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Autore: Kanako91    21/10/2015    6 recensioni
Separata dalla guardia con cui suo fratello Turgon le ha concesso di lasciare Gondolin, Aredhel raggiunge i cugini Celegorm e Curufin, ma non li trova in casa. Durante le passeggiate per i loro territori, Aredhel si spinge troppo lontano e finisce invischiata nelle tenebre di Nan Elmoth. Dopo giorni di girovagare alla ricerca di una via d'uscita, solo un palazzo, spuntato dal nulla le offre riparo dalla foresta.
Per una promessa impulsiva, Aredhel si ritrova a vivere con cinque strani servitori e un padrone di casa che è tutto fuorché gentile e ben disposto.
[What if? del Capitolo 16 del Silmarillion: come avrebbe potuto essere tutto consenziente?]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aredhel, Eöl
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tempi di Alberi, di Fiori e di Frutti'
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Di seguito, un piccolo dizionario per gli amici dei Sindar:
Curufinwë: Curufin
Fëanáro Curufinwë: Feanor
Írissë, Iritta: Ireth, il nome paterno di Aredhel Ar-Feiniel
Itarillë/Itarillinkë: Idril, il secondo è un nomignolo non ufficiale (grazie Elleth!)
Moringotto: Morgoth
Ondolindë: Gondolin
Tyelperinquar: Celebrimbor
Turukáno/Turno: Turgon
Tyelkormo/Tyelko: Celegorm
Valar: Belain





Capitolo VI. L’eredità del crepuscolo



E Aredhel partorì a Eöl un figlio nelle ombre del Nan Elmoth, e in cuor suo gli diede un nome nella lingua proibita dei Noldor: Lómion, che significa Figlio del Crepuscolo.




«Il ferro è quasi finito».

Eöl batté altri due colpi e infilò sotto i carboni la lastra che stava modellando. «Contavo che sarebbe durato fino al prossimo viaggio» disse e lanciò un’occhiata oltre la spalla a Írissë.

Lei guardò il libro dei conti. «C’è stato il problema in cucina, e anche il portone d’ingresso da sistemare».

Seduto sul tavolo, Lómion si sporse sul libro, come se potesse leggere quello che suo padre aveva scritto. Írissë ci aveva impiegato un po’ a decifrare quei segni sgraziati che Eöl considerava un buon modo di scrivere, ma era stata colpa della riluttanza di lui a farle vedere i suoi appunti. Aveva finito per convincerlo e ora era quasi contenta di poter leggere quei graffi di inchiostro mentre lui lavorava.

Lómion tirò una manata sulla pagina e guardò Írissë con gli occhi spalancati e brillanti. «Giusto!» gli disse e gli sfiorò la punta del naso con l’indice. «La giostrina per la culla del piccolo, quella non l’avevi prevista».

Eöl grugnì e tirò fuori la lastra dai carboni. «Quella l’avevo prevista» borbottò e riprese a battere.

«Hai sentito, piccolo? Fa tanto il sostenuto, ma poi pensa ai tuoi giochi».

Lómion sorrise, incerto, e premette le mani insieme davanti al petto.

«Ci sono comunque stati degli imprevisti».

«Dovrò anticipare il viaggio, allora».

«O farteli inviare da Vindálf? Non dovrebbe–»

«Signore!» urlò Angrin, da sopra le scale della fucina. «I Naugrim sono qui, tutti vivi!» il resto si perse in un borbottio che Írissë preferì non ascoltare. Era sempre la solita solfa e comprendeva pelli di Naugrim con cui fare scarpe e barbe da usare per fare le scope. Non valeva la pena discutere sulla fattibilità di quelle invenzioni.

Írissë prese in braccio Lómion e chiuse il libro dei conti con l’altra mano. «Vado ad accoglierli».

«Non fargli vedere mio figlio» disse Eöl, senza interrompere il martellare.

Írissë scoppiò a ridere. «Tranquillo, so come tenere occupato Angrin».

Risalì le scale e in cucina trovò Naureth intenta a mettere i biscotti su un vassoio, prendendoli da un barattolo di terracotta. Angrin entrò con un pentolino pieno d’acqua, la fronte corrugata e il broncio.

Quando lui lasciò il pentolino sul piano del forno, Írissë gli porse Lómion con un braccio. «Vado a occuparmi degli ospiti».

Con uno scatto, Angrin prese Lómion con entrambe le braccia e annuì.

Írissë diede il benvenuto a Vindálf e i suoi compagni e li fece accomodare nel salotto, lo stesso in cui avevano fatto sedere lei appena arrivata al palazzo. Gli arazzi neri erano spariti e c’erano tocchi di bianco tra il nero. Con il fuoco nel camino, era ancora una stanza cupa, ma almeno sembrava più spaziosa e meno opprimente. Aveva un po’ di Eöl e un po’ di Iritta, come la chiamava lui.

Alla domanda su dove fosse suo marito, Írissë rispose: «Nel suo studio» e li invitò a sedersi in attesa che lui arrivasse.

Vindálf e i suoi ebbero molto da raccontare e di cui parlare, tra le avventure poco credibili durante il viaggio e storie che venivano dall’Est con le merci degli Hwenti. A Írissë ebbe pure modo di scoprire avevano avuto a che fare con Moryo e Curvo, in momenti diversi, grazie ad alcuni accenni frettolosi.

Però Eöl non ne voleva sapere di arrivare.

Quasi istigata da quel pensiero, la porta del salotto sbatté ed Eöl comparve sulla soglia, una mano sulla spalla di uno dei Naugrim e sull’altra un vassoio con teiera e sette tazze. Una per ospite presente più una per lui. I Naugrim tacquero e quello tenuto da Eöl si divincolò e tornò nel gruppo.

Cos’era successo?

Le bastò incrociare lo sguardo di Eöl per sapere che doveva andarsene di là. Era successo qualcosa ed Eöl non era nemmeno un po’ di buon umore: sottili rughe erano comparse intorno ai suoi occhi e aveva la mascella contratta. Írissë non lo aveva mai visto così. Le gelava il sangue nelle vene.

Si alzò dallo scranno, sorrise ai Naugrim e uscì dal salotto, chiudendosi la porta alle spalle.

Avrebbe voluto stringere il braccio di Eöl, nell’uscita, ma qualcosa le aveva detto che non avrebbe voluto essere toccato.

Írissë inspirò a fondo e si incamminò verso le cucine. Trovò Naureth poggiata con i fianchi al tavolo, una mano a pugno sotto il mento e le sopracciglia corrugate.

