Anime & Manga > Saint Seiya
Ricorda la storia  |      
Autore: avalanche    19/02/2009    3 recensioni
“Sai perché tuo fratello mi piaceva?” La sua testolina va da sinistra a destra e viceversa un paio di volte. “Perché era un tipo che non prendeva mai posizione. E questo, a volte, è una virtù.”
“Una virtù? Dici?” La tua testa va su e giù. “E come mai?”
“Perché se non ti schieri, significa che non la pensi come tutti gli altri, ma non vuol dire che non pensi proprio. Semplicemente, hai una tua idea, diversa da quella della massa.”
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Rosso di sera



You know love may sometimes make you cry,
So let the tears go,
They will flow away,
For you know love will always let you fly
-how far a heart can fly away!
(Enya- Amarantine)

Il villaggio di Rodrio è dietro quelle montagne che il sole tinge di una calda luce arancione quando lei si ferma e dice:“Aspetta un secondo…”
Ti giri. E adesso che c’è?, ti chiedi guardandola. Pensi che tutto il coraggio che ha dimostrato fino ad ora si sia sciolto nel caldo della giornata che sta morendo alle vostre spalle. La guardi in silenzio, meditando se non se la stia facendo sotto all’idea di varcare quel cancello.
Trova una roccia e vi si siede sopra. Sfila lo zaino – l’armatura la porti tu, e non per cavalleria – e si massaggia il collo. Ti sembra… imbarazzata, possibile? Come se volesse chiederti una cosa, qualcosa che si vergogna anche solo di pensare.
Ti avvicini, restando in piedi di fronte a lei.
“Se ti chiedo una cosa…” inizia guardando le tue ginocchia. Poi si mordicchia il labbro inferiore e sputa fuori il resto, forse incoraggiata dal tuo silenzio: “Se ti chiedo una cosa, mi risponderai con sincerità?”
Annuisci, e lei alza i suoi occhi lucidi verso di te. Non ha visto il tuo gesto.
“Sì”, e la tua voce è un sussurro che si perde nel vento caldo. A lei basta.
Abbassa di nuovo la testa e ti fa segno di accomodarti su una roccia di fianco a lei.
“ Ci stanno aspettando. I cancelli chiudono al tramonto.”, le dici, niente affatto impaziente di restare in sua compagnia più del necessario.
“Non ci vorrà molto, te lo prometto… anche se non credo che la mia parola abbia gran credito presso di te.”
Non ti biasima, e saresti pazzo a fidarti di lei; eppure sbuffi un po’ infastidito – ma è tutto teatro, e lo sai tu per primo – e ti accomodi di fianco a lei. Pensi che non voglia vederti dritto in faccia. Che si vergogni, o che sappia già quale sarà la risposta che le darai e vuole essere preparata alla botta.
Non avrà paura di affrontare gli altri?, ti domandi studiando il suo profilo. Come gli somiglia, vero? Adesso che puoi soffermarti sul suo viso, messo in risalto dalla luce del tramonto, scopri come la curva del naso sia identica. Come le sopracciglia disegnino lo stesso arco ad incorniciare lo stesso taglio degli occhi. Le labbra, più piene in lei e più sottili in lui, sono leggermente socchiuse e la forma della mascella sembra stata scolpita dalla stessa mano. Poggia il mento tra le mani a coppa, come se stesse cercando di riannodare i fili ingarbugliati dei suoi pensieri.
Ti fai indietro, accomodandoti con la schiena contro la parete di roccia ancora calda, e aspetti. Al diavolo, un’ora in più di ritardo non farà poi tutta questa differenza.
Sospira, calma, lenta, come se con l’aria scacciasse via anche i cattivi pensieri e quelli che rischierebbero di farle perdere il filo del discorso.
“Ascolta…”
“Sì?”, ma si blocca. Capisci che devi stare zitto. Le chiedi scusa, facendole segno di continuare.
“So che ti sembrerà una domanda scema, magari riderai pure di me, ma ti assicuro che è importante. Ok?”
“Ok.”
“Com’è la tua memoria?”, ti chiede dondolando i piedi davanti a sé.
“Buona, anche troppo a volte.” Non hai dimenticato quello che ha fatto. Questo è sicuro. “Perché?”, aggiungi sapendo che il discorso andrà a parare altrove.
