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Autore: _Breath    05/10/2015    2 recensioni
-Dafne Valenti?-
Dafne sorrise dolcemente, vagamente intenerita, sentendolo pronunciare il suo nome. A dispetto delle apparenze, Gabriele non era un suo normale coetaneo e non era neppure un deviato mentale come tutti le volevano far credere,ma era qualcosa di più. Un eterno Peter Pan o, magari, un Peter Pan che non aveva avuto la possibilità di crescere, che non era riuscito a varcare veramente il mondo degli adulti.
E lei aveva sempre voluto essere una Wendy.
-Si?-
-Se fossi stato un ragazzo normale, se fossi stato un tuo amico, proprio come quello lì, se non fossi stato un presunto pazzo chiuso da anni dentro uno stupido manicomio e non puzzassi come un cane abbandonato a se stesso in un deserto privo di acqua... Ecco... In quel caso, solo in quel caso, tu usciresti con uno come me?-
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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         Capitolo 4.


   Non aveva mai visto una creatura più silenziosa di quella. Probabilmente neppure le più astute delle volpi, quelle abituate a vivere nei boschi, quelle che si cibano della loro stessa furbizia, sarebbero riuscite a egualiare una simile e pacata tranquillità. Era così silenzioso da passare inosservato, quasi non esistesse.
Guardandolo Dafne ebbe il presentimento che forse  lui fosse veramente morto. 
Aveva grandi occhi chiari, ma non azzurri e neppure grigi. Erano un colore così chiaro da essere lontano dal verde bottiglia di Luca. A primo impatto le parvero gialli, poi semplicementi castani; infine si decise a classificarli come dorati. 
I suoi capelli biondi erano attaccati al volto, come se fossero sporchi e forse un po' lo erano; le bastò guardare le sue mani, le sue ginocchia e l'alluce del suo piede sinistro per capire che non vedeva un bel bagno caldo da minimo una settimana. 
Provò compassione oltre che- si vergognò anche solo a pensarlo- un po' di ribrezzo. 
Inoltre il ragazzo aveva le labbra sottili, screpolate, insanguinnate e terribilmente secche; Dafne si chiese se a ferirlo terribilmente fosse stata una tortura che si era inflitto autonomamente o la stessa vecchia bagascia di prima. Sperò terribilmente nella prima ipotesi, perché meno tragica e insopportabile. 
Con una lentezza inaudita si avvicinò a lui, sciogliendo per la prima volta il nodo di mani e pelli che si era adato a creare con Luca. Sentì il suo amico protestare in modo poco carino, quasi tenero, ma non se ne curò; il suo sguardo, in quel momento, era indirizzato solo verso quel ragazzo tanto vulnerabile  quanto autonomo. 
Qualcosa nel suo sguardo, infatti, lo rendeva diverso dagli altri pazienti in quella stanza. 
-Ciao, io sono Dafne Valenti.-
La sua voce, la udì anche lei, era molto simile a quella di un bambino delle elementari che si ritrova per la prima volta perso in un luogo a lui sconosciuto. Era spaventato quel bambino, esattamente come lei. Anche Dafne, infatti, se ne accorse solo dopo, aveva paura di quello che la circondava. 
Non avere Luca accanto a se le metteva ancora più soggezione di quanto avesse avuto prima; si sentiva debole, facilmente esposta ad ogni tipo di dolore emotivo, ma doveva andare avanti. Aveva ventidue anni, doveva crescere, e non poteva restare per sempre attaccata alla gonnella di una mamma, di una sorella, di un papà o anche di un migliore amico particolarmente simpatico.
Doveva crescere e crescere significava anche lasciarsi andare. 
Con un po' di riluttanza falsificò un sorriso. 
Il ragazzo avanti a lei, ancora rannicchiato in un angolo, smise per un solo istante di studiarsi l'unghia sporca dell'alluce, mosse le labbra in un muto discorso interiore, per poi alzare lo sguardo a fissarla. 
Qualcosa nel suo sguardo le fece intuire che era rimasto profondamente deluso tanto più che sbuffò a mezza voce, inclinò la testa verso destra e poi tornò a studiare i suoi piedi adunchi. Come se niente fosse. 
Dafne gonfiò le guance, sempre più simile a quella bambina infantile delle elementari che non veniva minimamente presa in considerazione il suo primo giorno di scuola. Avrebbe voluto battere i piedi per terra, urlare, prenderlo per le orecchie e sbattere la sua testa al muro. Avrebbe voluto urlargli: "Guardami, stupido deficiente!", ma la sua maturità in quel caso sarebbe andata allegramente buttata nel gabbinetto. E lei non era immatura, vero?
Trattenendo a stento la rabbia si sforzò di simulare tranquillità, cercando di tramutare il suo palpabile nervosismo in un sorriso cordiale. 