Angrin, invece, camminava avanti e indietro davanti a lei, Lómion gettato su una spalla, mentre agitava la mano libera e riversava addosso a Naureth un fiume di parole in quello che Írissë, in quegli anni, aveva scoperto essere un dialetto Tatyarin. Avevano preso in prestito molte parole dal Sindarin, a furia di vivere nel Beleriand, e quindi le bastò sentire “Naugrim” per capire che Angrin ce l’aveva con i loro ospiti.

«Che succede?» chiese Írissë, prendendogli Lómion dalle braccia, e Angrin si fermò e le rispose in Sindarin.

«Uno di quei Naugrim è entrato nel laboratorio del signore, voleva rubargli il segreto del galvorn!»

Naureth lasciò cadere le braccia in grembo, con un sospiro esasperato.

Írissë sgranò gli occhi e strinse Lómion a sé. «Come hanno potuto? Dov’è il rispetto per il lavoro altrui?»

Angrin agitò le braccia nella sua direzione, senza fiatare, le sopracciglia inarcate, e Naureth rilassò le spalle.

«Ecco, è quello che dico!» esclamò Angrin. «Non sono altro che creature deformi e pelose, corrose dall’avidità. Qualsiasi pagamento che riceviamo da loro è veleno».

«Quel veleno ci permette di mantenere il palazzo, non sputare sul lavoro del padrone» rispose Naureth.

Angrin voltò verso di lei. «Loro per primi hanno sputato sul suo lavoro, Naureth. Credono che basti loro conoscere la composizione del galvorn per produrre qualcosa di simile? Non sono altro che creature deformi e stupide, non potrebbero mai fare quel che facciamo noi Kwendi».

«Non è corretto» disse Írissë, guardando Naureth «stanno collaborando o stanno cercando di rubare il lavoro di Eöl?»

L’indignazione ribolliva nel suo stomaco. Possibile che anche Vindálf e i suoi provassero le brame corrotte del Moringotto? Lui aveva provato ed era riuscito a derubare Fëanáro Curufinwë dei suoi Silmarilli, e ora i Naugrim avevano provato a rubare il galvorn a Eöl!

A Írissë quella situazione non piaceva, la metteva a disagio, era rivoltante. Si era fidata di quei Naugrim, aveva creduto di vedere altro al di fuori dell’avarizia da cui Eöl l’aveva messa in guardia più volte.

Ora cosa avrebbe fatto Eöl a Vindálf e i suoi? Non avrebbe lasciato impunito questo approfittare della sua fiducia. Lómion si aggrappò a una ciocca dei suoi capelli, quasi percependo il suo turbamento.

Írissë si mise in piedi, lasciò Lómion a Naureth, e tornò al salotto. Delle urla misero fretta ai suoi passi e Angrin le fu alle calcagna. Aperta la porta, vide i Naugrim in piedi intorno a Vindálf, che urlavano in Khuzdul con aria indignata, agitando i pugni, compreso quello che era stato riportato indietro da Eöl.

Vindálf era l’unico calmo, seduto allo scranno, la tazza in mano e lo sguardo fisso su Eöl, seduto a un’altra poltrona.

Eöl parlò, non in Sindarin, ma in Khuzdul, e Vindálf strinse gli occhi e le dita intorno alla tazza. Eöl dovette dire qualcosa che fece scendere Vindálf dallo scranno e sputare per terra.

«Lurido storpio» ringhiò Angrin e mosse un passo nel salotto.

Írissë lo afferrò per il collo della camicia e lo tirò indietro e lontano dalla soglia. Angrin mise il broncio, ma non fiatò, le braccia incrociate sul petto. Era un conforto che avesse desistito subito dagli insulti. Írissë non era certa di capire, o di voler capire cosa stesse succedendo, ma il cuore le batteva all’impazzata.

Eöl era stato così freddo, Vindálf così sprezzante. E il Khuzdul aveva reso tutto più aspro.

Non voleva capire davvero cosa si fossero detti. La sua immaginazione le suggeriva scenari tremendi.

I Naugrim lasciarono il palazzo, Lainedhel a guidarli fuori, Angrin a chiudere le fila. Eöl non parlò a Írissë, né quando uscì dal salotto e le rivolse uno sguardo cupo, né a cena quando Cútirion giunse con una notizia tremenda: aveva trovato la spedizione di Naugrim di Vindálf al limitare di Nan Elmoth. Tutti morti.

Ed Eöl non sembrò sorpreso dalla cosa. Írissë abbassò lo sguardo nel suo piatto.

I Naugrim tutti morti. Era stata la foresta o qualcuno su ordine di Eöl?

O lui stesso, in qualche modo?

Írissë non fece domande ed Eöl non le offrì spiegazioni. Lómion rimase in cucina con Naureth, ignaro di tutto, finché Írissë non lo recuperò per portarlo a letto.



Il mattino dopo, Eöl aveva gli occhi chiusi e il petto si sollevava e abbassava piano, in un movimento appena percettibile. Era disteso sulla schiena di fianco a Írissë e lei si sollevò su un braccio per guardarlo in viso.

Non aveva ancora deciso cosa provasse per la morte dei Naugrim. Nessuno della servitù di palazzo ne era stato colpito, tutti avevano agito come se fosse normale. Era stata Nan Elmoth o si trattava di una qualche usanza Avarin? In quattro anni, ancora non aveva scoperto tutto di loro. Sotto le loro maniere Sindarin, c’era qualcosa di selvaggio, di mai domato, che minacciava sempre di spuntare fuori.

Qualcosa che nemmeno loro Noldor avevano perso.

Írissë si alzò dal letto e andò nella stanza di fianco alla loro, dove la culla era silenziosa. Ma era certa che Lómion non stesse più dormendo, lo sentiva. Così si avvicinò alla culla e lo vide con gli occhi chiari ben aperti, il ciuffo di capelli scuri disordinato.

Lómion tese le manine nella sua direzione, senza un verso, e Írissë lo prese in braccio con un sorriso.

«Hai dormito abbastanza?» gli chiese. Sapeva che lui capiva. Lo aveva già sentito risponderle con versi quasi comprensibili. Írissë ricordava Tyelperinquar da piccolo e come Curvo e Tyelko si divertissero a portarla da lui e chiedergli cose, solo per sentirlo dare una risposta con la sua vocina da bambino, mettendo insieme parole sconnesse. Itarillinkë, invece, era stata tutta sorrisi e aveva aspettato di poter formare una frase sensata per parlare.

In pochi mesi, anche Lómion avrebbe risposto.