“Perché vorrei chiederti una cosa…” e tu preghi di non essere costretto a cavarle di bocca le parole una ad una. Cos’è tutta questa reticenza, tutto questo pudore se solo stamattina ti avrebbe cavato gli occhi a mani nude per essere entrato nella sua stanza senza bussare? “Vorrei sapere se, per caso, ti ricordi quale è stata l’ultima conversazione che hai avuto con mio fratello…”
La richiesta ti gela. L’ultima chiacchierata con Camus. Avresti giurato che ti avrebbe chiesto di fornirle i dettagli, i più precisi possibile, su quale punizione l’attendesse dietro le mura segretissime del Santuario. Qualcosa tipo “Mi appenderanno per i piedi?”, oppure “Mi beccherò delle frustate?” o anche “Dovrò mettere la maschera e vivere come una reietta per il resto dei miei giorni?”. Cose del genere, che, ti rendi conto, sono solo tue paure, non sue.
E’ come se non gliene fregasse nulla della punizione in sé e per sé, come se lei sapesse che, qualsiasi obbligo le imporranno, sarà solo perché se l’è cercata.
Resta impassibile accanto a te. Tu non la vedi, ma percepisci chiaramente che ogni suo atomo attende. Attende che tu le risponda, anche solo con un “No, non me lo ricordo.”.
E invece tu te la ricordi benissimo l’ultima conversazione che hai avuto con suo fratello. Il momento preciso, le due del pomeriggio, quando ti è apparso davanti chiedendoti di farlo scendere alla Settima Casa.
Le parole, grosse, e gli insulti che vi siete scambiati mentre tu gli dicevi che era una pazzia e lui ti ripeteva la stessa richiesta come un disco rotto che sta per perdere la pazienza e schizzare via dal giradischi.
L’espressione che aveva, così granitica da sembrarti un altro, così deciso da chiederti, ancora adesso, se per caso non sarebbe passato sul tuo cadavere senza troppe cerimonie qualora tu non avessi acconsentito ad aiutarlo. E quello che ti fa correre un brivido lungo la schiena non è tanto quest’eventualità, quanto il fatto che sai che l’avrebbe fatto senza scomporsi.
E’ così importante?, ti chiedi osservandola con la coda dell’occhio. Sì che lo è. Una corda di violino potrebbe imparare da lei il significato dell’aggettivo “tesa”.
Raccogli il coraggio tra le mani e le dici “No.”.
Una pugnalata in mezzo alla schiena le avrebbe fatto meno male. Mormora un “Capisco…” e abbassa la testa. “E’ solo che… solo che speravo tanto che tu… almeno tu mi ridessi indietro parte di lui…”
Parte di lui?, ti chiedi, domandandoti subito dopo se per caso non hai frainteso le sue parole. “In che senso?”, le chiedi avvicinandoti.
“Nel senso che…” Fatica a mantenere la voce unita. Respira un paio di volte prima di riprendere a parlare: “Nel senso che tu sei stato a contatto con lui molto più di me, e contavo sul fatto che i tuoi ricordi potessero aiutarmi a ricostruire che tipo fosse mio fratello.”
“Ah…”
“Vedi, io non ho alcun ricordo della mia vita prima di lui. So che venne a riprendermi all’Orfanotrofio perché me lo disse lui, così come mi disse che tutti gli dicevano che era follia pensare di crescere una bambina in Siberia… come se lui fosse un uomo, per altro!”
“Tuo fratello sapeva essere testardo, quando ci si metteva…”
“Oh, di’ pure ottuso, che è vero…”
Un sorrisetto ti inarca le labbra. Sì, quando ci si metteva era finita: convincere un muro avrebbe dato risultati più confortanti rispetto a parlare con lui.
“Vedo che ti ricordi qualcosa, comunque sia…”, e cerchi di sorridere.
“Poca cosa. Ho più ricordi del mio maestro che non di mio fratello…” e la vedi rabbrividire un poco. Quel sadico avrà esagerato?
No, ti dici, perché altrimenti Camus non gliel’avrebbe fatta passare liscia... Ti dici che forse avrà calcato la mano, ma sempre al limite del consentito, scavalcando di poco la linea di confine. E poi ti chiedi se per caso Mask non sapesse chi fosse la ragazzina che stava allenando.