-E tu, invece? Quale è il tuo nome?-
Il ragazzo alzò nuovamente lo sguardo e ora, sotto la lieve luce al neon, Dafne riuscì a catalogare veramente il colore delle sue iridi: erano di un color nocciola brillante, quasi velato da uno strato di ingenuità pura che rendevano ancora più evidente il sole dentro quegli occhi. Un sole spento, pronto al tramonto, ma pur sempre incandescente, come una palla di fuoco pronta a donare luce. 
Lui, questa volta, parve essere interessato a mantenere viva la conversazione. 
-Io mi chiamo Gabriele Esposito. Sono gli altri che non chiamano me.-
Dafne sembrò sorpresa più dal fatto che lui le avesse risposto che da ciò che lui le disse veramente. Si accigliò, la fronte lievemente corrugata e gli occhi aggrottati; Luca, alle sue spalle, si avvicinò piano piano. 
-Non ti viene a trovare mai nessuno? Amici, parenti, familiari..- gli domandò ancora, ansia e paura che andavano lentamente scemando. Stava iniziando a calarsi perfettamente in quella stramba ma anche delicata, vera e profonda conversazione. Per la prima volta. 
-Io non ho amici. La mia unica famiglia è morta e mio padre mi odia. Sono solo, ma alcune volte la solitudine fa meno male di un compagno infedele: io so che non mi portò mai deludere.-
Dafne rimase sconcertata dalla freddezza e dalla serietà con la quale il ragazzo fece quella confessione; non era una frase gettata lì con foga e implusività, ma diversamente sembrava essere stata meditata e meditata a lungo. Lei ne rimase sconvolta. 
Con una rapida occhiata alle sue spalle cercò ancora lo sguardo di Luca che, diversamente da poco prima, trovò poco distante da lei; il suo migliore amico restava qualche metro più lontano dalla sua postazione, come se non volesse invadere la sua privacy e quella dello psicopatico avanti a lei, ma nonostante tutto li ascoltava- seppur senza malizia- per avere la certezza di poter intervenire in caso fosse stato necessario 
Dafne gli sorrise, teneramente riconoscente da quella dolce premura, poi si rivolse nuovamente a Gabriele, più forte e decisa di prima. E gli rispose. 
La sua voce tremò debolmente all'inizio della frase, quasi fosse emozionata, ma poi riacquistò il suo sangue freddo e la sua forza di volontà. 
-Come mai sei qui?- cercò di risultare poco interessata, vagamente curiosa, ma non ci riuscì; il suo tentativo di porre quella domanda falsificandola per una qualunque domanda di conversazione amichevole, proprio come se gli stesse chiedendo che tempo avrebbe fatto l'indomani secondo lui, andò velocemente perdendosi. 
Gabriele rise di lei, con gli occhi e con le labbra. Il suo sopracciglio si alzò lievemente mostrando una cicatrice sottile ma lunga tutto il suo sopracciglio, orizzontale e lievemente frastagliata. Dafne la studiò quella cicatrice, studiò ogni minima imperfezione su quel volto bello, sporco e scarno; cercò di curiosare a lungo tra le macerie interiori di Gabriele, quelle che avevano demolito talmente affondo la sua personalità da risultare anche visibili, ma invano. Lui si voltò velocemente mostrandole la schiena, ma con un sorriso sghembo che Dafne continuò a intravedere dalla sua posizione laterale. 
Gabriele sembrò vergognarsi di se stesso o forse, ma anche molto  probabilmente, si voleva solo divertire infastidendola. Proprio come se fosse un bambino. 
-Credevo che voi persone libere foste più intelligenti di noi, sai? Avete la possibilità di leggere, scrivere, confrontarvi fra di voi e anche studiare. L'ultima volta che ho visto un libro io è stato una decina di anni fa, magari qualcosa in più,  avevo dodici anni e leggevo ancora i fumetti di Topolino. Ma tu, ragazza mia, non credo  abbia un cervello poi tanto più sviluppato del mio, o forse no?- 
Dafne si sarebbe dovuta infastidire da quella sua acidità, da quella sua cattiveria e da quello scudo fitto e resistente dietro il quale si nascondeva. Se era riuscita a inquadrarlo almeno un po', si disse, Gabriele aveva solamente paura, paura di quel mondo emerso che si ritrovava a vedere per la prima volta da... dieci anni?
Un brivido di puro terrore le percorse la spina dorsale, facendola rabbrividire. Dieci anni? 
Era davvero passato così tanto tempo da quando quel ragazzo aveva avuto contatti umani? 
Probabilmente non poteva avere più di venticinque anni, perché ad occhio e croce le sembrò essere un suo coetaneo e anche di Luca. Forse, se solo il suo destino fosse stato diverso, sarebbero potuti diventare amici, avrebbero potuto frequentare la stessa università, diventare compagni di studi, studiare insieme per lo stesso esame.
