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Autore: The Writer Of The Stars    08/10/2015    3 recensioni
“Tsk, idiota. Ogni uomo deve morire.” Esclamò Vegeta con amara verità nella voce fredda, lo sguardo rivolto all’immensa distesa erbosa che fino a poco prima era stata la tomba cruenta di centinaia di uomini. Goku abbassò lo sguardo sulle proprie mani, sfilandosi il guanto bucato e sfiorando con un dito le linee della vita sul palmo della mano destra.
“Ma è scritto nella luce delle stelle e su ogni riga sul palmo della mano. Siamo pazzi a fare la guerra ai nostri Compagni d'Armi …” sussurrò in un grido nella notte gelida e Vegeta non riuscì a ribattere nulla, preferendo concentrarsi sulla luna alta nel cielo, consapevole che in quel momento, dalla finestra della sua calda stanza, Bulma stava facendo la stessa identica cosa.
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AU! Ispirata da "Brothers in arms" dei Dire Straits.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Goku, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nota: La seguente storia non è ambientata in un contesto storico/sociale ben definito realmente, anche se lo sfondo richiama molto quello della I e II guerra mondiale.
 
 
L’odore di polvere da sparo era acre e pungente e portava con sé il senso di colpa di chi ha appena dilaniato una vita con un po’ di cenere bigia come il cielo. La polvere da sparo era dispettosa e si divertiva ad impregnarsi nelle linee della vita delle mani ruvide degli uomini, unendosi agli schizzi involontari di sangue e marcando per sempre quelle mani, un tempo abituate a seminare pomodori, come mani di assassino. Qualche sadico la amava, era estasiato alla vista della cenere e del sangue ed era uno spettacolo raccapricciante assistere all’estasi che pervadeva i loro animi non appena l’odore funesto si infiltrava su per i nasi rotti e incerottati alla bel meglio. La polvere da sparo era divenuta la droga quotidiana lì al fronte, più bramata di un pezzo di pane, molto più di un sorso d’acqua.

La polvere da sparo ammazza i nemici, il pane no.

In quelle due settimane da soldato, Goku aveva appreso due cose fondamentali: la prima, era che in verità erano pochi i sadici esaltati col fucile in mano, poiché la maggior parte di loro erano stati portati sotto quella trincea con la forza; la seconda, era che per sopravvivere, doveva uccidere. Non ferire appena ad un fianco, e nemmeno infilare una pallottola alla gamba di quello con la divisa diversa, affatto. Ucciderlo. Ammazzarlo, privarlo di vita, togliergli il respiro e macchiargli l’uniforme distinta di rosso e grigio. Per fare ciò era necessario mirare agli organi vitali, con la massima precisione possibile: polmoni, testa, gola, cuore.

Era stato spesso ad osservare come i suoi compagni ammazzassero i nemici al di là della trincea. Li aveva studiati attentamente mentre individuavano la preda, abbrancavano il fucile senza tremare e miravano con micidiale precisione al malcapitato. Sparavano senza esitazione e non appena l’odore di polvere da sparo si impregnava nell’aria satura di morte, Goku cercava di sporgersi verso il campo di battaglia, appena in tempo per vedere il prescelto cadere in terra rovinosamente, le gambe molli e le braccia abbandonate lungo il corpo. Nonostante la lontananza, vedeva il sangue sgorgare dal centro del petto, macchiando la giacca pesante per l’inverno in arrivo. E se ne era vergognato, ma la prima volta che aveva visto il cadavere di quello sconosciuto abbandonato in mezzo all’erba incolta, macchiando il terreno col suo sangue patriottico, non era riuscito a fare altro se non piegarsi su se stesso e rimettere tutto quello che non aveva ancora mangiato, facendo sì che tra la ghiaia cruenta spiccasse solo il fantasma invisibile che era stata la sua anima fino al giorno della recluta obbligatoria.