“Ricordo che vivevo con mio fratello in una casetta nel bianco. Poi un giorno arrivò un ragazzino. Isaac, si chiamava. Poi, avrò avuto quanto? sei, sette anni, arrivò Mask a prendermi, e fine dei ricordi…”
Sì, Mask sapeva tutto, e se da un lato provi pietà per lei, dall’altro ti chiedi se Camus non potesse condividere anche con te quel segreto.
“Vuoi dire che non hai più visto tuo fratello?” chiedi, e lei annuisce, la testa che va su e giù, su e giù, mentre il sole decide far andare i motori a tutta potenza e portarsi la terra con sé.
“Per questo speravo in te… Si vede che ho fatto i conti senza l’oste.”
“Capisco. Ma perché volevi sapere se ricordavo proprio l’ultima conversazione con tuo fratello?”
“Per capire”, risponde lei. “Per capire se davvero con Hyoga è stato un incidente, oppure se era cosciente di quello sarebbe successo…”
“Ovvio che era consapevole dove l’avrebbero portato i piedi…”, rispondi accomodandoti di nuovo a fissare il sole.
“Eppure lo ha fatto lo stesso…”
“Lo ha fatto perché era un maestro. E perché si preoccupava per il suo allievo. Alla fine, si è trattato di un fatto personale…”
Un fatto personale. Ti sembra ingiusto e riduttivo, ma non cambia la sostanza delle cose. Lui aveva cominciato a nutrire dei dubbi nel momento stesso in cui Hyoga era passato dalla parte di Saori.
“Quindi, lui non era schierato con il Sacerdote…”
“Con il Sacerdote? Lui?” Sì, questa ragazza non conosce minimamente il fratello. “Sai perché tuo fratello mi piaceva?” La sua testolina va da sinistra a destra e viceversa un paio di volte. “Perché era un tipo che non prendeva mai posizione. E questo, a volte, è una virtù.”
“Una virtù? Dici?” La tua testa va su e giù. “E come mai?”
“Perché se non ti schieri, significa che non la pensi come tutti gli altri, ma non vuol dire che non pensi proprio. Semplicemente, hai una tua idea, diversa da quella della massa.”
Lei tace, soppesando le tue parole, e tu tremi all’idea che ti chieda se ti fossi schierato o meno, se avessi un’idea tua o se aderissi alla corrente più numerosa.
E infatti…
“E tu? Eri anche tu un libero pensatore come mio fratello, oppure…” eri un pecorone come gli altri?, sottintende ma ha il buongusto di tacere.
“Io ho difeso il Santuario da quella che era un’invasione in piena regola.”, ribatti incrociando le braccia.
“ Peccato che quella fosse la vera Athena e che l’impostore fosse il Sacerdote…”, punzecchia lei.
“Chi è senza peccato…”
“Scagli la prima pietra, lo so, lo so.”, dice accavallando le gambe. “Non mi sogno di farti la morale. Volevo capire che ruolo avesse svolto mio fratello in tutta questa storia.”
E ti ritorna in mente, parola per parola quello scambio.
“Ammettilo! Tu pensi che Hyoga abbia ragione! Tu pensi che il Sacerdote sia nel torto!” avevi gridato, le vene del collo gonfie per lo sforzo e la rabbia.
“Non è importante quello che io penso o non penso, adesso. Te lo ripeto, fammi passare. Voglio sistemare con le mie mani il mio allievo.”
Sei rimasto in silenzio, lo ricordi benissimo, a scrutare quell’incendio blu che rischiava di portarti con sé. “Sicuro?”
“Sicuro. Ho messo il mio braccio al servizio del Sacerdote. Ho fatto la mia scelta. Non m’interessa scoprire se il mio allievo è in torto o no. Non perderò tempo in dispute filosofiche, non siamo i tipi, né io né lui.”

Altro momento di silenzio, mentre il primo pomeriggio accarezzava pigro l’inizio di una battaglia che si profilava come estenuante e che al termine avrebbe lasciato sul selciato troppi morti.
“Te lo chiedo per l’ultima volta: fammi passare. Distruggeremo quei ragazzini solo sbadigliando. Ma non lui. Lui no. Lui è mio. Io l’ho creato e io lo distruggo. Quindi non fare lo stronzo, come tuo solito e fammi passare…”
Se te l’avesse detto qualcun altro, non avresti perso tempo ad esaminare la richiesta: avresti estratto il tuo aculeo e gli avresti fatto rimangiare quelle parole una per una. Ma non con lui. Non lui, così silenzioso e riservato che ti faceva piacere avere come amico, anche se non si degnava di darti uno straccio d’informazione su di sé.
