Questa è una storiellina che prevede un po’ di modifiche
alla saga di Hades: innanzitutto il Dio non è morto, ma si è redento ed ha
riportato in vita tutti i caduti della Guerra Sacra (non credo che Athena, per
quanto sia una Dea, possa far resuscitare così facilmente la gente; credo che
il Dio dell’Oltretomba sia più indicato).
Secondo: ricordo a tutti che i Gold non hanno mai visto
nessun Dio, all’infuori di Athena.
Terzo: vi prego, perdonate il mio azzardo, ma un personaggio
avrà l’aggiunta degli occhiali (sì; sono una maledettissima feticista degli
occhiali! Mi piacciono gli uomini che hanno un aria colta. [Silvia,
fatti curare!!! Sei proprio grave! XD]) se volete uccidermi, vi prego di farlo
dopo che avrete letto… e mal che vada, se vedrò che è un vero e proprio
scempio, lo farò ritornare normale, ovvero senza occhiali ç_ç
Quarto: qui i personaggi hanno le caratteristiche
dell’anime… sennò il titolo, anzi, tutta la storia non avrebbe senso! XD
Grazie per avermi ascoltato e buona lettura^^
“I frutti di pesco
sono bramosi di cadere, ma i rami non li mollano.
Se
tu hai il coraggio, raggiungili fino in cima all’albero.
Quelle pesce belle e
rosse in effetti, non hanno un colore alla moda.
Se
non ti ispirano, puoi fare a meno di mangiarle.
Se i frutti di pesco
sono belli, è per un destino predeterminato da una vita precedente.
Se
tu scegli una pesca acerba, sei ancora tanto immaturo.”
Da un canto tradizionale tibetano(1)
Il canto della donna si disperdeva nell’aria
fredda e ricolma delle prime luci dell’alba, dalle tinte rosee e aranciate.
Quel tipo di visione che solo dal monte Kangchenchagzhong, luogo più insidioso
e impervio di tutto il Jamir, nel Tibet, si poteva godere. Le nuvole si tinsero
delle tonalità del fuoco, accompagnando leggere e soffici quell’astro mattutino
che dava la vita alla Terra. Nulla vi era di più dolce di quella visione
surreale accompagnata dalle soavi note della delicata e melodiosa voce della
madre.
Quel giorno la donna lemuriana aveva
portato il figlioletto all’antico albero di pesco consacrato alle divinità e al
Buddha: luogo più alto di tutto il monte, dove alla sommità vi cresceva
l’albero divino. Quel tronco possente piantava le proprie robuste radici nel
terreno, scavando nella roccia, per raggiungere la tenera terra e trovare in
nutrimento che per millenni, da quando la loro razza fu costretta a discendere
nella Terra, lo sosteneva. L’enorme pianta, alta quasi quanto una quercia
secolare, sfoggiava con fierezza la propria folta chioma: le foglie di un bel
verde oscillavano producendo un piacevole e soave fruscio, sospinte dal vento,
mentre la giovane donna danzava e cantava davanti ad esso.
Il piccolo fanciullo, che l’aveva seguita
senza commentare per quella ripida altura, la guardava con occhi grandi e
ricolmi di meraviglie per quelle fluide quanto magnifiche movenze, che facevano
sembrare la madre una fata oppure una driade dei boschi. Quella tunica lunga,
morbida, di una calda tonalità arancio, si muoveva seguendo i passi leggeri
della figura femminile, mentre i capelli, lunghi e sciolti, del colore della
terra che nutriva quel magnifico pesco, accompagnavano ogni più piccolo quanto
ricercato ondeggiare del capo. E quello scialle lasciato cadere sulle spalle,
le conferiva un’aura angelica.
La donna continuava ad intonare il proprio
canto, innalzando le mani al cielo e muovendo i piedi ed il corpo in una danza sensuale
e studiata. Quel motivetto, che suonava così strano al bambino, gli fece
volgere lo sguardo verso quel maestoso pesco: dai suoi grandi rami poté vedere
delle enormi e magnifiche pesche, grandi quanto il pugno di un uomo adulto. Non
aveva mai visto frutti così belli ed invitanti in tutti i suoi sei anni di
vita.
La donna fermò improvvisamente la danza,
esattamente dinnanzi al pesco sacro e al figlioletto, che ora rivolse tutta la
sua attenzione agli occhi grandi e dalle iridi verdi inteso della madre. La
donna sorrise, ma il bambino sapeva che non era vero. Difatti quelle grandi
giade erano tristi. Tanto tristi.