In quelle due settimane non ne aveva ammazzato nemmeno uno. Inizialmente, anzi, non si era neanche preoccupato di abbrancare il fucile, acquattandosi dietro la trincea e pregando per i suoi compagni più freddi e impavidi di ammazzare quel nemico per suo conto, perché lui ancora non se la sentiva di togliere la vita ad un uomo che poteva benissimo avere la sua stessa età. Si sentiva un codardo, un pavido che in mezzo alla guerra ci era capitato per sbaglio, eppure non aveva niente da ribattere sull’opinione disonorevole che i suoi compagni d’armi avevano di lui, perché era la pura e semplice verità: lui era un codardo che non voleva fare la guerra, perché per lui la guerra non aveva senso. Ma evidentemente il Grande Capo non la pensava così, perché altrimenti non avrebbe inviato quella lettera a casa sua, nella loro piccola capanna in mezzo ai campi, per reclamare che lui, Son Goku, doveva arruolarsi nell’esercito e partire per il fronte. Non gli avevano dato nemmeno il tempo di baciare in fronte la sua Chichi o di chiedere scusa a sua madre – scusa per nemmeno sapeva lui cosa, ma non avrebbe avuto altro da dirle – che si era ritrovato lì sotto, tra il cielo bigio e temporalesco, la terra cruenta sotto i piedi e la polvere da sparo nei polmoni.
E più in quei giorni guardava soldati cadere con uno squarcio al petto, più continuava a maledire il nulla, chiedendosi, nella sua arguta ingenuità contadina, cosa diavolo ci facesse lì e per quale motivo stesse combattendo con uomini dai suoi stessi occhi impauriti e la mani tremanti che premevano grilletti di morte.
 

La grotta dove si ritiravano la notte aveva una sicurezza pari al 15% e spesso, Goku si era chiesto come fosse possibile che fosse rimasta ancora in piedi, nonostante le bombe, nonostante le morti, nonostante tutto. Goku soleva accucciarsi in un angoletto sul fondo della grotta, distante dagli occhi sprezzanti dei suoi compagni che nonostante ciò non smettevano di fissare quell’oscurità con occhiate di rimprovero, perché sapevano che lui era lì, a lucidare un fucile che non aveva mai usato, e a Goku stava bene, perché almeno era solo, solo con i suoi pensieri, con la sua ansia di ricevere lettere da Chichi, solo con la paura di morire il giorno seguente e i sensi di colpa per non aver fatto nulla per salvare i suoi compagni. Non era ma stato un tipo solitario, anzi, in paese era conosciuto come l’amico di tutti, il ragazzone gentile di cui ti puoi fidare, quello che sotto la zazzera di capelli scompigliata e il sorriso impacciato nasconde un cuore grande e puro come quello di un bambino, l’animo infantile e i modi giocosi e bonari. Eppure, da quando si trovava nell’esercito, si era accorto che la solitudine, per certi aspetti gli piaceva, e a volte si spaventava di come si trovasse bene a parlare alla sua anima e alla Chichi dai contorni frammentari nella sua testa.

La guerra ti cambia, figlio mio, ti cambia come nient’altro. Un giorno sei così, e il giorno dopo ti svegli completamente diverso, con le mani imbrattate di sangue e l’aria colpevole di chi non si è reso conto di ciò che ha fatto. La guerra è così, figliolo; se non ti uccidono i nemici, ti uccide lei.

Quanto era distante allora l’eco della voce del Maestro Muten, il saggio del villaggio, e quanto vere e spaventose risuonavano ora le parole confidategli il giorno della sua partenza, quando Chichi era in lacrime, sua madre si stringeva una mano al petto e lui era in bilico tra la voglia di dire di no a tutto quello e l’idea di scappare via, lontano da quel posto, da quel paese, da quel mondo! Era tutto vero, la guerra lo stava cambiando, lo stava lacerando, dilaniando dall’interno in una frattura partita dal cuore e che andava a toccare gli zigomi pronunciati del volto. La guerra uccide, la guerra uccide …

“Che cosa pulisci a fare il fucile, se nemmeno lo usi, idiota?” Goku alzò immediatamente lo sguardo dalla canna della sua arma, sgranando gli occhi con stupore, perché era da giorni che non sentiva voce umana ma solo grida straziate e gemiti di dolore. Le parole non servivano in guerra, servivano solo le grida di battaglia.
I suoi occhi vagarono celermente per le pareti buie della grotta, per quel piccolo metro quadro di solitudine che si era creato e in cui nessuno aveva mai avuto il coraggio o l’ardore di entrare, ma le sue iridi ottenebrate di cenere non riuscivano a distinguere che frastagliati contorni semiumani.

