Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Dolce Naufragar    18/10/2015    1 recensioni
"Attraversiamo un isolato senza parlare: entrambi temiamo che l’altro possa infrangere un momento tanto raro.
Ma è chiaro che si tratta di un silenzio teso, forse carico di aspettative eccessive. Abbiamo troppo da dirci, troppe domande da porci, troppi peccati da assolverci."
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La sigaretta si consuma tra le mie dita ed io la contemplo.
Perde di consistenza a poco a poco, trasformandosi in fumo e cenere e quiete. La quiete la infonde in me, si capisce.
Le mie dita sanno di fumo, una sensazione che adoro, perché su di esse permane la traccia del mio vizio.
La porta della mia casa si apre, ma non mi preoccupo di voltarmi verso di essa. Rimango con la schiena contro il muro, continuando a fumare con disinvoltura nonostante mia madre mi abbia raggiunto.
«Chiedono di te» mi dice.
«Arrivo.»
«Dovresti smettere» aggiunge, indicando la sigaretta.
Non rispondo, finisco di fumare e percorro il giardino fino all’ingresso, dove lo trovo ad aspettarmi davanti alla porta; naturalmente i miei non l’hanno fatto accomodare.
Senza proferir parola, gli faccio cenno di seguirmi, e insieme ci lasciamo la mia abitazione alle spalle.
Attraversiamo un isolato senza parlare: entrambi temiamo che l’altro possa infrangere un momento tanto raro.
Ma è chiaro che si tratta di un silenzio teso, forse carico di aspettative eccessive. Abbiamo troppo da dirci, troppe domande da porci, troppi peccati da assolverci.
Nel momento in cui mi convinco che la serata potrà continuare così, in questo stato di quiete apparente, mi prende per il colletto della camicia e mi sbatte con violenza contro il muro di un vicolo cieco limitrofo alla via che stavamo risalendo.
«Cosa cazzo fai?!» esclamo, lasciando cadere il mio sguardo stanco su di lui. Solo allora mi accorgo che non l’ho guardato in faccia neppure una volta da quando ci siamo incamminati.
«Ho bisogno che mi parli. Voglio un ragazzo che parli.»
«Cercalo.»
«Sai cosa intendo.»
«Invece no, perché non sono il tuo ragazzo» dico, senza curarmi di celare l’esasperazione del mio tono.
«Che cosa vuoi dire?» mi domanda, e colgo una certa apprensione nelle sue parole.
«Hai capito. Ma non mi pare di esser mai stato molto vago su questo punto.»
«Ma l’altra sera siamo andati a letto insieme!» esclama, bloccandomi al muro con più tenacia.
«Senti, avevo bevuto. Mi fa abbastanza schifo l’idea di essermi scopato il mio migliore amico, se permetti» ribatto, alzando gli occhi al cielo.
«Ma è successo.»
«Quella serata è un errore.»
«Tu sei un errore.»
La sua voce è flebile, ma le parole mi feriscono, facendomi reagire.
Il pugno va a segno, gli gira la testa di lato. Lui si volta a guardarmi, gli occhi spalancati, la bocca anche.
Sebbene la mano e il polso mi dolgano, non posso permettergli di avere tempo a sufficienza per reagire, così un secondo pugno raggiunge la sua faccia. Un momento prima di colpirgli il mento posso scorgere nei suoi occhi un lampo di terrore. Non so che cosa mi prenda, ma quella paura, quel timore, mi corroborano, impedendomi di provare dolore alle nocche che, ancora una volta, si schiantano sul suo volto.
Il terzo colpo glielo assesto allo zigomo, e lui inciampa nei suoi stessi piedi, cadendo rovinosamente sull’asfalto.
Le lacrime cominciano a rigargli il volto. Non ha il coraggio di guardarmi, ed io non ho il coraggio di guardare lui.
Dopo alcuni attimi, sufficienti a trasformare alle mie orecchie il suo pianto in una cantilena, rinsavisco, rendendomi conto delle condizioni in cui ho ridotto il mio amico.
Continua a piangere, incapace di parlare, di emettere anche solo una parola di disprezzo nei miei confronti. In posizione di raccolta sembra ancora più indifeso, ancora più incapace di proteggersi. E solo ora mi rendo conto che deve proteggersi da me. Sono io che l’ho ridotto così, sono io che ho provveduto a distruggerlo sia moralmente che fisicamente.
Trema nella sua felpa nera, continuando a fissare interdetto un punto indefinito della strada. Per un attimo mi pare che smetta di piangere, e il pensiero che questo suo frignare m’infastidisca mi fa arrabbiare ancora di più con me stesso.
In preda ad una crisi di nervi, comincio a piangere anch’io. Il mio pianto è disperato, non è assolutamente paragonabile al suo; infatti, nonostante sia lui ad aver subito più danni, piange in  maniera controllata, come se temesse che le sue lacrime possano scatenare in me una reazione simile alla precedente.
Lo guardo, senza riuscire a riflettere su cosa sia in mio potere fare ora.
Gli tendo una mano, pur sapendo che non mi permetterà di aiutarlo ad alzarsi. Di fatto rimane a terra, ma smette di singhiozzare all’improvviso.
«È così sbagliato?» mi chiede, senza guardarmi negli occhi.
Non capisco a che cosa si stia riferendo, ma non ho il coraggio di domandarglielo.
Cogliendo la mia interdizione, si spiega: «Il fatto che ti desideri è così sbagliato?»
Si asciuga le lacrime che gli segnano il volto tumefatto, e mi sorge spontaneo chiedermi come possa ancora parlare con me.
Vorrei rispondergli, ma le parole non mi escono. O forse è il coraggio che mi manca. Ciò di cui sono in difetto è proprio la forza di dirgli che mi dà il voltastomaco anche solo pensare di aver fatto determinate cose con lui. Ma come posso confessarglielo, ora? Come posso infierire in maniera tanto meschina?
Mi guarda negli occhi, per la prima volta da quando è a terra, ma non riesco a sostenere il suo sguardo. Ho sempre l’impressione che riesca a penetrarmi nell’intimo, facendo affiorare ad una ad una le mie debolezze, le mie incertezze.
E forse adesso ha capito. Ora, dopo che il suo sguardo indagatore mi ha scrutato a fondo, ha compreso il mio disagio.
«Scusami» sussurra debolmente mentre si rialza barcollando, la testa china.
Qualcosa mi esplode dentro, la rabbia mi fa ardere le membra di nuovo.
«Cazzo, la vuoi piantare?! Perché ti stai umiliando tanto? Per cosa, poi? Se c’è qualcuno che deve chiedere scusa, quello sono io. Mi fai il piacere di smetterla di fare la checca in questo modo? Reagisci, Cristo Dio!»
Non ho il tempo di veder arrivare il suo destro, sento solo il naso che cede. Il sangue comincia a sgorgare copiosamente, la vista si annebbia e all’improvviso non sento più niente, non provo più niente.
 