“Mi dispiace, ma non posso aiutarti…”. Ti alzi e lei ti segue. Il Santuario è dietro quella curva, ma si sta facendo buio.
Lui non ti diceva nulla di sé, ed ogni informazione, ogni piccolo segreto rubato era una specie di tesoro. A volte avresti voluto sbattergli la testa contro un muro per vedere cosa vi tenesse dentro, se la segatura o le pigne secche. Davanti a lei fingi, ma ti dava fastidio, oh se ti dava fastidio questa sua ritrosia con un amico. Non ti faceva sentire tale. Capivi che era nella sua natura, e l’accettavi. Però… però ti rode tuttora dentro.
“Mio fratello…”, riprende lei quasi al centro della minuscola piazza del villaggio, tra la piccola farmacia, la macelleria e il barbiere, l’emporio di fronte a voi.
“Vuoi sapere se mi ha mai parlato di te?” La sua testa va di nuovo da destra a sinistra, ma non la vedi. “ No, non l’ha mai fatto, altrimenti mi sarei comportato diversamente, non credi?”
“E allora come hai capito…”
“Che sei sua sorella?” Stavolta fa cenno di sì non appena ti volti. Si trova davanti ad una pentola che ribolle e borbotta, con il coperchio che non chiede altro che di essere sollevato. Eppure, lei ha paura di scoperchiare quella pentola. Paura di quello che vi potrà trovare dentro. Ha paura che forse non le piacerà. “L’ho capito solo nel momento in cui ho fatto caso al tuo viso.”
“Il… il mio viso?”
“Siete identici, non te ne sei mai accorta?” e riprendi a camminare, con lei che ti trotterella dietro, e la tua mente che cerca di richiamare quante più informazioni possibili su Camus.
Entrate nell’emporio e non ti accorgi che lo sguardo azzurro di Agathê corre da te a lei, con le guance rosse e gli occhi umidi, che tira su con il naso fingendo sia per colpa del raffreddore e non perché si è commossa. Il comando scatta, il muro segreto si apre e in un angolino della tua mente ti sovviene che questa è la prima volta che lei entra al Santuario.
Non sai quanto suo fratello ne sarebbe stato fiero – o forse sì, considerando che girava per questi luoghi come un David Bowie dei poveri – né se l’avrebbe spinta fin sotto al Palladio a calci o se se ne sarebbe rimasto impassibile all’Undicesima Casa scoccandole un’occhiata di fuoco al suo passaggio. Forse è un bene che non ci sia Camus ad attenderla, dopo tutto…


Maggio.
Il sole al tramonto arde più caldo di qualche mese fa. Osservi come la bellezza selvaggia di Capo Sounion sia rimasta inalterata. Qui Saga avrebbe dovuto monitorare le mosse di Poseidone, pensi ripescando la balla che vi aveva detto Saga.
Il cielo e il mare si abbracciano in una sfumatura unica, tra il giallo e il rosso, laggiù all’orizzonte. L’odore del gelsomino e della menta selvatica ti accarezzano gentili le narici.
L’alta marea è lontana. Sale due volte al giorno, al mattino e un paio d’ore dopo il tramonto. Saranno le cinque, lo capisci dalla foglia di cerfoglio che tieni in bocca che è ancora di un bel verde deciso. Tra poco inizierà a sfumare verso il giallo. Meglio andare. Meglio sbrigarsi e raggiungerla. E sarà meglio scegliere con cura le parole da dirle.
Perché, dopo la tua vigliaccheria – sì, vigliaccheria – di qualche mese fa, sarà piuttosto difficile risultare convincente, risultare credibile quando le dirai che sì, lì per lì non ti ricordavi nulla dell’ultima chiacchierata con suo fratello, ma che adesso, dopo sette mesi, improvvisamente ti ricordi tutto per filo e per segno.
Speri che ti creda? Davvero?
Come tuo solito ti dici che se ci crederesti tu non vedi perché non dovrebbero crederci gli altri, e ti dirigi verso di lei con le mani in tasca e l’aria di chi passa di lì per caso.
Per caso. A Capo Sounion.
Io non ti crederei. Non lo farà nemmeno lei. E lo sai.
Infatti quando scendi davanti alla grotta lei ci mette un po’ prima di alzare la testa dalle sue ginocchia e voltarsi verso di te.