Peccato che non avesse cugini con cui giocare o zii per farsi coccolare.

Ma Írissë sapeva che Ondolindë le era preclusa. Era fuggita, aveva fatto perdere le sue tracce, non era così sicura di poter tornare in sicurezza. Non aveva idea di quale fosse la situazione a Ondolindë, le notizie che Eöl portava dai Monti Azzurri non erano rilevanti per lei, Cútirion le portava informazioni dai suoi viaggi, ma non riusciva a sapere di più su Turno e Itarillinkë e forse era un bene. Nessuno parlava del regno di suo fratello. Nessuno portava notizie da Ard-Galen. La prese come una cosa positiva, perché voleva dire che non c’erano problemi, ma avrebbe voluto tanto entrare in contatto con Turno e dirgli che era viva e che aveva un nipote.

A Ondolindë si era sentita isolata e prigioniera di quella cinta di monti e del segreto che custodiva la città. Ora, in Nan Elmoth, era tagliata fuori da Ondolindë in maniera definitiva.

Írissë guardò Lómion. E lei stessa aveva deciso di tagliare quel legame in maniera più netta di prima, unendosi a Eöl e partorendo un figlio in quella foresta. Sapeva che Eöl non avrebbe visitato Ondolindë con lei nemmeno sotto tortura, così come sapeva che i Sette Cancelli non si sarebbero aperti per lei, ora che era fuori.

Eppure, non si era mai sentita più felice e libera di così.

Írissë tornò nella camera da letto ed Eöl aveva gli occhi aperti, era seduto con la schiena contro la testiera del letto, i capelli neri e arruffati che si riversavano sulle spalle nude e pallide. Lo sguardo di lui corse subito a Lómion e Írissë andò a sedersi al suo fianco.

«È così silenzioso» disse Eöl. «I bambini non urlano e strepitano in continuazione?»

Írissë ridacchiò e distese Lómion tra le braccia, così che potesse vedere in viso suo padre.

«Hai avuto a che fare con molti bambini?»

Eöl guardò Lómion, con le sopracciglia corrugate. «Alcuni, quando ero ancora nell’Est. Ma ero un ragazzino, allora».

«È probabile che li trovassi più fastidiosi di quanto non fossero?»

Eöl tese un dito verso la pancia di Lómion. «Non ne ho idea».

«E ricordi che non davate loro nessun nome alla nascita?»

Eöl ritrasse la mano e sollevò lo sguardo verso di lei. «Mio padre mi ha dato un nome quando ho compiuto dodici anni. Che senso ha dare un nome a un infante che non ha dimostrato ancora chi potrebbe essere? E che potrebbe morire, in pasto a qualche bestia della notte?»

Oh, non era la prima volta che facevano quel discorso. E non serviva a niente dirgli che non erano nell’Est e che loro figlio avrebbe superato il dodicesimo anno di età senza fatica.

«Ora come lo chiameresti?» gli chiese.

Eöl lanciò un’occhiata a Lómion e disse qualcosa che Írissë non riuscì a decifrare. «Che vuol dire bavoso».

Lómion rise con un gorgoglio e dei muscoli guizzarono sulle guance di Eöl, quasi stesse cercando di non ridere. Írissë fu costretta a ridacchiare.

«Non è così bavoso».

«Di certo ho trovato bava sulla mia casacca, l’altra mattina».

Írissë inarcò le sopracciglia. Questa era una cosa insolita. «Lo hai preso in braccio?»

Eöl la guardò come se gli avesse fatto una domanda idiota. Ma non lo era!

«Mi guardava».

Írissë lo guardò nello stesso modo. «Ha due occhi, è normale che guardi».

«Mi guardava come se volesse che io lo prendessi in braccio».

Írissë scoppiò a ridere e posò la testa sulla sua spalla. «Oh, non è stato così terribile, no?»

Eöl grugnì e Írissë guardò Lómion, con un sorriso sulle labbra e gli occhi brillanti. Aveva uno sguardo così intelligente, a dimostrarle che, nonostante il silenzio che manteneva, capiva quel che si diceva. Era incredibile come la sua sola presenza avesse cambiato molte cose non solo in Írissë, ma anche in lei ed Eöl. Per quanto lui non desse molta confidenza a Lómion e stesse ancora più attento a non toccarlo, quasi si potesse rompere, Eöl era consapevole di questa vita che avevano creato insieme.

Quel che lui non sapeva era che Írissë aveva già dato un nome al bambino.

Perché una madre dei Noldor sapeva cosa ne sarebbe stato della sua prole.

E Írissë sapeva che quello tra le sue braccia era il figlio del crepuscolo.


* * *


Anche quando, intorno a un anno dalla sua nascita, il bambino iniziò a parlare, si dimostrò una creatura di poche parole. Lammaite tenne a precisare a Iritta che anche Eöl, a detta di sua madre, era stato così silenzioso da bambino.

«Non che sia diventato più chiacchierone» aveva commentato Iritta.

«Proprio per questo sua madre mi ha rassicurata» aveva detto Naureth. «Non prendertela, mio figlio è nato di poche parole e temo che se dovesse pronunciare un discorso troppo lungo, potrebbe morirne».

Eöl aveva storto il naso a quell’imitazione di sua madre. «Forse dimentichi che aveva aggiunto: perciò, non farlo parlare troppo, ngalammaite».

Iritta era stata un po’ più tranquilla dopo quel racconto e la cosa non poteva che farlo stare meglio. Per quanto lo sguardo del bambino lo mettesse a disagio. Ed era quello a obbligarlo a nascondersi dietro Iritta, non i silenzi. Le poche parole lo mettevano a suo agio, quegli occhi da Golodh no.

Perché quel bambino sembrava il ritratto di quelli che dovevano essere i parenti maschi di Iritta: aveva capelli nerissimi e occhi di un grigio ghiaccio innaturale, la pelle era dello stesso pallore della lampada notturna di Iritta.

Era davvero suo figlio quello? O era un figlio dei Golodhrim?

In qualsiasi caso, Eöl non sapeva cosa fare. C’era intelligenza in quegli occhi, c’era una certa consapevolezza che Eöl non si sarebbe mai aspettato di trovare – dopotutto non aveva mai visto un bambino così piccolo – e lui non aveva idea di come comportarsi. Non si trovava davanti a un pezzo di metallo ed Eöl sapeva di non essere bravo con le persone. L’inizio con Iritta ne era stata prova a sufficienza e, per quanto lei prendesse tutto con una risata, non sempre quello che lui le diceva era gentile.