 E invece, si chiese?
Gabriele era nascosto dentro quell'edificio che odorava ancora di piscio e corpo putrefatto da un decennio e forse anche qualcosa di più; era una destino orribile, una tortura inimmaginabile. Probabilmente lei avrebbe scelto la morte.
Invece di farla innervosire, l'atteggiamento di Gabriele le provocò compassione, tenerezza, tristezza. 
Sorrise dolcemente avvicinandosi a lui ancora di più. Si sorprese a pensare che quel ragazzo aveva sicuramente un carattere più forte degli altri pazienti che, come lui, erano rinchiusi lì dentro.
Gabriele- diversamente dalla donna che era stata maltrattata prima proprio davanti ai loro occhi, differentemente dall'uomo che si dondolava ripetutamente sul posto poco distante dall'ingresso e da un'altra donna che si mangiava le mani, piangendo, urlando e provocando attacchi di isteria nell'uomo accanto a lei che, disperato, si strappava continuamente i pochi capelli rimasti sulla sua testa- era un ragazzo forte; forse era leggermente chiuso, spaventato e aggressivo, ma non era pazzo. 
Forse era più sano di lei.
 Sicuramente era più sano di chi lo aveva spedito là dentro.
Con un sorriso e una carezza sul braccio martoriato da mille e più cicatrici, sorelle di quella che aveva sul viso, gli ripeté la sua domanda come se lui non le avesse minimamente risposto o, diversamente, non ci avesse nemmeno provato.
-Come mai sei qui dentro, Gabriele? Perché ti hanno spedito qui?-
Sentirsi chiamare per nome con tanta tranquillità e serenità fu per il ragazzo totalmente disarmante. Magari nessuno in tutta la sua vita lo aveva mai fatto sentire tanto importante come fece invece Dafne con un solo timbro di voce. Avrebbe sorriso, forse, se solo avesse avuto meno paura.
Gabriele non sorrise, ma diversamente da prima non la derise nemmeno. Le rispose normalmente, con serietà e un neutrale senso di angoscia. 
-Perché sono ritenuto pazzo. Loro credono che io sia pazzo e pensano che sia pericoloso per loro.  Mi hanno accusato di cose orribili, di cose disumane. Ma io sono umano, seppur loro non siano d'accordo con me.-
A Dafne mancò nuovamente il respiro che andò mozzandosi contro la sua trachea, perché quella voce di ragazzo -di bambino rinchiuso in un corpo di uomo, di un bambino che non ha potuto crescere, che non ha voluto farlo- la fece rabbrividire. Ancora. 
 -E quale è questa colpa?- indagò ancora con nochalance. -Che peso ti stanno costringendo a portare sulle spalle, Gabriele? Con che cosa ti stanno facendo del male?-
Lui inclinò le labbra in una smorfia diagonale molto lontana da un sorriso, molto lontana da una smorfia di dolore. Se Dafne avesse dovuto catalogarla, probabilmente avrebbe avuto serie difficoltà. Di una cosa era certa: quel ragazzo non era pazzo, altrimenti anche lei lo sarebbe stata perché gli credeva. Gli credeva ciecamente.
Quale pazzo, d'altronde, riesce a rimanere così lucido e imparziale davanti ad un discorso tanto delicato?
-Io non ho nessuna colpa. Mi hanno insegnato che essere diverso è sbagliato, ma stando qui dentro ho imparato anche quanto sia insignificante la coerenza e quanto l'uomo sia ipocrita. Io non sono diverso, io sono esattamente come tutti gli altri lì fuori. Se fossi stato un malato non avrei saputo riconoscere la tua figura, la tua bellezza e non sarei stato attratto da te. Ai miei occhi saresti parsa come una minaccia, ma invece sono convinto che se ti vedessi nuda avrei esattamente le stesse reazioni di un altro ragazzo della mia età. Non sono io ad essere diverso, sono gli altri che diversamente si ostinano a vedermi come tale.-
Dafne abbassò lo sguardo, non seppe nemmeno lei se perché si sentiva terribilmente in imbarazzo o perché le parole di Gabriele la turbarono terribilmente, forse molto più di quanto lei volesse dare a vedere. 
Mentre si guardava le sue scarpe di tela rosse- scarpe che probabilmente Gabriele non sapeva nemmeno esistessero, prima di quell'istante in cui le vide posate ai suoi piedi- si accorse che la sua vita era forse una delle più rosee esistenze del mondo. 
Sicuramente rispetto a quella del ragazzo era pacifica e rassicurante. 
Aveva avuto un padre che credeva in lei, forse così tanto da affidarle un compito troppo grande per la sua stessa persona. Dafne non voleva diventare medico, ma non voleva neppure deluderlo. 