“Sono di fronte a te.” Ripeté la voce che graffiava e feriva come le pallottole dei nemici, che era roca e provata come quella di chi ha sfiorato la morte troppe volte e poi si è tirato indietro dalle sue grinfie. Goku assottigliò lo sguardo e finalmente riuscì a distinguere i contorni dell’uomo seduto innanzi a lui. Dal momento che sua madre gli aveva insegnato che era buona educazione guardare una persona negli occhi quando si parla, Goku si affrettò a frugare nelle tasche della giacca logora, alla ricerca di un cerino che riuscì ad accendere dopo pochi attimi di ansia e attesa. La luce fioca e effimera del fiammifero ferì i suoi occhi abituati all’oscurità con un dolore quasi assurdo e impiegò diversi minuti per mettere bene a fuoco l’immagine dell’uomo seduto innanzi a lui.

Era un uomo come tanti altri, con la divisa sdrucita uguale alla sua e la polvere da sparo insinuatasi tra le ciocche dei capelli ribelli, corvini e rivolti verso l’alto come la fiamma di un fuoco bruciante nelle sere d’estate. Aveva il naso perfetto, leggermente all’insù, quasi un’ utopia per quelli come loro, e la bocca, sottile come il confine tra la vita e la morte, serrata in una linea di inespressività. Goku fissò gli occhi in quelli del ragazzo – perché doveva ammetterlo, sembrava avere pressappoco la sua età- e senza dire una parola studiò quello sguardo serio e imperturbabile che sembrava guardare con astio il mondo circostante. Uno sguardo misogino, misantropo. Agghiacciante.

Le labbra di Goku si distesero lievemente in un accenno di sorriso, uno di quelli che non si permetteva da troppo tempo ormai, e con fare impacciato si portò una mano alla testa, scompigliandosi fugacemente la zazzera color petrolio.

“Idiota, dici? Sì, può darsi, me lo dicono in molti qui.” Rispose con un candore disarmante che si insinuò in un bagliore di stupore negli occhi del suo interlocutore.

“Comunque pulivo il fucile dalla polvere da sparo. Mi dà fastidio e mi ricorda la morte, non mi va di averla vicino anche mentre dormo.” Spiegò, accennando un tono più serioso. Il ragazzo inarcò un sopracciglio contrariato, o almeno fu quello che apparve alla debole fiammella del cerino.

“Perché, c’è qualcosa qui che non ricordi la morte?” chiese retorico con astio e una punta impercettibile, eppure Goku la notò, di dolore nella voce. Goku abbassò lo sguardo sul fucile, non sapendo cosa dire, perché sapeva che quello sconosciuto aveva ragione.

“Come ti chiami?” chiese allora Goku, decidendo di sorvolare sulla questione troppo profonda per il suo animo ancora infantile. Il ragazzo corrugò maggiormente lo sguardo, stranito.

“Perché dovrebbe interessarti, sentiamo.” Rispose duro, il tono contenuto di chi è abituato a quel tipo di domande. Goku alzò le spalle in un gesto di infantile ignoranza, alzando leggermente le sopracciglia eburnee.

“Perché” iniziò, additando la divisa dell’uomo “Siamo compagni d’armi.” Rispose ingenuamente, indicando un po’ la sua divisa, un po’ quella dell’uomo, che lo guardò con sdegno e ribrezzo.

“Io non sono il compagno di nessuno, tantomeno di un codardo che non sa tenere un fucile in mano come te.” Rispose tagliente, spezzando il leggero entusiasmo di Goku.
Il ragazzone lo osservò stralunato, mentre un nuovo terrore si faceva spazio nei suoi occhi ingenui: che quello fosse uno dei pazzi invasati e fanatici della guerra?

“Ma ti sei arruolato volontariamente?” chiese con reverenziale timore Goku, gli occhi fissi sulla figura leggermente più minuta del suo interlocutore. Questo lo guardò stizzito, quasi offeso dalle sue parole.