Quando però il bambino prese a camminare da solo, Eöl lo trovò spesso nella fucina. Se all’inizio aveva pensato che fosse la curiosità molesta tipica della madre, quando il piccolo gli chiese cosa stesse facendo e, con il tempo, gli pose altre domande più precise, Eöl si rese conto che quello era davvero suo figlio. Quello era il suo erede.

A lui avrebbe lasciato le sue conoscenze e non a qualcuno dei Naugrim.

Così, appena il bambino sembrò abbastanza grande e in forze per assisterlo, lo tenne con sé in fucina e gli insegnò i segreti della sua arte, prima ancora di fargli toccare gli attrezzi. Gli mostrò come riconoscere la temperatura dal colore, come colpire il metallo per ottenere effetti diversi, lo portò nel bosco e gli fece vedere come riconoscere i metalli dalla semplice pietra.

Iritta si tenne lontana dalla fucina e, quando le chiese il perché, lei rise e disse: «Voglio lasciarvi dei momenti tra padre e figlio. Non può che farvi bene!»

Eöl, però, non portò il bambino con sé nei viaggi dai Naugrim. E a ogni ritorno, il bambino restava incollato a Iritta e lo guardava con risentimento.

«Non capisce perché tu lo lasci per lunghi periodi di tempo» gli spiegò Iritta, una volta, quando lui le domandò se avesse notato quel comportamento, e scostò la coperta dal suo lato del letto.

«Non posso portarlo con me».

«Perché non provi a spiegarglielo?»

Eöl la guardò. «Non gliel’hai spiegato tu?»

Iritta sospirò e gli si distese di fianco. «Certo che l’ho fatto, ma non è la stessa cosa, lo sai?»

Eöl sbuffò, coprì la candela e si distese, rivolto verso di lei. «Lo hai accettato tu, lo può accettare anche lui. Sarà la norma, finché non sarà abbastanza grande per seguirmi».

«Devi solo dirglielo, Eöl». Il suo nome suonava sempre esotico detto da lei. «Da te suonerebbe meno come una scusa».

Eöl trovò un fianco di Iritta, sotto le lenzuola, e si avvicinò a lei, che gli passò un braccio intorno al collo.

«Come fai a sapere sempre cosa fare?»

Iritta ridacchiò e gli baciò le labbra. «Se ti sto facendo credere di saperne più di te, sono solo molto brava a illuderti».

Alla fine, però, Eöl non spiegò al bambino dei suoi viaggi.

C’erano volte in cui il suo ritorno creava una strana atmosfera, soprattutto col passare degli anni. Iritta lo accoglieva sempre sorridente e gli riempiva le orecchie del chiacchiericcio che gli era diventato caro. Lo sguardo del bambino, però, era così duro da essere tagliente. E nemmeno averlo con sé in fucina lo ammorbidiva.

«Perché mi guarda così?» chiese a Iritta, a un certo punto.

Lei aveva scrollato le spalle con un «Sei tu che non gli hai dato spiegazioni», e si era accoccolata contro di lui.

Quegli sguardi da una creatura così piccola lo mettevano a disagio, così prese l’abitudine di portare Iritta e il bambino nella foresta a passeggiare, di notte, invece di rimettersi subito al lavoro al ritorno dai viaggi. La soluzione sembrò funzionare, soprattutto quando iniziò a chiedere il parere del bambino su idee che aveva avuto. Erano cose per cui aveva già trovato una soluzione, ma valeva la pena di sentire un parere in più per la gioia che emanava Iritta, quando lui faceva domande al bambino.

«Diventerò un grande fabbro come Fëanáro

Quelle parole arrivarono durante una passeggiata e obbligarono Eöl a fermarsi e a guardare Iritta. Cosa gli aveva raccontato? Nella sua casa quel nome non veniva pronunciato, né quella lingua usata. Come avrebbe potuto imparare quel nome se non da lei?

«Mi ha chiesto delle storie di fabbri e non ne conosco molte» si giustificò Iritta quella sera, come cercando di far tornare il colore sul suo viso. Eöl sapeva di avere un brutto colorito: da quando aveva sentito quel nome nella foresta, Lammaite e Sthalgon non avevano fatto altro che sottolinearlo.

«Non potevi inventarne una?»

«Non mi è passato per la testa» disse Iritta. Si sedette di fianco a lui sul letto e sospirò. «È che più lo guardo, più mi fa pensare ai miei fratelli».

Eöl chiuse gli occhi. Il bambino era sempre più Golodh a ogni anno che passava, era vero. Ma i Golodhrim dovevano davvero togliergli anche il frutto dei suoi lombi? Non bastavano loro le stelle e la pace, un giorno avrebbero reclamato anche sua moglie e suo figlio?

Era un pensiero tremendo e tentò di impegnare il bambino il più possibile nella fucina con lui, nella speranza di tirar fuori il Kwende dal Golodhrim in cui il piccolo si stava trasformando.

Quando il bambino compì dodici anni, Eöl aveva passato con lui abbastanza tempo da sapere quale era la sua caratteristica più importante e quale sarebbe stato il suo nome.

Tenendolo sul palmo delle mani, Eöl gli porse un martello, che gli aveva fatto tenendo in conto la sua età e il suo livello di conoscenza. «Questo è il tuo primo strumento, Maeglin. Prenditene cura come se fosse una parte di te».

Per la prima volta, lo sguardo del bambino – di Maeglin – si fece meno tagliente: divenne liquido e fuggì dal suo per posarsi sul martello, e tese le mani per prenderlo.

Quando iniziò a fare i suoi primi lavori da solo, Maeglin preparò rozzi attrezzi per la cucina per Lammaite, che li accettò come se fossero i migliori artefatti che avesse mai visto. Poi, su suggerimento di Eöl, provò a lavorare su coltelli che regalò a Sthalgon e provò a realizzare punte di freccia rozze e mal bilanciate.

Eöl lo aiutò, tra un lavoro e l’altro e, al compimento del cinquantesimo anno, gli mise a disposizione un’incudine tutta per lui. Questa volta, però, gli occhi di Maeglin non brillarono di gioia. Brillarono per altro.

«I tuoi parenti fabbri» disse Eöl a Iritta, quella sera, «come affrontavano il loro lavoro in fucina?»