Sbatte le palpebre un paio di volte, si sfrega gli occhi e poi si alza in piedi.
“Tu?” ti chiede afferrando le sbarre. Sono spesse, larghe e sembra che l’acqua di mare non le scalfisca.
“Io.”
“Che ci fai qui?”, ti domanda sempre più perplessa. “Credevo fosse il tipo che mi porta da mangiare.”
“Non sai come si chiama?”
“No, cambia ogni settimana. E non parlano con me. Forse glielo hanno vietato.”
“Beh, non sono qui per la cena.”, le dici un po’ deluso. Che ti aspettavi? Di poterle pescare un paio di pesci ed arrostirglieli davanti alla grotta?
“Sì, lo avevo capito…”, risponde lei pettinandosi con le mani i capelli, che adesso le scendono oltre le orecchie. E’ pelle e ossa. La prigionia non abbellisce nessuno.
“E’ che… che mi trovavo a passare da queste parti per caso…”
“Per caso? A Capo Sounion?”commenta lei, come volevasi dimostrare.
“Sì, mi hanno mandato in missione da queste parti… Beh, non proprio da queste parti, ma tornando mi sono ricordato di una cosa, e così ho allungato per passare qui.”
“Da me che non posso ricevere visite e che persino le persone che mi portano da mangiare trattano come un’appestata?” E’ incredula mentre ti parla, e inarca un sopracciglio proprio come avrei fatto io di fronte ad una delle tue tante assurdità.”Deve essere importante!”
“Sì. Lo è. Mi sono ricordato… Mi sono ricordato dell’ultima conversazione che ho avuto con tuo fratello.”
Le sua mani serrano le sbarre, gli occhi si spalancano. “Tu… Tu te ne sei ricordato?”
“Sì. Farà bene sia a te che a me. Ascolta…”, e mentre le racconti quello che hai lasciato decantare dentro di te dalla fine di Ottobre, ti ricordi anche tu di una cosa. Di un piccolo, impercettibile particolare che in quel momento ti era sfuggito.
Accadde dopo. Quando vedesti passare il tuo migliore amico di ritorno dalla Settima Casa, dopo che aveva congelato il proprio allievo per sottrarlo ad una morte indegna, per dargli una sola possibilità di salvezza rispetto a quella inesistente che avrebbe avuto se si fosse scontrato contro un Gold Saint fatto e finito, tu notasti che c’era qualcosa nei suoi occhi.
E non mi riferisco al luccicore tipico di chi sta per piangere. C’era una richiesta, una richiesta inespressa che tentava di farsi strada per raggiungere le labbra serrate del tuo migliore amico.
Tu l’hai vista. E l’hai collegata al desiderio di Camus di uccidere Hyoga nella remotissima ipotesi che fosse riuscito a sgusciare via da quella bara di ghiaccio.
E ti ricordi che cosa hai detto?
“Non preoccuparti. Ci penserò io.”
Ricordi che il tuo migliore amico ti ha guardato in modo… strano?
Lì per lì ha pensato che tu fossi riuscito a leggergli la mente. Perché sì, lui voleva chiederti di pensarci tu, qualora lui non avesse potuto farlo; ma non si riferiva a lui, bensì a lei.
Era a lei, a sua sorella, che Camus voleva chiederti di badare qualora non fosse uscito vivo da quella maledetta giornata. A lei. Lei.
Tu non intendevi certo questo, bensì un più prosaico “Lo passo da parte a parte semmai dovesse avere la malsana idea di farsi vivo da queste parti”. Eppure, per un istante, ha capito che tu l’avresti fatto, che tu ti saresti preso cura di sua sorella. Era solo questione di aspettare. Aveva una certezza senza dover tradire un segreto impostogli tanto tempo prima.
“Grazie…”, ti ha detto, e si è allontanato verso la propria Casa, sapendo che sua sorella sarebbe stata in mani migliori che in quelle del suo Maestro. E adesso, a vedervi chiacchierare di lui, come se fosse lì con voi, il suo spirito può staccarsi sereno da questa terra, in questa luce che tinge il mare e la sabbia d’arancio e il cielo di amaranto.


Saint Seiya e i personaggi ad esso legati appartengono a Masami Kurumada, anche se non se li merita. Françoise appartiene a Francine ed è qui utilizzata col suo consenso. Dell'autrice, ovviamente ;)
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: avalanche