarò io. E viceversa».
«Che ne sai che dirò la verità?».
«Diciamo che mi fido sulla parola», sorrise, poi aggiunse: «Allora, ci stai?», e mi allungò una mano.
«Ci sto», gliela strinsi.
Quindi il barman mise su un CD degli AC/DC e il gioco partì a ritmo di “Highway to hell”.
Il primo turno fu il tizio a girare la bottiglia che si fermò dritto davanti a me, neanche a farlo apposta. Scelsi la verità e lui mi domandò il mio colore preferito. Una domanda che trovai un po’ stupida a cui risposi sinceramente «lilla», guadagnandomi così il tanto agognato sorso. Poi toccò a me, ma non ebbi la stessa fortuna e la bottiglia si fermò nel vuoto, perciò il tizio dichiarò che sarebbe stato lui a bere, dopodiché la ripose sul tavolo e la fece girare di nuovo. La bottiglia puntò abbastanza vicino a me da permettergli di farmi un’altra domanda sciocca, perché avevo preferito di nuovo la verità all’obbligo. Stessa cosa accadde al turno successivo. Alla fine venne fuori che io adoravo i gigli, che la musica che preferivo era quella contemporanea, a prescindere dal genere, e che ogni tanto mi piaceva andare a guardare l’alba dal tetto del condominio in cui abitavo.
«Mmmh», ci pensò su quando toccò di nuovo a lui, «Perché eri così arrabbiata stasera?».
Dovetti prendere un bel respiro prima di rispondere a questa.
«Perché Carlo è con un’altra stasera, anche se mi aveva promesso una serata romantica. Mi sono persino illusa che mi avrebbe regalato un anello e che avrei finalmente potuto permettermi di pensare al nostro futuro. Non ho più desiderato altro da quando abbiamo iniziato a frequentarci. Sono così stupida, non trovi?».
A questo punto calò il silenzio. Nella mia mente riaffiorarono le immagini di me, seduta da sola a un tavolo mentre Carlo stava probabilmente accarezzando Lisa, sussurrandole che la amava, e non riuscii a fermare le lacrime che presero a scorrermi silenziosamente sulle guance. Il mio nuovo amico attese che proseguissi ma non lo feci.
«Obbligo o verità?», gli chiesi di punto in bianco, anche se la bottiglia era rimasta ferma sul tavolo.
Lui non rispose e il suo pomo d’Adamo si mosse nervosamente su e giù.
«Obbligo o verità?», insistetti.
«Obbligo...», concesse.
Era la prima volta che uno dei due non sceglieva la verità. Non gli dissi comunque niente, mi limitai ad avvicinarmi e a guardarlo negli occhi. Forse era colpa dell’alcol ma notai finalmente quanto fosse carino, studiai il suo viso da bravo ragazzo e inspirai a occhi chiusi l’odore di menta del suo dopobarba e quello del respiro che sapeva di alcol.
Mi girava la testa.
«Senti...», provò lui, ma gli proibii di continuare.
Se poteva farlo Carlo, potevo farlo anch’io.
Prima che potessi cambiare idea, mi sporsi in avanti e lo baciai. Così, semplicemente. Sulle prime lui non ricambiò, poi però le sue mani mi corsero freneticamente sulla schiena e mi bloccarono in una forte stretta. Le mie lacrime si mescolarono sulle nostre labbra mentre prendevano velocità. Stringendomi a lui ne volli di più. Volli qualcuno che mi facesse sentire desiderata e che fosse solo mio. Anche se fosse stato solo per una sera.
Così persi definitivamente la cognizione di ciò che mi circondava...

Mi svegliai solo nel tardo pomeriggio, starnutendo. Ero stesa sul divano-letto del mio appartamento, la leggerezza della sera prima era svanita e adesso la testa mi pesava quanto un macigno. Di nuovo. Quando avrei imparato a dire di no alla tequila? Come se non mi rimproverassi abbastanza...