Erano anni che non toccavano l’argomento con Iritta e Maeglin non aveva più commesso l’errore di pronunciare nomi di Golodhrim in sua presenza, ma quando Eöl tornava a casa, per quel poco che lo sentiva parlare, si accorgeva dell’accento diverso. Era appena percettibile, ma per Eöl era così estraneo che attirava subito la sua attenzione. Era lo stesso accento che rendeva il Sindarin di Iritta morbido e armonioso, non la cantilena che Eöl era abituato a sentire dai Sindar.

Non aveva fatto commenti a riguardo. Se qualsiasi cosa stesse facendo Iritta non avrebbe creato scompiglio nella sua pace, a lui non importava. Non poteva sopprimere la natura di sua moglie, ma poteva plasmare quella di suo figlio perché si lasciasse alle spalle quella luce malsana che gli illuminava gli occhi quando aveva un’idea da sviluppare in fucina.

Iritta pettinò la punta dei capelli e sollevò lo sguardo al soffitto. «Il fratellastro di mio padre ha sempre avuto la tendenza a sparire per giorni, consumato dal suo lavoro, e presto anche uno dei miei cugini, l’altro fabbro, ha iniziato a seguire le sue orme».

Eöl intrecciò le dita sullo stomaco. Quello gli diceva poco o niente. Non poteva andare nello specifico con Iritta, perché sapeva che lei avrebbe giustificato Maeglin, come aveva fatto altre volte.

Ma quello era il comportamento che lo avrebbe strappato a lui e consegnato ai Golodhrim. Maeglin era suo figlio prima di tutto, non uno dei loro principi. I parenti fratricidi di sua madre non potevano rubarglielo.

Così, Eöl portò Maeglin a vedere da vicino la sua armatura in galvorn e la spada Anguirel, fatta di stelle. Gli raccontò quel che potevano fare e il materiale di cui erano composte, rispose alle sue domande, ma Maeglin non ne pose nessuna a cui non potesse ricevere risposta.

«Mi insegnerai a lavorare il galvorn?» gli chiese, infine.

Eöl si obbligò a tirare gli angoli della bocca in un sorriso, che aveva visto funzionare quando era Iritta a farlo.

«Sarai l’unico a conoscerne il segreto».

Maeglin sgranò gli occhi e tornò a guardare l’armatura, attento a controllare la sua espressione mentre accarezzava le placche nere e lucenti.

Quando disse a Iritta delle sue intenzioni, il sorriso che lei gli rivolse avrebbe potuto compensare il disagio di guardare Maeglin negli occhi. Iritta, saltò sul letto, lo abbracciò e gli baciò una guancia, con una risata.

«Sono sicura che lo farai tanto felice!»

Eöl le passò un braccio intorno alla vita e, quando lei gli posò la testa sulla spalla, poggiò il mento sui suoi capelli. «Non che lo dimostri molto».

Iritta sospirò. «Non capisco perché lo trovi freddo con te. È solo... chiuso. Con me chiacchiera un sacco e mi sorride».

«Ho passato tanto tempo con lui, cos’altro posso fare?» Non lo sapeva, davvero. Provava a coinvolgerlo, a renderlo partecipe di qualcosa così intimo e personale come il lavoro in fucina, ma non otteneva l’effetto sperato. Gli sguardi di Maeglin restavano freddi e, anche quando sembrava provare qualche emozione, finiva per celargliela.

«Non eri così anche tu?» chiese Iritta, accarezzandogli il petto. «Naureth ha sempre detto che tu eri taciturno e scostante».

«Ma non con uno solo dei miei genitori».

Iritta ridacchiò. «Non riesco proprio a immaginarti alla stessa età di Maeglin».

Eöl corrugò la fronte e la guardò, strappandole una risata.

«Non ero come lui, Iritta. Alla sua età ero in viaggio verso queste terre, Naureth mi ricorda scostante perché non aveva avuto niente di meglio da fare se non tormentarmi e chiedermi come stavo e se avevo bisogno di aiuto e altre sciocchezze».

Iritta sollevò la testa per guardarlo. «Perché sospetto che avesse dei buoni motivi per preoccuparsi di te?»

Perché lo conosceva bene e quella sua mente troppo sveglia aveva già capito cosa fosse successo. Eöl chiuse gli occhi e sbuffò.

«Oh, Eöl, le situazioni erano diverse, questo lo capisco» disse Iritta, posandogli la guancia sul petto. «Vuoi che passi del tempo in fucina con voi? Vederci insieme potrebbe portarlo ad avere con te lo stesso comportamento che ha con me. Con alcuni animali si fa così–».

Eöl premette le labbra sulle sue e la zittì.

«Ti ringrazio, ma non credo che possa servire. Non è un animale, è nostro figlio».

Iritta ridacchiò e lo baciò. «Non è neppure del metallo da plasmare».

Eöl sospirò e lei rise e abbandonò di nuovo la testa sul suo petto.

«Avevi compagni di viaggio della tua età?»

Avevano cambiato discorso, quindi. Non che lui fosse contento del nuovo argomento.

«No, erano tutti più grandi».

«E come sei diventato il signore di Naureth, Cútirion, Lainedhel, e gli altri? In questa casa credo siano tutti più antichi di te e Naureth potrebbe benissimo essere la signora al posto tuo!»

Eöl le passò le dita tra i capelli. «Non importa l’anzianità, tra noi. Nelle tribù a Est, i nostri capi erano gli Inconcepiti, perché loro sono i più vicini all’idea iniziale dell’Uno e per questo più degni a guidarci. Per vivere, invece, ci si raduna sempre intorno a chi porta sostentamento alla comunità.

«Qui nell’Ovest, Elu Thingol è quanto di più vicino c’è a un Inconcepito ed è sposato con Melian, per questo ho giurato fedeltà a lui prima che si rinchiudesse nel suo regno.

«Per chi, come me, non voleva vivere dentro la Cintura, le mie capacità di fabbro permettono di sopravvivere e quindi loro sono al mio servizio. Con le mie capacità ho comprato questo bosco e questa libertà, e con queste stesse capacità porto il necessario al palazzo. In cambio, loro si occupano delle piccole faccende quotidiane di cui io non posso occuparmi».

«Da noi non funziona proprio così».

«Immaginavo».

Iritta gli tirò uno schiaffo sul petto ed Eöl aprì gli occhi. «Non dirlo con quel tono».

«Quale tono?»

Lei inarcò le sopracciglia. «Sai benissimo quale. Come se le nostre usanze fossero corrotte, non solo diverse. Anche noi ci rimettevamo in mano alle creature più vicine all’Uno, ma nel nostro caso non erano altri della nostra stirpe, ma i Belain stessi. Il principio è lo stesso, come vedi, quel che cambia sono le realtà con cui abbiamo avuto a che fare».