“Tsk! Idiota.” Esclamò sprezzante, distogliendo lo sguardo e puntandolo su una delle pareti della grotta, prima di schiudere nuovamente le labbra.

“Chi diavolo vorrebbe morire da solo, prosciugato nel sole del deserto, di sua spontanea volontà?!”
 

Nei giorni a seguire, sebbene questi continuasse a disprezzarlo e ad insultarlo, Goku si era avvicinato allo strano ragazzo della grotta. Lo aveva osservato mentre si nascondevano nella trincea ed aveva sentito un groppo di saliva bloccargli l’ epiglottide nel momento in cui lo aveva visto abbrancare il fucile e sparare con gelida spietatezza oltre la rete del confine. Aveva sentito un grido risuonare nel vuoto dell’aria e aveva capito che il colpo era andato a segno. Quel ragazzo dagli occhi bui come la notte e i capelli impregnati di cenere aveva la freddezza e il coraggio di ammazzare di coloro che sembravano nati per fare quello, e nonostante ciò lo spaventava, non poteva fare a meno di sedersi di fronte a lui ogni sera, nella grotta, e pulire il fucile sotto i suoi occhi sprezzanti e le sue intimidazioni di andarsene portate via dal vento gelido di fine novembre. Aveva capito che c’era qualcosa che lo affascinava in quel ragazzo, e quel qualcosa era la capacità con cui riusciva a sterminare vite, la freddezza con cui mirava ai cuori e l’impassibilità che regnava nei suoi occhi di assassino. Ne era affascinato perché lui, in tutto quel tempo, non era nemmeno riuscito ad infliggere una ferita vagamente letale all’armata nemica mentre quel ragazzo, che aveva scoperto chiamarsi Vegeta, era stato in grado di assorbire l’anima della guerra in sé. Ammazzava senza remore e senza vergogna, e per quanto odiasse ciò, aveva capito che in quella guerra non poteva solo restarsene nascosto dietro
alla trincea e che doveva imparare da lui come fare a mirare così precisamente al cuore e a controllare il tremolio convulso nelle mani.


“Vegeta?”

“Che vuoi?”

“Ho bisogno di un favore.” Vegeta lo aveva squadrato con stizza, mentre il chiacchiericcio dei compagni seduti attorno al fuoco facevano da colonna sonora a quel momento.

“Non rompermi i cog …”

“Devi insegnarmi ad uccidere.” Vegeta si bloccò a mezz’aria, le parole rimaste in gola al suono della richiesta decisa di Goku. Lo osservò per un attimo e nel suo volto infantile non colse alcun segno di allegoria o scherzo di cattivo gusto, bensì vera decisione e serietà. Vegeta strinse i pugni, distogliendo lo sguardo e sentendo una rabbia cieca invaderlo.

“Sei un soldato incredibile, e voglio che tu mi insegni a …” Goku non riuscì a terminare il proprio discorso che un gancio destro, potente e preciso, si piazzò contro la sua mandibola, costringendolo ad un gemito di dolore.

“Ma cosa …” riuscì a balbettare dolorante, tenendosi il mento colpito con una mano.

“Non hai idea della stronzata che hai appena detto.” Tuonò irato Vegeta. Goku lo osservò incredulo, mentre il compagno stringeva i pugni in una morsa letale.

“Credi che io sia felice di ammazzare? Che mi diverta a mirare al cuore di quei tizi laggiù?” chiese con iraconda ferocia, la retorica furiosa del suo tono sconvolse Goku come una tempesta in mare aperto.

“Se pensi sia così, allora non hai capito proprio un cazzo.” Ringhiò, prima di allontanarsi nella grotta, lasciandosi dietro Goku e la sua coscienza che ancora una volta, suggeriva lui di aver commesso un enorme sbaglio.
 