Aveva avuto una sorella con la quale litigare, con la quale tirarsi i capelli quando entrambe non erano d'accordo su qualcosa- il che capitava molto spesso- e con la quale riappacificarsi nel momento del bisogno. 
Aveva avuto una madre che si chinava ogni sera per darle un bacio sulla fronte e poi uno sulla guancia, una madre che le preparava il pranzo e che probabilmente avrebbe continuato a farlo anche negli anni a venire se solo lei glielo avesse chiesto.
Dafne aveva semplicemente avuto una famiglia, quella stessa famiglia che Gabriele Esposito non aveva mai avuto il piacere non solo di possedere, ma anche di conoscere. E se c'era qualcosa di ancora più brutto del non avere qualcosa, forse era proprio la consapevolezza di non sapere nemmeno cosa questa sia. 
E se ne dispiaque. 
E si sentì sporca, lei che era visbilmente più pulita di lui; ma la sua era una sporcizia metaforica, una di quelle radicate nell'animo e negli organi più nascosti. Perché in quel momento il suo cuore le parve così maledettamente piccolo e... sporco, appunto. 
Strinse le labbra in una smorfia che parve disgustata, ma che in verità  era solamente sconvolta dalla reale visione di quel mondo, di quella realtà che aveva sempre ignorato. O che aveva voluto ignorare, forse. 
Senza neppure voltarsi per guardare se Luca fosse ancora-come sempre, come sarebbe stato in eterno, almeno lo sperava- alle sue spalle allungò una mano per intrecciarla a quella del suo migliore amico. 
E la trovò. 
E si sentì per un attimo immediatamente meglio. 
Sorrise, poi si inumidì le labbra e infine, solo infine, dopo un attimo di lunga angoscia, dopo che i suoi polmoni si fossero straziati di quell'aria sporca e triste, parlò. 
E la sua voce non fu mai così stridula come in quel momento. 
-Tu non sei diverso, Gabriele. Hai ragione quando dici che non hai nulla da invidiare a noi altri, quelli che tu stesso definisci liberi. Siamo tutti liberi, anche tu che ti senti legato da mille catene invisibili, perché è proprio questo il bello di queste tue catene: sono invisibili a tutti, sono limitate solo alla tua mente, perché sei tu che te le crei con l'aiuto di chi ti sta facendo del male qua dentro. Ma tu le puoi rompere queste catene, Gabriele, perché non sei diverso. E non lo sono neppure io. E non lo è neppure quel signore laggiù, che si sta chiedendo sicuramente perché le sue mani hanno un sapore tanto orrendo. Bisogna solo avere la forza sufficiente per evadere da tutte le tue paure e strapparti via da quei legami inesistenti che tu ti sei creato, ma che non esistono. Perché hai detto bene: tu sei forse la cosa più normale che esista al mondo e questo ti rende speciale. E credimi quando dico che lo sei davvero, Gabriele.-
Gabriele sorrise per un secondo, un sorriso che non sapeva affatto di felicità e dolcezza, un sorriso che forse non poteva nemmeno essere chiamato  tale. Dafne era sempre stata abituata a pensare che quando uno stende le sue labbra in qualcosa che dovrebbe somigliare a una risata, lo fa perché gli parte dal pronfondo del cuore, quel moto di felicità che non riuscirebbe mai a reprimere nel suo interno, nemmeno volendolo. Eppure sbagliava, come sempre.
Non aveva mai visto sorriso più spento di quello di Gabriele, e forse non avrebbe neppure potuto sperare in qualcosa di diverso visto le cose che il ragazzo era costretto a patire,visto le cose che lui stesso aveva dovuto vedere. 
 Per un solo istante provò ad immaginarsi al suo posto, avvolta in un'aura di sporca consuetudine, di cattiva considerazione personale. Sicuramente Gabriele non viveva la sua vita serenamente perché, nonostante non lo volesse dare a vedere, anche le sue dita avevano violacee macchie che solo i suoi denti avrebbero potuto lasciare nelle notti più solitarie. 
-Non credo sia opportuno paragonare la tua vita alla nostra, ragazza. Noi siamo malati di mente e, per la gran parte della società, siamo anche pericolosi.-
-E io, Gabriele? Io cosa sono?- gli chiese, uno sguardo incoraggiante ma anche spaventato. Era spaventata da ciò che avrebbe potuto sentire, da ciò che non avrebbe voluto udire ma che contemporaneamente, lei lo sapeva, era destinata ad ascoltare.
Lui sorrise ancora, stringendo le labbra in modo convulso, mordendosi le guance e abbassando lo sguardo. Poi lo rialzò, più fiero ma anche più ferito di prima. 
-Tu sei quella parte di società,ragazza.-

  
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