“I frutti di pesco
sono bramosi di cadere, ma i rami non li mollano.
Se
tu hai il coraggio, raggiungili fino in cima all’albero.”
E lì il ragazzino capì il perché di tutto
ciò, e una profonda angoscia assalì le giovani, troppo giovani membra. Così
piccolo, e già così consapevole del suo destino.
Il ragazzino si portò le mani al petto, come
a volersi proteggere da un invisibile quanto spaventoso nemico. Il piede
sinistro si portò all’indietro, mentre tutto il corpo veniva sbilanciato verso
il torace, in modo da stringersi nelle spalle e, forse, nel tentativo di
scomparire. L’espressione colma di meraviglia che qualche istante prima gli
illuminava il volto venne sostituita da una maschera di paura e timore. Gli
occhi si piegarono in una forma quasi disperata, e la luce che aveva acceso le
grandi pupille ora era divenuta un luccichio di preannuncio di amare lacrime.
La bocca, prima illuminata da uno smagliante sorriso sprizzante gioia e
gradimento, venne sigillato, ed i denti del fanciullo si contrassero tra loro
in una chiara affermazione di rigetto e paura.
No, non voleva farlo!
“Quelle pesce belle e rosse in effetti, non hanno un colore alla moda.
Se
non ti ispirano, puoi fare a meno di mangiarle.”
La donna comprese i sentimenti del figlio, e
con gli occhi lucidi ed un dolce sorriso affettuoso sulle labbra allargò le
braccia, invitando il bambino ad un ultimo, intenso e caldo abbraccio. Il
fanciullo le si gettò alla gola, stringendo le piccole mani attorno al collo
alto della tunica della madre, piangendo silenziosamente. Quelle piccole
perle di cristallo intrise di tutti i sentimenti contrastanti che stavano
sussultando nel cuore dei due giovani lemuriani scivolarono languide lungo le
loro guance arrossate per il vento ed il freddo pungente, per poi spezzarsi
contro il suolo roccioso.
Solo allora il bambino si accorse della
presenza di un uomo dietro di loro. Le lacrime gli impedivano di poterlo vedere
bene, ma notò immediatamente lo strano elmo dorato, con un paio di ali di drago
sulla fronte.
Chi era? Come era arrivato?
Tutte domande a cui presto avrebbe trovato
risposta.
“Se i frutti di pesco
sono belli, è per un destino predeterminato da una vita precedente.”
La donna prese il viso del bambino tra le
mani e lo guardo negli occhi, quegli stessi, magnifici occhi che entrambi
condividevano e gli posò un affettuoso bacio sui piccoli segni scarlatti che
portava sulla fronte, chiaro segno dell’appartenenza alla razza lemuriana. Poi
portò lo sguardo al pesco sacro in una tacita richiesta.
Intanto, l’uomo misterioso continuava a
fissare in silenzio.
Il fanciullo guardò prima il pesco divino,
poi portò i suoi occhi gonfi di lacrime di crudele consapevolezza al volto
della madre, ed infine ancora all’albero. Poi si voltò verso l’uomo, restando
fermo, in attesa. La misteriosa figura gli sorrise e piegò la testa in avanti,
in segno di incoraggiamento e assenso. Allora il bambino si fece coraggio e si
separò dal caldo abbraccio materno, per dirigersi ai piedi dell’albero
consacrato al Buddha. Sapeva cosa doveva fare; avrebbe colto una pesca, simbolo
dell’immortalità e l’avrebbe offerta a sua madre.
Il ragazzino prese lo slancio e saltò sul
tronco, reggendosi alla spessa corteccia della grande pianta. Con le piccole
mani si aggrappò sui robusti rami, fino ad arrivare al centro della chioma. Da
quella posizione poteva avere una buona visione di tutti i sacri frutti. Su
quei rami vi erano pesche enormi: alcune dal colore rosso acceso, altre dalle
tonalità più chiare, sfumate più scure verso il punto di attracco con il legno,
ed ancora frutti dalle tinte gialle mischiate al rosa pallido. Altre erano
grosse, belle succose, mentre altre ancora erano piccole e graziose. Il tutto
accompagnato dei giochi di luce che le foglie e i rami creavano, rendendo quel
luogo fresco, simile ad una piccola tana di lucciole.