Era una goduria vedere quei sacchi di pesante iuta raggiungere il fronte una volta al mese, perché quei vecchi pezzi di stoffa rotta significavano solo una cosa: lettere da casa. Goku si avvicinò con bramosia al sacco lasciato preda dei soldati, e dopo numerose spinte e imprecazioni, riuscì ad agguantare la lettera a lui indirizzata. Da Chichi, pensò con un sorriso. Stava per allontanarsi da lì, pregustando già il momento in cui avrebbe aperto la lettera e gustatosi le parole riportate con la dolce calligrafia di Chichi, quando una busta bianco sporco catturò la sua attenzione. I suoi occhi si sgranarono nel leggere il nome sulla missiva e quando le sue mani scaltre la afferrarono, non riuscì a reprimere un moto di sorpresa alla conferma di ciò che aveva ipotizzato. Con lo sguardo vagò per il rifugio, alla ricerca di una chioma di fiamma e nera come la notte, e quando scorse due pozze di antracite non molto distanti da lui sorrise leggermente, soddisfatto.

“Questa è per te.” Vegeta alzò di scatto lo sguardo al suono di quella voce, scontrandosi con la superficie ruvida di una busta bianca. Impiegò un solo secondo per leggere il mittente della missiva e sgranando gli occhi afferrò la busta che Goku gli stava porgendo, strappandogliela dalle mani con violenza.

“Chi ti ha detto di toccarla?” chiese in un ringhio di bestia, gli occhi che celavano fuoco. Goku sorrise leggermente, alzando le mani come per discolparsi.

“L’ho vista vicino alla mia e ho pensato di portartela, tutto qui.” Rispose bonariamente, incassando l’occhiataccia scoccatagli da Vegeta e sedendosi in terra al suo fianco. Vegeta distolse lo sguardo da lui, fissando intensamente la busta stretta tra le sue mani e Goku, trattenendo a stento un risolino, non riuscì a fare a meno di chiedere ciò che più gli premeva da diversi minuti a quella parte.

“Allora, chi è questa Bulma?” chiese con tono vagamente malizioso, gustandosi a pieno l’espressione sbigottita dipinta nel volto di Vegeta.

“Non sono affari che ti riguardano.” Borbottò a mezza voce il ragazzo, imprecando malamente contro di lui. Goku lo osservò con un leggero sorriso, prima di additare la busta ancora stretta tra le mani del ragazzo.

“Beh, non la apri?” chiese serafico. Vegeta gli scoccò un’occhiataccia dall’eloquenza tagliente.

“E a te cosa importa?” rispose cinico, rivelandogli il messaggio non tanto implicito per mezzo del quale lo intimava ad andarsene. Goku sbuffò vagamente divertito, alzandosi in piedi e passandosi una mano sui pantaloni della divisa per rimuovere inutilmente la polvere del terreno.

Come se fossero macchiati solo di quella ...

“Va bene, va bene, ho capito, ti lascio solo con la tua innamorata.” Esclamò, accennando la busta lascivo. Vegeta lo guardò per un’ultima volta con espressione di gelido fastidio, attendendo che il ragazzo se ne andasse e lo lasciasse. Non appena fu voltato di spalle, Vegeta puntò lo sguardo sulla busta, aprendola ed estraendo con calma un foglio di carta ruvida dove una calligrafia precisa e ordinata scorreva dolcemente. Sorrise in maniera impercettibile, mano a mano che gli occhi immagazzinavano le parole della sua Bulma e i immaginò in un attimo la ragazza seduta allo scrittoio della sua stanza, con la penna ben salda tra le mani e l’espressione concentrata e un po’ malinconica mentre scriveva, senza troppi mezzi termini o giri di prole, ciò che gli attanagliò il cuore in una morsa di amara realtà. “Mi manchi. Ti amo.”

Goku si voltò leggermente, un sorriso tenero al vedere Vegeta estrarre qualcosa dalla tasca della sua giacca e osservare quella che aveva riconosciuto essere una fotografia con uno sguardo che non gli aveva mai visto indosso, la lettera poggiata sulle ginocchia infreddolite. E pensò che probabilmente, quella ragazza dagli occhi azzurri come il cielo e i capelli dello stesso colore che gli sorrideva dalla fotografia, fosse l’unico motivo per cui Vegeta si trovasse lì, ad ammazzare gente come lui con l’uniforme diversa. Per difenderla.
 