«Allora perché siete fuggiti da loro?»

Il viso di Iritta si oscurò. «Perché tutti commettiamo errori e ribellarci e farci maledire è uno di questi». Tracciò un cerchio sul petto di Eöl. «Venire nella Terra di Mezzo è stato un errore che abbiamo pagato con troppe vite e che continueremo a pagare».

Considerava un errore anche averlo incontrato? Eöl non osò chiederglielo.



I picchi più distanti dei Monti Azzurri si perdevano tra le nubi basse, eppure riuscirono a strappare un’espressione a Maeglin. Lo osservò seguire con gli occhi la prima linea di montagne, stagliarsi blu all’orizzonte, e chiudere appena le palpebre per scorgere il resto. Era strano vederlo così rapito dal paesaggio, ma era uno strano buono.

Ed era stata Iritta a convincere Eöl a portarselo in viaggio, nonostante Maeglin non avesse ancora raggiunto la maggiore età.

«Quale differenza fanno trent’anni? È abbastanza grande, puoi portarlo con te!»

Non parlavano mai di Maeglin davanti a lui, perché Eöl non sentiva di potersi aprire di fronte a lui, solo con Iritta poteva, e lei questo lo sapeva e si tratteneva. La loro camera da letto era un santuario in cui potevano dirsi qualsiasi cosa, per quanto fosse un limite fastidioso.

Prima della nascita di Maeglin quel palazzo era stato suo, suo e di nessun altro. Non aveva mai temuto di dire qualcosa, o che le sue parole raggiungessero orecchie che non avrebbero dovuto ascoltarle. Ma Maeglin lo bloccava, solo parlare della fucina dissolveva quell’aria che circondava suo figlio. Quello era l’unico momento in cui a Eöl sembrava di capirlo.

Ma da lì, a portarlo con sé dai Naugrim...

«Di che utilità mi può essere? Non sto andando in gita di piacere, sto andando per il mio lavoro».

Iritta aveva spinto le labbra all’infuori. «Deve imparare a fare il tuo lavoro anche dai Naugrim».

«Non sa il Khuzdul».

«Glielo potresti insegnare. Ma non sarebbe un grosso impedimento, ti ho sentito parlare quasi solo in Sindarin con i Naugrim».

Eöl aveva guardato Iritta e sospirato. «Sapere il Khuzdul vuol dire avere un legame di fiducia. Mi hanno concesso di imparare la loro lingua, perché è fondamentale per dimostrarmi di non avere nulla da nascondermi. È una dimostrazione di stima che mi hanno fatto e non la concederanno a chiunque».

«E in questo cosa influirebbe la presenza di Maeglin? Parlate tutto il tempo in Khuzdul ai Monti Azzurri?»

«Sto portando un estraneo nelle loro fortezze, sfruttando la fiducia che mi hanno dimostrato. Potrei anche avergli insegnato il Khuzdul senza il loro permesso. Devo chiedere se posso portarlo con me e non è detto che mi venga concordato».

Iritta aveva inarcato le sopracciglia. «Come la stai facendo difficile! Scrivi loro una lettera».

Eöl aveva corrugato la fronte. «E mandarla a Est come? Con Cútirion?»

Iritta aveva sbuffato e si era lasciata andare con la schiena sul materasso, le braccia e le gambe aperte, come una stella. Eöl si era seduto vicino a una delle sue gambe.

«A me sembra che tu stia facendo il difficile» aveva detto Iritta. «Quello che sento è: gne, gne, gne, non voglio passare del tempo da solo con mio figlio, gne, gne, gne, non voglio farlo entrare nel mio gruppetto esclusivissimo, gne, gne, gne, non voglio che mi rubi i compagni di giochi, quando si dovesse dimostrare migliore di me».

Eöl aveva stretto gli occhi verso di lei e Iritta si era sollevata su un gomito.

«I gruppetti di voi maschi li ho dovuti sopportare con i miei cugini e ne sono stufa ora come ne ero stufa allora. Maeglin non ha cugini da cui farsi escludere, quindi ci pensi tu? Non volevi che diventasse il tuo erede nella fucina? Conoscere i Naugrim gli sarà utile!»

Eöl non ricordava nemmeno come Iritta lo avesse convinto alla fine. Forse erano state le sue argomentazioni martellanti, o forse era stato come si era seduta cavalcioni su di lui e lo aveva cavalcato senza alcuna pietà, finché Eöl non aveva acconsentito a inviare un messaggio a Nogrod.

Poi i Naugrim avevano risposto e ora si trovava in viaggio verso i Monti Azzurri con Maeglin e un permesso speciale per farlo entrare, come suo apprendista.

Un altro motivo per cui Eöl non era contento di quel viaggio era la memoria di quel che era successo con Vindálf. Aveva iniziato a fare affari con un’altra famiglia del Nogrod, dopo quell’avvenimento, ma temeva ritorsioni da parte del clan di Vindálf. Sapeva cosa si sussurrava della sua morte.

Non avrebbe mai voluto che Maeglin offrisse al figlio di Vindálf la scusa giusta per fargliela pagare.

«Non lasciare mai il mio fianco, dimostrati interessato e non fingere di capire quando parleremo in Khuzdul. Se vedranno che non ti ho insegnato niente, potrebbero accordarti il permesso di imparare la loro lingua».

«Ma alcune–».

Alcune parole e frasi gliele aveva insegnate, sì. Nel caso, trovandosi da solo, avesse sentito qualche discorso di una qualche utilità per Eöl. Era stato obbligato a portarlo con sé e a rallentare il viaggio, aveva messo a buon uso quel peso in più e quel ritardo.

«Per questo devi fingere di non capire». Eöl guardò Maeglin, che aveva la fronte corrugata e lo sguardo fisso sulle mani strette alla criniera del cavallo. «Lo prenderebbero come un tradimento, se sapessero che capisci qualcosa. Come se io non mi fidassi di loro».

Maeglin aveva una mente sveglia e sembrava portato per l’apprendimento delle lingue: era stato rapido a imparare quel che gli aveva insegnato, al punto che Eöl si era spinto più avanti di quanto intendesse all’inizio. Ma era meglio così. Dei Naugrim si fidava, per la maggior parte del tempo, e sapeva anche di dover tenere gli occhi aperti. E ora Maeglin era i suoi occhi e le sue orecchie.

I Naugrim accolsero Maeglin meglio di quanto Eöl si fosse aspettato e diedero una festa in loro onore la sera del loro arrivo. Il giorno successivo, si misero al lavoro e le domande che gli pose Maeglin, tutte in Sindarin, lo riempirono d’orgoglio e colpirono i Naugrim.