Non aveva mai visto uno spettacolo simile.
Indugiò parecchio, e la sua piccola mano si
protese verso una pesca rossa e tanto grossa che non avrebbe potuto essere
contenuta in un suo pugno, poi la sua attenzione venne catturata da un frutto
più piccolo, di un bel colore rosa sfumato di rosso, dalla pelle morbida come
la lana dello scialle che la madre portava alle spalle.
“Se
tu scegli una pesca acerba, sei ancora tanto immaturo.”
La donna guardò il figlio con occhi
tremanti, e gli sorrise. Portò alle labbra il frutto e gli diede un morso.
Era maturo; morbido, succoso e di un bel
colore ambrato.
La donna guardò nuovamente il volto del
proprio foglio, portandosi alla sua altezza; chiuse gli occhi, mostrando le sue
lunghe ciglia, piegò leggermente il viso ed ampliò il sorriso. Aveva scelto
bene.
Il viso del bimbo si illuminò consapevole di
non aver commesso errori… e poi la sua felicità crollò improvvisamente. Il
corpo della madre si stava dissolvendo in una nuvola di polvere dorata, come lo
sgretolarsi di una stella. Nuove lacrime riempirono gli occhi del ragazzino,
che si lanciò verso la donna, ma venne bloccato dalle braccia dell’uomo
misterioso, che fino un istante prima stava osservando passivo la scena. Quei
due smeraldi si illuminarono della luce scintillante che stava espandendosi
dalla giovane, così come quelle perle che gli scendevano lungo le guance, molto
spesso paragonate ai frutti del pesco. Il piccolo petto si alzava e i abbassava
in maniera frenetica ed irregolare, mentre dalle labbra uscivano suoni e
lamenti striduli e sconnessi. Il piccolo braccio destro si protese con
prepotenza verso quelle gentili fattezze che stavano sempre più sbiadendosi,
nel tentativo di raggiungerla; ma l’uomo lo bloccava energicamente,
impedendogli di raggiungere la propria progenitrice. Rimaneva solo il viso. Le
lacrime, così come gli scossoni ed i tentativi di liberarsi da parte del
bambino divennero più violenti e spasmodici. Il dolore e la tristezza avevano
completamente accecato il piccolo cuore del fanciullo. Quando anche il viso si
dissolse, raggiungendo quella dorata polvere che si era innalzata via via nel
cielo, il bambino tentò l’ultimo, disperato assalto, spingendosi con le gambe
verso l’alto e alzando le braccia verso quella scia di piccole lucciole color
dell’oro, consumando tutte le proprie energie per lanciando l’ultimo, faticoso e
terribilmente doloroso richiamo:
«母亲 !!! (Mǔqīn(2))»
*
Mü si svegliò di soprassalto. Gli occhi
sgranati e il respiro accelerato ed affannoso. Il corpo, protetto solamente da
un candido lenzuolo di lino, era totalmente ricoperto da piccole gocce di
rugiada salata che impreziosivano i pettorali e i pronunciati muscoli
addominali. Nonostante fosse ritornato in Grecia da qualche anno a difendere
la propria casa zodiacale, la Casa del Montone Bianco, non si era ancora
abituato al caldo di quella terra baciata dal Sole. Eppure non era ancora
arrivata l’estate…
Non poteva credere a ciò che aveva appena
ricordato. La morte di sua madre, dissoltasi come polvere di stelle: la stessa
polvere che usava per i suoi attacchi e per riparare le Cloth, di cui lui
sentiva i lamenti e la sofferenza. A questo pensiero, le membra ebbero un
sussulto, ed il cuore gli ringhiò nel petto come a voler fuoriuscire dalla sua
morbida e bianca carne. Quell’acuto e improvviso dolore… no! Non poteva
ripensare al passato. Sua madre era morta, così come il suo maestro, che quel
giorno gli aveva impedito con tanto ardore di raggiungere la progenitrice.
Basta!
Mü si mise a sedere sul materasso,
muovendosi convulsivamente, sollevando il ginocchio destro e portandosi le mani
tremanti alla testa, incurvando la schiena verso il basso come a voler proteggersi
da dolorosi e, purtroppo, ancor vividi ricordi. Doveva calmarsi; non poteva
andare avanti trascinandosi il proprio passato. Avrebbe ottenuto solamente
nuova sofferenza.