 

Quella notte toccava a loro stare di guardia. Non era la prima volta per nessuno dei due, ma non era mai capitato che si trovassero in piedi insieme, a raggelare nelle loro giacche sotto le stelle che brulicavano il cielo. Goku respirò profondamente, osservando l’aria fuoriuscire dalle sue labbra e condensarsi in una nuvoletta di fumo, che osservò divertito. Non poteva farci niente, era un gioco che faceva sin da piccolo e che lo aveva accompagnato sempre nelle fredde giornate d’inverno al paese. Emetteva fuori quanta più aria possibile, osservando il respiro condensarsi e contando quante volte aveva soffiato l’anidride carbonica verso il cielo fino al suo ritorno in patria.

160 volte. Per il momento, ne aveva contate 160 quella notte, ed era conscio che avrebbe dovuto smettere di giocare come un bambino e mettersi all’erta, come stava facendo Vegeta, ma il problema era radicato ancora più profondamente, nel suo animo fanciullesco, che abborriva la guerra e non ne voleva sapere di farne parte.

“Vegeta?” richiamò il compagno con tono tentennante, Goku, il viso affondato nella colletto della giacca. Vegeta si volse a guardarlo con la solita espressione corrucciata e seria, una linea decisa a solcargli la fronte indicava impazienza.

“Che vuoi?” chiese scocciato. Goku alzò lo sguardo verso il cielo, osservando la luna, piena come non lo era mai stata in quelle notti di agonia, e puntando poi la sua attenzione sulle stelle. Ne contò una decina, per poi decidere di lasciar perdere.

Era molto più facile contare i respiri.

“Tu li conti mai i respiri?” chiese con il candore di un bambino, senza mai staccare gli occhi dalla volta celeste. Vegeta strabuzzò gli occhi, stranito.

“Che diavolo dici?” chiese irritato. Goku sorrise con un accenno di amarezza.

“Non conti mai i respiri che esali? Non ti viene mai voglia di pensare che i nostri respiri dureranno per sempre?” continuò il ragazzo con un’amarezza e un’utopica speranza che stonava tremendamente con i fucili stretti tra le loro mani e  l’aria satura di polvere da sparo. Vegeta serrò le labbra in una morsa ferrea, i pugni stretti involontariamente.

“Tsk, idiota. Ogni uomo deve morire.” Esclamò Vegeta con amara verità nella voce fredda, lo sguardo rivolto all’immensa distesa erbosa che fino a poco prima era stata la tomba cruenta di centinaia di uomini. Goku abbassò lo sguardo sulle proprie mani, sfilandosi il guanto bucato e sfiorando con un dito le linee della vita sul palmo della mano destra.

“Ma è scritto nella luce delle stelle e su ogni riga sul palmo della mano. Siamo pazzi a fare la guerra ai nostri Compagni d'Armi …” sussurrò in un grido nella notte gelida e Vegeta non riuscì a ribattere nulla, preferendo concentrarsi sulla luna alta nel cielo, consapevole che in quel momento, dalla finestra della sua calda stanza, Bulma stava facendo la stessa identica cosa.
 
 

Nonostante si trovasse da due mesi ormai al fronte, Goku non era ancora riuscito ad abituarsi pienamente alla vista della morte. Lo ripudiava, i cadaveri gettati nell’erba incolta gli gelavano il sangue nelle vene e le anime dei martiri di guerra si insinuavano in lui, contorcendogli l’intestino e costringendolo a conati di vomito che solo recentemente aveva imparato a sopprimere. Aveva visto molti dei suoi compagni cadere, e nonostante l’amarezza provata a vedere i loro occhi sbarrati colmi di tutti gli orrori della guerra, non si era mai soffermato più di tanto sui loro corpi, non aveva sprecato parole di commiato per quei giovani così simili a lui, e non perché non li considerasse degni di attenzione, ma semplicemente perché erano solamente Compagni d’armi.

“Vegeta!” quando il corpo inerme di Vegeta si era schiantato sull’erba alta e sul terriccio smussato con un tonfo, Goku non aveva sentito i soliti conati di vomito alla vista del sangue che gli macchiava il petto, né aveva avuto tentennamenti nell’avvicinarsi a lui e scuoterlo con vigore, fregandosene della polvere da sparo che aleggiava intorno alla trincea, della pallottola ancora vibrante nell’aria, del vento sferzante di inizio dicembre, di quell’inverno che era più duro del solito.