Mi trovo nel suo letto. Indosso solo i boxer, il resto dei miei vestiti è sistemato su una sedia posta accanto alla scrivania.
Sul naso ho un impacco di ghiaccio, e credo che mi abbia spalmato del paracetamolo, considerando che la confezione dell’antidolorifico è a terra.
Nonostante sappia esattamente dove mi trovo, mi guardo in giro come se fossi in un luogo a me sconosciuto.
E mi accorgo che ciò che manca a quella stanza è la sua presenza.
Ignorando quest’ultima mia considerazione, comincio a vestirmi. Quando sono pronto e sto per uscire dalla sua camera, apre la porta ed entra. Ha un asciugamano avvolto attorno ai fianchi e i capelli ancora bagnati, segno che è appena uscito dalla doccia.
«Buongiorno» mi saluta, senza però guardarmi in faccia.
Si gira verso l’armadio per scegliere cosa indossare, voltandomi le spalle.
Dovrei scusarmi con lui, magari con un abbraccio, un gesto innocuo ed amichevole. Ma so che non mi limiterò a quello.
Credo di aver capito qual è il problema: il contatto con lui è irresistibile in situazioni come questa.
Mi avvicino lentamente e gli cingo i fianchi da dietro. Inizialmente si scosta, ma non appena la mia lingua inizia a tracciare una scia umida sul suo collo, non oppone resistenza.
Mi compiaccio alla vista dei suoi occhi socchiusi, ben sapendo che il buio amplifica le sue sensazioni.
«Sei un fottuto bastardo» sussurra.
Lo sbatto contro l’armadio, appagato dal contatto col suo corpo, lo strumento prediletto per esternarmi la sua eccitazione.
È teso, lo sento, e voglio rasserenarlo.
Appena comincio a stringerlo a me con premura, si stacca.
«Devastami. Quello che voglio da te è solo verità» mi dice, avvicinandosi al mio orecchio e mordendone il lobo.
Lo stringo di nuovo a me, lasciando cadere il suo asciugamano.
Mi riversa la lingua in bocca, senza ritegno, ed io faccio lo stesso.
Ho fame di lui.
Il nostro è un bacio violento, quasi fosse a suggello della devastante nottata appena trascorsa, ed esprime alla perfezione la nostra voglia primitiva. Il nostro modo di comportarci è quasi animalesco, dettato solo dall’istintività, ma necessitiamo i nostri corpi e le sensazioni che sanno regalarci. Perché io ho bisogno di lui, e adesso lo so.
Ma lui? Lui ha ancora bisogno di me?
«Amami.»
Sì, ha bisogno di me.
 
“Just gonna stand there and watch me burn,
but that’s alright because I like the way it hurts.
Just gonna stand there and hear me cry,
but that’s alright because I love the way you lie.”
 
         Eminem ft. Rihanna, Love the way you lie 

 

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Dolce Naufragar