Cercai di alzarmi, ma il mondo prese a ciondolare, così dovetti ristendermi domandandomi di chi fosse la giacca nera buttata per terra. Ebbi un breve flash di due occhi scuri che mi scrutavano. Uno sconosciuto? Certo, il tizio del pub che si era finto il mio ragazzo... Non mi ricordavo il suo nome, però. Perché non mi ricordavo il suo nome? Divertente. Non ci eravamo presentati. Eppure ero certa che la giacca fosse sua. E perché la sua giacca doveva trovarsi sul mio pavimento? Un altro breve flash di labbra che sfioravano il mio collo e mi nascosi il viso tra le mani. Che diavolo avevo combinato?! Mi obbligai ad alzarmi e andai dritto verso l’armadietto delle medicine, presi due pasticche di aspirina e le mandai giù con mezzo litro d’acqua. Mi sforzai di nuovo di ricordare: il pub, lui, il gioco della bottiglia... Il suo colore preferito era il verde, non era fidanzato, era appena tornato dall’America. D’accordo, e poi? Tutto si faceva più confuso. Gettai un’occhiata fuori dalla finestra dal lato della cucina come se potesse aiutarmi in qualche modo. Fuori pioveva anche oggi. Starnutii di nuovo e mi toccai il vestito, quasi a volermi accertare che non me lo stessi immaginando: era umido. Avevo dormito così? Non mi stupii più di sentire un leggero bruciore al petto. Lo tolsi immediatamente per non rischiare di prendermi una brutta influenza e corsi in bagno. Avevo intenzione di farmi una doccia calda, ma prima dovevo schiarirmi la nebbia che avevo in testa. Perciò accesi il rubinetto e senza attendere lo schiocco della caldaia entrai direttamente sotto il getto freddo. Dieci minuti dopo mi sentivo già parecchio meno sbronza e l’acqua cominciava a diventare tiepida, riscaldandomi la pelle d’oca. Continuavo a non ricordarmi nulla, però. Solo brevi frammenti di qualcosa che non aveva senso. Come le mie gambe avviluppate attorno alla sua vita o il modo in cui ridevamo mentre lui mi tirava su.
Accidenti!
Ebbi paura di aver tradito Carlo... Ma era possibile tradire qualcuno che nemmeno ti apparteneva? Chiusi il rubinetto dell’acqua e mi avvolsi nell’asciugamano. Fissai distrattamente le pantofole di pelo lilla e con gesta meccaniche andai a mettermi un pigiama.
Che cosa avrei dovuto fare ora?

Lunedì mattina ero ancora indecisa.
Avevo passato tutta la domenica a torturami sui miei ricordi (e a ignorare le chiamate di Carlo), ma alla fine non ne avevo ricavato nulla di buono. Dovevo confessare tutto? Non lo sapevo, non ne avevo semplicemente il coraggio. Allora, mentre scendevo nel garage per recuperare la macchina, avevo deciso che avrei agito sul momento. Ma quando arrivai in ufficio le ginocchia mi tremarono e fui sul punto di tornare a casa e telefonare per darmi malata, ma venni intercettata da una vocina squillante.
«Ah eccoti!», esclamò Valentina, materializzandosi davanti a me come un Dissennatore, «Sei di nuovo in ritardo! Per fortuna la riunione non è ancora iniziata. Carlo è decisamente troppo buono con te!», si lamentò.
Le diedi il buongiorno e finsi di non aver sentito il resto. Di tutti i miei colleghi, Valentina era sicuramente la più irritante. Nei suoi quarantasette anni non si era mai sposata né l’avevamo mai sentita parlare di un uomo da quando lavorava qui. Probabilmente non esisteva niente che potesse interessarle più del suo posto di Responsabile e pur di tenerselo sarebbe passata sui nostri cadaveri. Il che era abbastanza comico, considerando che nessuno di noi era interessato a far carriera dentro un call-center.
«È già arrivato?», le domandai quindi, riferendomi al nostro capo.
«Prima di te!», puntualizzò lei, gettandomi un’occhiata torva.
Mi limitai a ringraziarla e mi dileguai tra le scrivanie salutando qua e là con la mano. Valentina fortunatamente non mi seguì e rimase dov’era, ricordando un minaccioso folletto con le mani piene di scartoffie. Riuscivo quasi a sentire i suoi occhi puntati come spilli sulla mia schiena e rabbrividii, tirando dritto verso la macchinetta del caffè. Da qui non avrebbe più potuto osservarmi e avrei avuto ancora qualche secondo per decidere se andare da Carlo e parlargli o se lasciar perdere e dimenticare tutto. La seconda soluzione fu senza dubbio la più allettante, ma se le avessi dato corda i sensi di colpa mi avrebbero tormentata fino alla fine dei miei giorni. Per cui presi il mio caffelatte e con un profondo sospiro mi inoltrai nel corridoio che portava all’ufficio del mio capo. Camminai a passo svelto, voltandomi ogni tanto indietro per assicurarmi che non ci fosse nessuno. Il mio cuore batteva come un tamburo e quando arrivai alla porta pensai che sarebbe scoppiato. Mi servì qualche secondo prima di convincermi a bussare, dopodiché attesi trattenendo il respiro. Ma nessuno venne ad aprire. Allora riprovai ancora e ancora, senza alcun risultato. Non seppi che pensare, forse il destino non voleva che lo facessi, dopotutto.