“Vegeta! Vegeta!” gridava solamente, colto da una rabbia cieca e un’incredulità riverberata nei suoi occhi spalancati, scuotendo il corpo quasi esamine di Vegeta con violenza, come se volesse risvegliarlo.

“K- karot …” riuscì a balbettare Vegeta e Goku non poté non constatare come anche in punto di morte, Vegeta non si lasciava andare a sentimentalismi ma perseverava nel chiamarlo per cognome, come aveva sempre fatto in quei due mesi.

“T – te l’avevo detto i- io … ogni uomo d-deve m- morire …” sussurrò con voce spezzata, mentre un sorriso amaro gli spaccava in due il volto e gli occhi si serravano di scatto, privi di vita.
Goku sgranò le iridi scure, scuotendo il corpo di Vegeta con ancora più violenza.

“Vegeta, non puoi morire, idiota! Vegeta! Apri gli occhi, apri gli occhi! Non pensi a Bulma, eh? Non ci pensi? Non puoi morire, non puoi lasciarla sola! Vegeta!” gridò con veemenza, le lacrime raggrumate agli angoli degli occhi e lo sguardo fisso su Vegeta che non si muoveva, che aveva il petto macchiato di sangue, la pallottola calda ancora conficcata nel cuore, il rimpianto di non essere stato abbastanza veloce per schivare quel proiettile nell’anima. Goku smise di scuotere il corpo freddo del ragazzo, sgranando sempre di più gli occhi alla consapevolezza che lo aveva perso. Eccola la differenza tra lui e gli altri compagni.

Loro erano solo Compagni d’armi, legati solo dalla stessa uniforme.

Lui e Vegeta erano Fratelli d’armi, legati indissolubilmente dallo stesso destino.
 
 
Goku strinse la busta bianca con forza, spiegazzandone i lati leggermente sporchi di terriccio. La grotta accoglieva tutti loro, i soldati più esperti che si adoperavano per curare i feriti più gravi e quelli come lui, chiusi nel proprio mutismo che piangevano quelli morti. Il fatto che le lettere da casa dovessero arrivare proprio quel giorno era stato un crudele scherzo del destino, e l’aver intravisto una busta bianca con su scritto quel timido “Vegeta” la conferma di quanto Dio ce l’avesse con lui e tutti loro moribondi, ammassati in quella grotta scalfita dalle intemperie e dalla guerra.

La lettera di Bulma doveva arrivare prima. Vegeta aveva il diritto di leggerla, e Bulma aveva il diritto di ricevere una risposta da lui prima che se ne andasse per sempre, l’ultima. Invece quella dannata busta era arrivata solo allora e sapeva perfettamente che quando il postino sarebbe arrivato a casa di Bulma, non le avrebbe consegnato una busta dal suo amato Vegeta, ma solo un freddo comunicato che riportava la morte del giovane. Goku strinse gli occhi per cacciare indietro le lacrime, aprendo tremante la busta ed estraendo la lettera scritta con dolce grafia, l’amore di quella ragazza per Vegeta che trasudava anche dal carattere di quelle parole.
 

Crillin, soldato giunto da poco al fronte, udì dei respiri profondi risuonare per la grotta, lontano dai feriti sotto le cure mediche dei compagni. Timoroso, mosse alcuni passi verso la provenienza di quella voce, addentrandosi sempre più nell’oscurità e percependo quei singulti farsi ancora più chiari. Scorse dinanzi a sé i contorni frastagliati di una figura e tirando fuori un cerino dalla propria tasca, accese una debole fiammella che illuminò la scena dinanzi a lui. Spalancò gli occhi, avvicinandosi al compagno seduto in terra.

“Goku!” esclamò allarmato, inginocchiandosi al suo fianco. Osservò prima una lettera dalla calligrafia indubbiamente femminile gettata poco più in là, al fianco di una busta, per poi riportare lo sguardo su Goku, che respirava a fatica, trattenendo la testa tra le mani e fissando inerme il vuoto.