Alla fine del viaggio, Eöl ottenne il permesso di insegnare a Maeglin il Khuzdul e poteva già pregustare la gioia di Iritta quando glielo avesse detto.


* * *


Restare da sola a palazzo, quando anche Lómion iniziò a seguire Eöl nei viaggi per i Monti Azzurri, non le fu così gravoso all’inizio. Approfittava del tempo libero per passeggiare da sola per Nan Elmoth, a piedi o su Ilkalinto – non più quello con cui era arrivata, ma un altro con quel nome. I sentieri che la foresta le mostrava erano sempre diversi e, un giorno, quando ormai Lómion era un adulto, in pratica, ed erano passati quasi ottant’anni da quando aveva sposato Eöl, un sentiero la condusse al limitare degli alberi.

Írissë lasciò che i suoi occhi si abituassero alla luce del sole fuori Nan Elmoth. I prati erano verdi e il cielo sembrava azzurro, privo di nuvole, e poteva quasi scorgere l’Himring pallido e distante. Chissà se, mettendo piede fuori dalla foresta, avrebbe potuto imbattersi nei suoi cugini. Magari Tyelko era a caccia, o magari la stava cercando. Magari avrebbe potuto portare Lómion a vedere i suoi parenti Noldorin.

La nostalgia la colpì al cuore, del tutto a tradimento.

Non credeva che le potesse mancare tanto cavalcare tra i prati, vedere la luce del sole e i picchi delle montagne intorno a Ondolindë. Aveva raccontato a Lómion della Città dai Sette Nomi e di Turno, di Itarillinkë, fino a raccontargli della ribellione e di suo nonno, e mai per un attimo aveva sentito quella nostalgia.

Ora, però, guardare la luce del sole, così vicina e impossibile da raggiungere fu come aprire una ferita che lei non aveva mai pensato di avere.

Sarebbe uscita da Nan Elmoth, sarebbe andata a visitare Tyelko e Curvo, se avesse avuto la certezza che la foresta l’avrebbe riaccolta tra le sue braccia. Non poteva abbandonare Lómion. Non poteva abbandonare Eöl. Non senza avvisarli.

Ma, se fosse tornata a casa, chi le avrebbe assicurato che quel sentiero sarebbe stato ancora lì?

Írissë voltò Ilkalinto e tornò a palazzo.

La scelta era semplice da fare.

E la ripeté per i mesi e gli anni che seguirono, ogni volta che la foresta – traditrice – le presentò davanti quella fila di alberi illuminati dal sole.

Ma Lómion si rese conto che qualcosa in lei non andava, quando le chiedeva di raccontargli ancora la storia di Ondolindë e della sua fondazione, di Itarillë e di Fëanáro Curufinwë. Írissë lo accontentava, ma col cuore che le si stringeva a ogni ricordo.

Una sera, fece a Eöl la proposta che avrebbe voluto fargli da quando Lómion era nato.

«E se lo portassimo a conoscere i suoi parenti? È così solo qui».

Eöl si irrigidì, Írissë lo sentì attraverso il materasso e il silenzio che lo circondò. Finse di credere che lui stesse dormendo, nel buio della loro camera, e non ripeté la domanda. Se aveva imparato qualcosa in quegli anni, era che Eöl odiava tutti i Noldor.

Tranne lei.

Forse.

O forse, con lei, riusciva a dimenticare le sue origini, riusciva ad andare oltre alle loro stirpi separate secoli addietro, per vedere solo quello che condividevano.

Una vita, una famiglia, amore.

Lómion non era altro che l’incarnazione di quel loro amore e Írissë era felice di vederli insieme, padre e figlio, a lavorare nella fucina, a discutere della forgia.

Poteva accettare di non nominare i suoi familiari se quello avrebbe reso l’animo di Eöl più tranquillo e migliorato il rapporto con Lómion.

E che diritto credeva di avere lei, di voler rivedere suo fratello, quando secoli addietro aveva rifiutato la sua compagnia e la sua ospitalità? Quando non aveva aspettato che tornassero Tyelko e Curvo ed era partita all’avventura, come se quelle fossero le terre in cui era cresciuta e che conosceva come il palmo della sua mano?

Eppure... eppure Írissë sapeva che avrebbe rifatto tutto da capo.

Aveva sperimentato una libertà che non aveva mai provato prima, aveva conosciuto Eöl e i suoi servitori, aveva avuto un figlio che non aveva mai creduto di volere. E certe libertà avevano un prezzo.

Soprattutto quando una maledizione pendeva sulla loro testa. Se, per avere amore e felicità, avesse dovuto sacrificare quella parte di sé che amava i suoi fratelli e i suoi cugini, lo avrebbe fatto. Perché non avrebbe potuto esserci un’altra possibilità. Se quella vita in Nan Elmoth, lontana dalla famiglia di origine, era tutto quello che avrebbe potuto mai ottenere, non si sarebbe lamentata.

Sì, avrebbe rifatto tutto. Avrebbe pagato il prezzo.

Però, col passare del tempo, il desiderio di rivedere le fontane zampillanti di Ondolindë si accentuò. E Írissë smise di uscire nella foresta quando Eöl era assente, per timore di rivedere quel sentiero e fare la scelta sbagliata.

«Non hai mai voglia di tornare a Est, vedere che ne è stato delle persone che hai lasciato indietro? O soltanto rivederle, dopo tutti questi anni» gli chiese una sera.

Eöl si girò nel letto e le diede le spalle. Oh, lui aveva già capito dove lei voleva andare a parare.

«No, perché saranno tutti morti. E se anche non lo fossero, ho lasciato quella terra perché i miei genitori non si trovavano bene e so che, col passare degli anni, avrei compiuto la loro stessa scelta. Non tornerei mai a Est, la mia casa è qui, ormai, anche se la vostra lampada del giorno brucia, e oscura le stelle».

Írissë si avvicinò alla sua schiena e posò la fronte tra le scapole di lui.

«Io vorrei rivedere mio fratello. Non per restare da lui per sempre, solo per mostrargli suo nipote, farli conoscere, poi tornerei».

«Perché tornare al luogo da cui sei fuggita? Non c’è più niente per te da tuo fratello».

«C’è mio fratello. Non mi terrà con sé a lungo, non quando qui ci sei tu. Ma vorrei vedere se sta bene, cosa fa mia nipote, come–».

Eöl non rispose più, ma Írissë rimase stretta a lui per tutta la notte.