Quando il respiro si fu quietato e le membra
smisero di tremare, Mü allentò la presa sulle tempie, facendo scivolare la
lunga chioma fluente a coprire il volto. Mentre il braccio sinistro si
appoggiava al morbido materasso, il gomito destro si puntellò sul ginocchio
sollevato, facendo in modo che la mano si portasse sulla fronte, intrecciando
le dita bianche con le ciocche di capelli. Il tutto accompagnato dal frinire
delle cicale, canto di dolci innamorati, sotto la pallida e lattea luce lunare
che permeava dalla finestra in pietra, unico accesso per l’alba della stanza.
Mü si passò il palmo lungo tutto il cranio, portando i capelli che gli
oscuravano ancora la vista all’indietro per poi farli scivolare delicatamente
sulla spalla destra. Si guardò intorno, constatando quanto fosse claustrofobica
la sua piccola camera di pietra. Non c’era molto al suo interno, il
proprietario non era amante delle cose materiali; preferiva la concezione
spirituale della vita. Vi era un piccolo scrittoio di legno antico con una
sedia riposta ordinatamente sotto di esso, una mensola con pergamene e rotoli
contenenti il sapere della sua razza quasi scomparsa, un grosso baule, con i
suoi attrezzi e i componenti principali per la riparazione della Cloth. Una
piccola sacca di tela era riposta al suo fianco, contenente i pochi averi del
giovane tibetano. Un portone di legno scuro era situato di fronte al letto a
due piazze su cui il Saint di Aries sedeva. La grande finestra, che dava sul
colonnato esterno alla casa, era decorata con delle tende di leggero tessuto,
di colore arancione. Quando il suo sguardo si soffermò su quel particolare, la
mente tornò ai ricordi della madre, e della sua morbida tunica… NO!
Mü scosse energicamente la testa, come a
voler scacciare quei maledetti pensieri. Sospirò sonoramente e gettò il
lenzuolo di lino sul fondo del letto. La sua figura lineare e muscolosa per
via del duro addestramento venne completamente avvolta dal chiarore lunare. Il
giovane portò il piedi sul freddo marmo, illuminato da quel magnifico candore,
e rimase a contemplare i giochi di luci e ombre che il colonnato ionico(3)
creava. Tuttavia quell’atmosfera lo soffocava: nonostante la finestra
spalancata, l’aria di maggio era già molto calda e afosa. Troppo diversa da
quella stagionale del Jamir. Mü si sollevò dal giaciglio, mostrando la sua
figura scolpita ed atletica coperta solo da un fundoshi(4) che ne nascondeva la virilità. Si mosse con lentezza e misura, come sua abitudine, e si
diresse alla finestra. Poggiò gli avambracci sulla cornice inferiore
dell’infisso, portando le gambe più indietro rispetto al corpo e lasciando tutto
il peso sulle braccia. La Luna, astro freddo e incostante, quella sera
illuminava tutta la vallata, rendendo il panorama di una bellezza gelida e
misteriosa. Il mare, che si muoveva ritmicamente, risplendeva d’argento e di
brillanti. Il soave rumore che produceva e l’odore di sale calmarono l’animo
del giovane ariete, che chiuse gli occhi e si lasciò inebriare i sensi.
Dopo aver respirato a pieni polmoni
quell’aria calda e ricca di pensieri mai sussurrati, Mü decise di uscire e fare
una passeggiata sul bagnasciuga; una nottata meravigliosa come quella non
poteva di certo essere passata nel letto. Così il giovane lemuriano prese una
tunica di lino bianca e la indossò, cingendosi la vita con una cintura di sacco
color marrone. Mise i sandali ai piedi ed uscì dalla propria stanza.
La luce lunare creava magnifici giochi con
le ombre delle colonne. Sembrava di essere in un mondo bianco e nero. Questo
pensiero fece increstare le labbra del Gold Saint in un leggero sorriso. Mai
avrebbe immaginato che una simile sottigliezza lo avrebbe rincuorato a quel
modo.