1987, 1988 … singhiozzo, respiro, 1989 …
 
“Goku, mi vuoi dire che ti prende?” chiese Crillin, scuotendo il ragazzo per una spalla. Goku deglutì a fatica, il respiro affannato, gli occhi spalancati e vitrei.

“Bulma è …” balbettò, prima di cedere nuovamente a quel fiatone che lo stava dilaniando.

“Cosa? Chi è Bulma? Goku, ma di che stai parlando?” tentò nuovamente  Crillin, sempre più confuso.

“Bulma è incinta. Aspetta un bambino da Vegeta.” Esclamò, cercando di calmare il respiro. Crillin spalancò gli occhi, confuso.

“Cosa …”

“E Vegeta non lo sapeva. È morto senza saperlo.” Continuò Goku, l’espressione contratta in una smorfia indecifrabile, gli occhi fissi su quella lettera dannata che sarebbe dovuta arrivare prima, quella lettera in cui Bulma confessava a Vegeta che dall’ultima volta che si erano incontrati prima della sua partenza era nato qualcosa e che quel qualcosa adesso cresceva dentro di lei, da due mesi ormai, e che quella cosa, quel piccolo Puntino presto lo avrebbe chiamato “papà”.

“Ti amo, Vegeta. Ti prego, resisti, per me, per lui, per noi. Noi siamo qui. Ti aspettiamo.”

Le parole con cui Bulma aveva chiuso la lettera tornarono vivide nella mente di Goku, massacrando i suoi neuroni, cozzando con immagini contrastanti di Vegeta accanto alla donna che amava, con un bambino in braccio che anche se non lo avrebbe ammesso era quanto di più bello potesse ricevere dalla vita, Vegeta che dinanzi a Bulma sorrideva impercettibilmente, grato che la guerra era finita e che lui ce l’aveva fatta.

Mai. Tutto ciò non sarebbe mai accaduto, e questo per colpa di una dannata pallottola conficcata nel petto del suo Fratello d’Armi, ora sepolto da qualche parte sotto quel terreno cruento e indegno di essere tomba di un guerriero come lui. E inconsciamente, mentre la figura di una Bulma con un bambino stretto tra le braccia, piangente nella notte e intenta ad intonare ninne nanne di malinconia con voce spezzata, mentre immaginava la sua Chichi in pensiero per lui, si chiese se davvero aveva lasciato tutto quanto per quello. Aveva davvero detto “arrivederci, a mai più” alla sua gente, era per quel campo di morte che gli mancavano così tanto sua madre e suo fratello? Era quella, la guerra?

E allora, perché diavolo lui si trovava lì?
Signore, Dio, tu che sei lassù, che cosa ci faccio io qui, cosa rappresento, per chi muoio?

La cosa peggiore, Goku lo sapeva, era che d’ora in poi non sarebbe finito niente. Sapeva che doveva continuare a svegliarsi e sapeva che non appena aperti gli occhi avrebbe continuato a vedere il fantasma di Vegeta ritto al suo fianco dietro alla trincea, col fucile pronto a colpire e il solito sguardo duro e impenetrabile. La morte di Vegeta sarebbe stato solo l’inizio di una serie di eventi concatenanti che un giorno, presto o tardi, avrebbero portato anche lui alla fine, perché Vegeta aveva ragione.

Ogni uomo deve morire.
 
 

Nota autrice:
Non lo so. È tutto ciò che ho da dire riguardo questa storia. Non so se abbia un senso, se sia riuscita a trascrivere e a trasmettere il messaggio iniziale, se possa piacere o no. So solo che è nata, nata perché “Brothers in arms” dei Dire Straits è una delle mie canzoni preferite, perché durante quel malinconico assolo con la Fender Stratocaster di  Mark Knopfler io mi perdo e immagino storie che non stanno né in cielo né in terra, ma solo nella mia mente. E so che anche “Some Nights” dei Fun. ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita di questa one shot. Il merito va a loro, sono quelli i capolavori.
Spero che la storia vi sia piaciuta, e mi scuso in anticipo per eventuali errori grammaticali o di sintassi.
Alla prossima!
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