Il mattino dopo, le braccia di Eöl erano strette intorno a lei e sul dorso del suo naso e su una guancia c’erano tracce asciutte, appena visibili, che sotto le labbra di Írissë sapevano di sale.

Passò molto tempo, prima che Írissë facesse un secondo tentativo, ma incontrò di nuovo il silenzio di Eöl e non tentò una terza volta. Quelle lacrime asciugate sul viso spigoloso di Eöl erano state una vista troppo terribile per voler rischiare di nuovo. Eöl non poteva piangere. Írissë non poteva farlo piangere.

Magari, un giorno, ci sarebbe stata pace, Eöl avrebbe incontrato un altro Noldo che avrebbe conquistato la sua fiducia e avrebbe considerato la possibilità di incontrare Turno.

Ma, prima che questo potesse avvenire, Írissë scoprì che anche Lómion stava facendo le sue stesse richieste a Eöl.

Il giorno precedente alla partenza di Eöl per i Monti Azzurri, per una festa nel Nogrod, Írissë si fermò nell’ombra del corridoio fuori dallo studio, bloccata sui suoi passi dalla voce di Lómion.

«Sono a poca distanza da qui, non dovremo avventurarci in territori pericolosi» disse lui.

«Maeglin, tu sei mio figlio» disse Eöl, la voce bassa e minacciosa, «non un Golodh. Non voglio che tu abbia a che fare con gente che non ha esitato a uccidere i propri cugini per avere le loro navi, che ha invaso questi territori e portato le loro guerre tra questa gente pacifica. Non sono venuto nel Beleriand per combattere, solo venuto nel Beleriand per vivere in pace».

«Sono anche un Golodh, perché Golodh è mia madre. Negarlo non mi renderà più Morben di quanto non sia, non mi renderà come te».

Un rumore di legno e vetro che si infrangeva a terra e Írissë premette le mani alla bocca, per non emettere un verso. Cos’era appena successo?

«Morben, cosa credi che voglia dire Morben?» sibilò Eöl. «È davvero inferiore l’oscurità stellata alla luce dei Golodhrim? La luce corrompe, la luce indebolisce, credevo lo avessi capito come lo ha capito tua madre».

«L’oscurità corrompe quanto la luce, se non di più. Guardati, chiuso in questo palazzo, all’ombra di alberi maledetti, esci solo per andare sotto terra con i Naugrim» disse Maeglin. «Tieni qui imprigionata mia madre, perché temi che se rivedesse la luce, potrebbe scegliere di fuggire e non guardarsi più indietro. E farebbe bene, non sei altro che un mo–».

Un altro rumore, questa volta di una sedia e di un corpo che cadevano sul tappeto di pelliccia. Írissë immaginava Lómion a terra, tra gli strumenti della scrivania rotti, e dovette farsi forza per non entrare nello studio e intervenire.

E se fosse stato Eöl quello a terra?

No, non era possibile.

«O forse non lo hai capito. Non diresti queste assurdità, se avessi capito. Tua madre è qui per sua scelta, io non ho imprigionato nessuno. Non ti avrà messo in testa lei tutte queste idee di vedere i tuoi parenti Golodhrim? Cosa ti ha raccontato di loro? Di come sono stati valorosi, mentre affondavano le spade nei ventri dei marinai disarmati? Mentre macchiavano di sangue il porto al di là del mare? Mentre davano fuoco a quelle navi pagate a così caro prezzo? Qualsiasi cosa ti abbia raccontato tua madre, non sono altro che le parole di una di loro, una Golodh dalle mani sporche di sangue».

Írissë non poté più ascoltarlo. Scivolò lungo la parete, lontano dalla porta, finché la voce di Eöl non fu distante e poco chiara.

Non poteva più sentire quelle parole.

Una Golodh dalle mani sporche di sangue.

Lui non aveva mai cambiato idea su di lei e sul suo popolo. Aveva forse creduto che lei si fosse sottomessa o avesse accettato di essere sporca e corrotta?

Ma Írissë non pensava niente di tutto questo! Ed era stata convinta che Eöl avesse messo da parte la divisione delle loro stirpi. Che avesse capito le loro ragioni o almeno le sue. Che riuscisse a distinguere chi era colpevole e chi lo era di meno.

Si era sbagliata. Oh, come si era sbagliata.

E ora lei e Lómion erano in trappola in quel palazzo buio, prigionieri del suo padrone.






Nota dell'autrice


Doom dooom dooooooom!

Questo non è stato un capitolo facile da scrivere, ma per ragioni diverse dai due precedenti. Trattare ottant’anni in una quantità di parole moderata, per non uccidere gli occhi di chi legge al computer (sono sensibile all’argomento!) con un capitolo chilometrico, e soprattutto senza raccontare e rendere il tutto noioso e informativo... ecco, è qualcosa che non ho mai fatto, non da tre anni a questa parte. Preferisco fare salti temporali e mostrare momenti precisi, piuttosto che raccontare cosa è successo da un punto all’altro.
In questo caso, sono stata obbligata per questioni pratiche o avrei dedicato venti capitoli alla vita familiare e me ne sarei venuta fuori con un’altra long non prevista!

Nota pippica a parte: MAEGLIN!
E, più in generale, famiglia Nan Elmoth omg!
Ho evitato il POV di Maeglin di proposito, perché volevo esplorare la dinamica familiare dalla testa dei suoi genitori, soprattutto perché questa è una What if e le cose dovevano essere diverse anche in questo ambito.
Per la conclusione, non resta che aspettare il prossimo capitolo che, avviso, chiude il cerchio col primo. Traete le vostre conclusioni, anche se credo che praticamente tutte le mie commentatrici conoscano già le mie intenzioni LOL.

La questione del nome a dodici anni è una speculazione nata dal capitolo originale: se nel canon non si conoscono le ragioni per cui Eöl non dà un nome a Maeglin fino a quell'età, pensando a un Eöl Avarin ho ipotizzato che potesse essere un'usanza degli Avari. Idem la questione degli Inconcepiti e delle comunità.

Poi, vabbè, quando è solo una metà della coppia a sacrificare una parte importante di sé per l'altro, quando quella metà si rende conto che dall'altra parte non c'è lo stesso impegno... eh.

Chiudo qui, perché sennò non mi lascio nessuna riflessione per le eventuali risposte!

Grazie mille per chi ha letto fin qui, ci vediamo mercoledì prossimo con l'ultimo capitolo, stesso posto, stessa ora (circa),

Kan


   
 
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