Uscito dai suoi alloggi privati, il giovine
si diresse verso la scalinata di marmo che conduceva alla sua dimora e che lo
avrebbe portato alla spiaggia sottostante il costone su cui sorgeva il
Santuario. Percorrendo la strada di terra battuta che lo avrebbe condotto alla
piccola insenatura naturale, Mü fermò il proprio passo. Volse il suo sguardo
verso quel ciliegio secolare. Nonostante fosse quasi la fine di maggio, quella
pianta non accennava a fiorire. Quella sagoma scura e massiccia che tanto gli
ricordava il sacro pesco, creatura divina ed infernale che gli aveva portato
via la propria madre. Tuttavia vi era un’enorme differenza tra i due alberi:
difatti quella pianta era morta, secca, non fioriva da tempo. Il tibetano
riportò alla mente ricordi del suo ritorno al Santuario, quando vi era giunto
per poter aiutare i giovani Bronze Saint. Il giorno precedente a quel fatidico e
nefasto dì, in quello stesso viottolo, venne raggiunto da Leo Aiolia, tornato
da una missione in Giappone. Lo trovò in quel medesimo intento e così, il giovane
greco, intavolò dopo quindici anni una conversazione con il suo amico di un
tempo:
«Quel
ciliegio oramai ha smesso di fiorire
dalla Notte degli Inganni. Alcuni dicono che sia morto, e dicono che
sia colpa
mia… quella notte, appresa la notizia della morte di mio
fratello, venni qui e
colpii il tronco, tante volte, fino a sfregiarne la corteccia – e
nel mentre il Leone parlava, i suoi palmi si chiusero in una morsa; le
sue nocche sbiancarono,
l’armatura scricchiolò sotto quella presa – ma tu te
ne eri già andato…»
Il volto
di Aiolia si fece scuro, le labbra
si tesero in una smorfia di dolore e disappunto e gli occhi, di un bel
verde prato, si strinsero, mostrando all’interlocutore tutto il
loro sdegno e
rimorso. Mü non poté far altro che ingoiare il rospo; non
poteva biasimare
l’astio del suo compagno, ma non rimpiangeva di aver abbandonato
la Grecia.
Tuttavia non avrebbe mai potuto rivelare il motivo della sua fuga.
«Quel ciliegio – riprese Aiolia, con voce
tesa e roca – era il nostro rifugio, ricordi, Mü? O il tempo ti ha offuscato
anche la memoria?»
Il tibetano volse il suo sguardo all’albero
avvizzito, e teneri ricordi di un’infanzia strappata alla normalità, ma vissuta
con dolcezza e serenità con quelle tre persone che erano divenute la sua
famiglia… ma oramai, solo Aiolia gli era rimasto. Portò nuovamente il viso al
compagno e gli regalò un caldo sorriso, lo stesso che spesso riservava a Kiki, il suo
discepolo, quando la tenerezza ne sopraffaceva la compostezza. Lo sguardo di
Leo si sgranò immediatamente, mentre i pugni si sciolsero. Era passato troppo
tempo dall’ultima volta che Mü gli aveva sorriso, e la nostalgia ed una
straziante sensazione di vuoto gli attanagliarono il fiero cuore. Il lemuriano
gli si avvicinò, pose la mano destra sulla spalla sinistra del compagno e
disse con voce leggera:
«Sì, amico mio. Come potrei dimenticare.»
Quella fu la prima volta, dopo quasi
quindici anni, che Leo Aiolia, Gold Saint e custode della quinta Casa dello
Zodiaco, pianse.
La mente di Mü tornò al presente perché
avvertì, anche se debole, una presenza cosmica. E poi lo vide.
Esattamente come accaduto nella sua
infanzia, un uomo misterioso era appena apparso dinnanzi al ciliegio. La luna
ne delineava perfettamente la statuaria figura: era molto alto, forse da poter
essere paragonato ad Aldebaran, eppure non pareva massiccio come il compagno. Il
portamento e la compostezza che quella figura manteneva gli ricordarono in maniera
impressionante Virgo Shaka, ma l’aura regale che aleggiava attorno a
quell’individuo fece portare alla mente del lemuriano la figura di Lady Saori,
Dea Athena. Resosi conto di ciò, Mü sussultò appena, per poi posarsi
immediatamente una mano alla bocca per evitare di venire udito o in qualche
modo percepito dalla figura nera. Fortunatamente parve che la piccola sorpresa
del Saint non fosse stata recepita, perché l’uomo non si mosse nella sua
direzione, ma andò verso l’albero morto con passo solenne e maestoso, cosa che
rapì, per quanto concesso, l’attenzione del lemuriano. Oramai non aveva più
dubbio: quella era una Divinità. Ma cosa era venuto a fare un Dio al
Santuario, a notte fonda? Un pensiero mise in allarme il Saint. Un attacco?!