Leggermente frastornata, girai sui tacchi per tornare indietro. Avevo lo sguardo fisso per terra, perciò non lo notai prima che fosse troppo tardi. Gli andai a sbattere contro e imprecai.
«Buongiorno...», disse freddamente Carlo.
Il suo tono mi spiazzò. Alzai gli occhi e incontrai i suoi che mi fissavano inespressivi.
«Ti stavo cercando», ammisi, cercando di capire da dove iniziare.
Lui inarcò un sopracciglio, gettò un’occhiata alle scale che portavano al piano superiore e incrociò le braccia al petto.
Questo atteggiamento mi irritò un sacco. Non ero solo uno dei suoi affari, Santo Cielo!
Insistetti: «Devo parlarti di una cosa importante, Carlo».
Lui controllò l’ora sul polso e gettò di nuovo un occhiata alle scale.
«Non può aspettare?».
A quel punto fui tentata di buttargli il caffelatte in faccia e scatenare l’inferno. Dio volle che il buon senso prevalesse. Cercai di ricordarmi che io non ero fuori di testa come la sua compagna, perciò non mi sarei gettata a terra e non mi sarei comportata da isterica. Presi solo un profondo respiro e chiusi gli occhi un momento per organizzare le idee.
Quando li riaprii, pronta a parlare, per poco non mi prese un colpo: dalle scale stava scendendo una persona che mi era famigliare, una persona di cui non conoscevo il nome ma lo sguardo e la morbidezza delle mani.
I nostri occhi si incrociarono e mi si paralizzò il sangue nelle vene.
Carlo seguì la direzione del mio sguardo e al contrario di me, sul suo viso apparve l’accenno di un sorriso.
«Mi stavo giusto chiedendo che fine avessi fatto», disse.
Da un momento all’altro avrei iniziato a iperventilare.
Il tizio del pub inclinò leggermente la testa – senza dubbio mi aveva riconosciuta – dopodiché i suoi occhi corsero da me a Carlo e da Carlo a me, e capii che lui sapeva. Mi prese il panico; gliel’avevo raccontato io? Avrei voluto non avere un dannato buco nero al posto dei ricordi!
Lui mi scrutò ancora qualche secondo, poi si rivolse a Carlo: «Vi ho interrotti?».
«No, figurati», rispose il mio capo, studiandomi quasi fossi capitata lì per caso, «Stavamo giusto discutendo della riunione», mentì.
Io non mi mossi. Tutto questo era surreale.
«Nicholas Gordon», disse allora il tizio allungandomi una mano.
«Vittoria Bianchi», farfugliai allungando la mia.
Non appena le nostri mani si toccarono fui investita da diversi flash: lui che mi stringeva per la vita, le mie dita tra i suoi capelli, l’odore di menta, la pioggia... Mi staccai d’un colpo. Carlo si accigliò e Nicholas parve trovarlo divertente. Mi domandai quanto di tutto ciò si ricordasse lui? A giudicare dalla sua espressione, decisamente più di me.
«Allora, andiamo?», intervenne Carlo, facendosi da parte per far passare il suo ospite.
Nicholas annuì e lo sorpassò, gettandomi un’ultima occhiata.
«Parleremo delle tue problematiche in un altro momento, Vittoria», mi disse Carlo prima di andarsene anche lui.
No, pensai, non ne avremmo più parlato...
Ma in che razza di guaio mi ero cacciata?



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Buonasera miei cari! Inizio dicendo che era una vita che non mi decidevo a scrivere una long... e ora che l’ho fatto, be’, mi ci vorrà qualche capitolo per riuscire a ingranare la marcia XD Detto ciò, sarei felice di ricevere critiche costruttive, perché questo capitolo l’ho riletto tante di quelle volte da saperlo ormai a memoria, perciò non mi accorgo neanche più degli eventuali sfondoni XD
Now... Passiamo alla storia: I guai per la cara Vittoria sono appena iniziati! Mi commuovo a pensare che sembra quasi una storia educativa, della serie “guarda che ti capita a bere troppo!”... Ma non lo è, perciò non aspettatevi personaggi carini e raffinati XD Per ora comunque non aggiungo altro :)) Aspettiamo e vediamo come si evolve tutto! Fatemi anche sapere se siete curiosi di vedere i volti dei personaggi, nel caso posto le immagini sui miei social :D In ogni caso, presto arriverà anche il “banner” ufficiale del titolo a cui sto ancora lavorando..
In conclusione, mi auguro di vedervi in tanti... Ci ho rimesso il cervello per questa storia e spero ne sia valsa la pena XD
Un saluto!

M.Z.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: MZakhar