No, non poteva essere. Mü si sciolse dalla posizione di attacco che aveva
assunto, dandosi dello stupido per il proprio pensiero avventato. Portò lo
sguardo di nuovo verso l’albero, e vide il miracolo. Una cascata di fiori e
petali di ciliegio libravano e danzavano leggeri nel cielo notturno. I rami,
dapprima spogli e secchi, si riempirono di boccioli tanto simili alla pesca
nefasta per poi aprirsi e riversare la loro nuova vita al candore lunare. Mü
non aveva mai visto uno spettacolo simile.
Come attratto da una forza misteriosa quanto
irresistibile, il giovane tibetano percorse a ritroso la strada sterrata per
poi raggiungere l’albero e l’uomo che aveva compiuto il miracolo da un piccolo
sentiero secondario. Il suo passo si fermò solamente dopo essere giunto sotto
quella pioggia di petali rosa pallido. Il volto di Mü era assolutamente
deliziato da quella visione, ma quando riportò lo sguardo verso l’uomo, notò
che quello non era l’unico spettacolo. La figura nera, nel frattempo, si era
voltata e lo stava fissando con volto impassibile.
Il giovane Saint si sentì il sangue
risalirgli il volto fino a fermarsi sugli zigomi. E pensò di essere arrossito
vistosamente, dato che l’uomo represse una risata ed increspò le labbra in un
sorriso divertito. Tuttavia non riuscì a staccare lo sguardo da quegli occhi,
come il buon senso e il pudore avrebbero suggerito, ma rimase lì, fermo, a
contemplare quella figura diafana che gli si stagliava davanti, con una pioggia
di fiori di ciliegio che rendeva l’atmosfera ancore più incantata. L’uomo si
mosse con andatura solenne verso il Saint, fino a fermarglisi dinnanzi. Mü
poté osservarlo meglio, e sentì ancora più calore arrivargli alle guance.
Quella persona di fronte a lui, come aveva già constatato, era più alta di lui
di all’incirca dieci centimetri, aveva un fisico atletico e possente, ma era
particolarmente armonico e sinuoso. Il volto era diafano, affilato, contornato
da una fluente e lunga chioma corvina; terribilmente affasciante. Tutta la sua
figura lo era. La sua era una bellezza decadente, misteriosa e fredda,
esattamente come quella Luna che brillava di luce riflessa nel cielo, ma
affascinava ed attraeva come il Sole. E poi, quegli occhi, di un colore così
particolare e puro, come la sorgente della vita che sgorgava sui monti della
sua amata terra… e poi, quegli occhiali che ne incorniciavano ancora lo
sguardo, donandogli un’aria così saggia e solenne…
Il cuore di Mü perse un colpo, quando si
sentì sfiorare la guancia sinistra ed afferrare con delicatezza una ciocca di capelli.
Oh Athena! Si era perso a contemplare un uomo! E per di più si stava
comportando come una ragazzina alla prima cotta… probabilmente l’incubo lo
aveva sconvolto più di quanto si aspettasse. Come se non bastasse, l’uomo in
nero sembrava intenzionato a far impazzire i sensi del giovane Ariete, dato che
si portò la ciocca vicino al viso, la osservò con cura e vi poggiò un casto
bacio. La cosa fece scattare una serie di reazioni violente nel lemuriano: il
respiro si arrestò, il cuore prese a palpitare freneticamente, un brivido percorse
tutta la colonna vertebrale dando scariche elettriche a tutto il corpo, e
dalle labbra candide del giovine uscì una flebile esclamazione di sorpresa.
Tutto ciò fece arrossire ancora di più il Saint che, oramai, poteva vantare di
essere diventato una versione in scala umana del Sole.
L’uomo, divertito e sentendosi un po’ in
colpa per quella reazione eccessiva ma restando totalmente impassibile,
giochicchiò con la ciocca con il pollice e l’indice, rigirandola ed arricciandola.
Poi rivolse queste parole al Saint, con tono profondo e sensuale, mentre gli si
avvicinava al volto:
«Chiedo venia per la mia scortesia, ma non
mi aspettavo di certo una simile reazione da un Saint di Athena.
Non avrei
potuto comunque trattenermi in modo alcuno; i tuoi capelli sono meravigliosi,
esattamente come questi magnifici fiori di ciliegio. Rappresentano la natura,
la forza di Demetra, e rappresentano te. L’unico Saint in grado di ridare la
vita, esattamente come la primavera. Il ciliegio ti personifica perfettamente;
esso si nutre del sangue(5) dei cadaveri sepolti alle radici, per
donar quel bel colore ai propri figli, ed ogni anno fiorisce affinché tutti
possano ammirarne lo splendore. Così sei tu, Aries Mü: tu dal sangue dei Saint
nutri le Cloth, tue figlie adottive, e le riporti a nuova vita.
Gold Saint di Aries, tu sei un meraviglioso quanto raro
fiore di ciliegio.»
Detto ciò l’uomo fece scivolare dalle dita
la ciocca di capelli, accompagnandola nella caduta, per poi sorpassare il
giovane, che aveva ascoltato quelle parole con occhi sgranati e con il corpo
rigido per ciò che quello sconosciuto gli aveva appena detto. Solo un rumore di
passi si sentiva, in quella notte ormai addormentata. Mü era spiazzato; era la
prima volta che non era in grado di contenere le proprie emozioni, ed era anche
la prima volta che non sapeva come rispondere a qualcuno. Quelle parole,
pronunciate in modo così strano quanto magnetico, gli avevano lasciato in corpo
e mente incertezza e sgomento. Lui, come i ciliegi?
Mü si voltò deciso a chiedere qualcosa che
avrebbe dovuto domandare immediatamente, ma che la situazione gli aveva reso
impossibile:
«Ma voi…»
La sua voce si disperse nel vuoto mentre
alcuni petali e fiori, sospinti da una leggera brezza primaverile, cadevano
stancamente al suolo, lo stesso dove qualche istante prima vi era quell’uomo.
«… chi siete?»
(1): fonte “Saiyuki Reload Blast
1” di Kazuya Minekura
(2): madre in cinese (fonte
Google Traduttore)
(3): stile architettonico greco,
consistente in una colonna scanalata, alta e slanciata, con un capitello (parte
superiore e che appoggia alla struttura portante del tetto/travi portanti)
decorato con delle volute i quattro angoli (piccola spirale che ricorda un
riccio, oppure l’increspatura dell’onda di mare; voleva simboleggiare la
bellezza fanciullesca)
(4): perizoma cingi-lombi
tradizionale giapponese indossato dagli uomini. Viene prodotto con una striscia
di tessuto larga uno shaku (misura tradizionale giapponese corrispondente a
trentacinque centimetri) e lunga due metri e quaranta centimetri, che viene
avvolto su intorno ai fianchi e attorcigliato nella parte posteriore per
ottenere l'effetto perizoma.
(5): antica credenza popolare
giapponese, in cui si credeva che i ciliegi selvatici, per avere il loro colore
rosato, succhiassero il sangue dei cadaveri che venivano sepolti ai loro piedi.
Angolo
dell’Autrice:
Ma ciao a tutti! E dire che ho
appena finito di scrivere la mia long, ma il mio cervello (cioè, volevo dire, il
criceto), è già pronto per altre storie. So che molti non apprezzeranno un
Hades… si era capito che era Hades, vero?! Come stavo dicendo, non tutti
apprezzeranno un Dio dell’Oltretomba con gli occhiali, ma non posso farci
niente; ho un feticismo assurdo per questi personaggi, e Hades ci stava
benissimo. Già me lo immagino che se li sistema meglio sul naso…
AAAAAHHHHHH!!!! *grido da fangirl* ahm, ehm… chiedo scusa. Se questo dettaglio
non vi piace, fatemelo sapere: se una buona parte di voi mi dice che fa schifo,
glieli tolgo (a malincuore).
Bene. Spero vi sia piaciuta.
A presto
P. S.: Mü è sempre stato il mio Saint
preferito (anche se prima c’era Shiryu, ma quando vidi Mü… bye Shiryu!), ed oggi gli
ho voluto dedicare qualcosa perché… MI È ARRIVATA L’ACTION FIGURES DI SOUL OF
GOLD!!! Felicità mia, ma non per il mio
portafogli… ç_ç (vedete voi se sono lacrime di felicità o di sofferenza)
P.P.S.: Io questa coppia la vedo benissimo; hanno caratteri molto simili, ma hanno compiti totalmente opposti^^
Storia revisionata e corretta il 10 agosto 2016 (diavolo, ero proprio inesperta con la punteggiatura...)